Il relatore ci parlerà di come cambia l’Italia sotto l’aspetto demografico, prendendo in esame tre aspetti:
– la longevità della popolazione;
– la Seconda Transizione Demografica (std);
– l’immigrazione.
I cambiamenti nella popolazione costituiscono il quadro generale entro cui si innestano le potenziali sfide per il welfare, conferendo diversi gradi di percorribilità alle soluzioni.
Come cambia la popolazione nel nostro paese?
Consideriamo la struttura della popolazione per età: il grafico che meglio la rappresenta è quello a barre orizzontali per ?coorti? di 5 anni (la classica ?piramide delle età?): il confronto tra il nostro paese e uno ad alta natalità (ad es. il Marocco) mostra come da noi la base della piramide si stia assottigliando quando si scende sotto i 35-40 anni (i figli del baby boom degli anni Sessanta
Quali sono le ragioni di questa dinamica, che ritroviamo in quasi tutti i paesi occidentali? Essenzialmente tre: si vive più a lungo, sono cambiati i comportamenti familiari e cresce il fenomeno della migrazione.
Vediamo dapprima la longevità. La ?speranza di vita? nei paesi sviluppati mostra un progresso continuo negli ultimi 50 anni (da 69 a quasi 79 anni), nonostante lo scetticismo di molti analisti. A questo progresso del valore medio (dovuto soprattutto a minor mortalità in età giovanile) ora si associano altri cambiamenti che toccano la durata dell’età anziana. Siamo di fronte alla cosiddetta ?società dei 100 anni?, (gli ottimisti parlano di una speranza di vita di 100 anni per un bambino nato nel 2000) che pone sicuramente nuove sfide per il welfare. Nella tripartizione del ciclo di vita, diventa sempre più vasto lo spazio dell’età anziana. Il sistema pensionistico e la spesa sanitaria dovranno essere reimpostati su basi nuove, sarà necessario riformare le riforme?
Il panorama italiano presenta alcuni aspetti peculiari, rispetto ad altri paesi occidentali: i figli vivono in un contesto di prossimità molto più spinto (oltre la metà dei genitori sopra i 55 anni vive con i figli e solo una piccola percentuale di questi vive a oltre 25 km di distanza), solo la Spagna ci somiglia, mentre per altri paesi, in particolare quelli del nord Europa, le percentuali quasi si invertono; allo stesso modo, i contatti della famiglia con i figli sono molto più frequenti nel nostro paese.
Fino agli anni Novanta però, la std sembra fermarsi ?alle Alpi e ai Pirenei?, coinvolgendo cioè molto poco
Italia e Spagna. Oggi però assistiamo a una evidente diffusione dei nuovi comportamenti anche in questi
notare che in tutti i paesi sono i maschi a restare di più in famiglia). Sempre per la stessa fascia di età, la percentuale di giovani coniugati o conviventi vede l’Italia in coda (19-33%) mentre gli altri paesi si situano intorno al 30-50% (il primo dato è quello della popolazione femminile, più ?precoce?). In Italia ci si sposa, o si convive, decisamente più tardi.
È interessante analizzare più in dettaglio il motivo di uscita dalla famiglia, per i 35-40enni del nostro paese: i 2/3 dei maschi del Nord-Centro se ne vanno di casa per sposarsi (40%), convivere (10%) o per lavoro-studio (16%), mentre al Sud e Isole le stesse motivazioni riguardano i 4/5 dei giovani (matrimonio: 48%, convivenza: 3%, lavoro e studio: 25%); per le femmine, aumenta di circa 20% la percentuale delle uscite per matrimonio.
Un altro dato che mostra l’effetto della std è quello della percentuale di convivenze come prima forma di unione. Al Nord e Centro Italia si constata un’impennata che porta il valore dal 3-5% degli anni anteriori al 1960, fino al 25% del 1970 (nei paesi scandinavi, questa percentuale supera oggigiorno il 90%).
Le nascite, nel nostro paese, sono cresciute leggermente negli ultimi 5 anni (da 543.000 nel 2000 a 585.000 nel 2005), ma è aumentato il numero di nati fuori dal matrimonio (da 10,2 a 16%), valore che in altri paesi europei raggiunge il 40-50%. I matrimoni, nello stesso periodo sono calati (da 284.000 a 245.000) mentre è salita la percentuale di unioni civili (da 25 a 32%). Un cenno infine al tasso di divorzialità che, nel nostro paese, è cresciuto dal 3% del 1980 al 12% circa del 2000.
Abbiamo visto come la std ponga nuove sfide per il welfare e imponga nuove scelte familiari.
– I giovani potranno mantenere a lungo l’attuale livello di permanenza nella famiglia d’origine?
– La convivenza è destinata a diventare la ?via principale? per le nuove coppie?
– Si renderanno necessari interventi espliciti (servizi, trasferimenti monetari, leva fiscale) per contrastare la bassa fecondità?
– Come intervenire per offrire uguali opportunità di fronte alla vita? (la scelta del numero di figli da parte dei genitori non dovrebbe incidere sulle opportunità del nuovo nato).
Come rispondono i diversi paesi? Esaminando la percentuale di bambini (0-2 anni) affidati a servizi di cura all’infanzia, troviamo l’Italia in posizione di coda (5%, superiore solo a Spagna e Grecia, contro il 30% di Belgio e Francia e il 65% di Danimarca e Svezia). È stato calcolato il tasso di rischio di povertà per i diversi paesi confrontando la situazione delle famiglie con due figli con quella delle famiglie che hanno più di due figli. Anche qui l’Italia è in posizione di coda: 20% dei nuovi nati rischia la povertà se ha un solo fratello contro 35% se la famiglia è più numerosa. In alcuni paesi (Svezia, Finlandia) il rischio non supera il 5% e la differenza è minima rispetto al numero di figli, fino al caso del Belgio in cui, grazie ad interventi espliciti, incorre in minor rischio di povertà il nuovo nato in famiglia numerosa.
L’Italia è diventata un paese d’immigrazione a partire dalla metà degli anni Ottanta. L’immigrazione è rapida, se si considera che nel 1980 si stimava una presenza di 1.144.000 stranieri sul nostro paese (di cui 473.000 irregolari) mentre nel 2005 siamo a 3.350.000 (con 539.000 irregolari). I paesi di provenienza vedono in testa l’Albania (316.000), seguita da Marocco (295.000), Romania (249.000) e Cina (118.000). La crescita negli ultimi anni proviene da quasi tutti i paesi, in particolare dall’Albania e dall’Est europeo, in particolare l’Ucraina.
Si stima circa un 20% di immigrati irregolari. Il valore però è fortemente influenzato da sanatorie ed interventi legislativi.
Anche l’immigrazione pone sfide importanti per il welfare.
– Come far integrare o convergere culturalmente i nuovi residenti? Possiamo imparare dall’esperienza di altri paesi, anche cercando di non ripeterne gli errori.
– Come prendere in conto il problema delle differenze religiose?
– Come porsi di fronte agli immigrati di seconda generazione? Come trattare i problemi della scuola e della cittadinanza?
Questi sono probabilmente, in prospettiva, i problemi maggiori.
Riassumendo, l’evoluzione demografica ci pone di fronte a condizioni mai sperimentate prima:
– la prospettiva di una vita molto lunga per molti;
– la prosecuzione di bassa fecondità con aumento della quota di persone senza figli;
– l’impatto della Seconda Transizione Demografica con percorsi familiari non standardizzati;
– il crescente fenomeno dell’immigrazione nel nostro paese.
Queste nuove condizioni impongono di pensare a un welfare sostenibile lungo l’asse temporale delle generazioni, non anno per anno, né quinquennio per quinquennio.
Spunti tratti dal dibattito
E.D. – Il problema della fame deriva dallo sconsiderato numero di persone che popolano il pianeta. Perché non pensare a calare di numero? L’esempio dell’evoluzione di due paesi come il Brasile e il Giappone non dovrebbe essere illuminante, in questo senso?
F.B. – Certamente esistono limiti di sostenibilità a livello mondiale, ma il problema è molto spesso di natura locale o regionale, non globale. In molte zone del pianeta non è possibile decrescere senza cambiamenti di struttura. C’è evidenza empirica dello stretto legame tra sviluppo e crescita demografica (le ?tigri asiatiche? ne sono un chiaro esempio). Più che Brasile e Giappone, si possono osservare casi come Francia e Stati Uniti, la cui influenza mondiale è variata in sintonia con lo sviluppo demografico.
G.R. – Dai dati della relazione emerge una tendenza marcata alla dissoluzione della famiglia. Quale potrebbe essere la politica più adeguata per intervenire?
F.B. – In Italia cambiano i modi di ?essere famiglia?. La centralità del matrimonio ha valenza costituzionale, oltre che religiosa. Un passo avanti potrebbe essere fatto mettendo al centro il bambino e pensare di più ai suoi bisogni che a quelli dei genitori. Ci sarà confronto con il resto d’Europa, questo è inevitabile.
B.S. – Lo sviluppo economico e quello demografico sicuramente interagiscono, ma il fenomeno ha molte variabili. Occorre trattare a parte il flusso migratorio, che si dirige verso le economie in salute.
A.B. – A livello mondiale, la popolazione può ancora crescere o deve diminuire? Che cosa dicono gli esperti?
F.B. – Non c’è accordo in letteratura, e non si sa quanto potrà ancora durare la sostenibilità del pianeta.
G.G. – Sul tema demografia e impatto sul welfare, ci sono differenze tra i due schieramenti politici italiani?
F.B. – Unione: politiche di tipo pacs; servizi (es. asili nido) o deduzioni fiscali per categorie specifiche; supporto ?antipovertà? per famiglie a basso reddito; ?bonus? compartecipato Stato/famiglia
Casa delle libertà: mantenimento del bonus di 1000 ?; quoziente familiare (unità impositiva a livello famiglia). Ci sono poi differenze sulle politiche migratorie: l’Unione pone enfasi sull’integrazione mentre la CdL propone il mantenimento del sistema attuale di quote.
G.R. – Si poteva fare di più nelle politiche dei governi, sul terreno della demografia?
F.B. – Sicuramente. Il nostro paese (come la Grecia e la Spagna) lascia molte incombenze alla famiglia. Il problema più grosso è quello dei tempi lunghi: le politiche della demografia hanno bisogno di stabilità.
Le cose da non fare? Soprattutto legare le scelte in questo campo alla legge finanziaria!!