1. Il liberalismo e il mercato

 

Un credo fondamentale della teoria economica del liberalismo classico è che un sistema totalmente dominato dal libero mercato, un sistema di concorrenza pura, conduca al massimo del benessere e dell’efficienza: a fronte di ciò esistono due obiezioni principali:

 


  1. Il massimo di benessere non implica necessariamente il massimo di equità;

  2. le economie di mercato nella loro forma ?pura?, liberistica, in molti casi danno luogo a situazioni inefficienti, su cui un opportuno intervento di regolamentazione può aumentare il benessere sociale.

 

2. Origini e caratteri del Welfare State

 

Il Welfare State è stato elaborato per rispondere a simili questioni, e il problema di cosa lo caratterizzi ha oggi importanza teorica, ma anche culturale, in quanto questa forma di gestione della cosa pubblica è attualmente oggetto di un dibattito caratterizzato da forti distorsioni ideologiche. Tali distorsioni si riflettono anche nei modi in cui questa espressione viene impropriamente intesa, quali ?Stato spendaccione? (implicante l’idea di un intervento in campo economico tanto eccessivo quanto dannoso) o ?Stato assistenziale? (ovvero una sorta di ?carità pubblica? verso i meno abbienti). A tali espressioni sarebbe preferibile sostituire il significato letterale, che suona come ?Stato del benessere?.

Il termine benessere conduce alle radici teoriche del Welfare, legate all’elaborazione realizzata intorno agli anni Venti e Quaranta del Novecento da un gruppo di economisti inglesi, fra cui Pigou e Beveridge. Costoro hanno messo in discussione le modalità con cui è possibile aumentare il benessere sociale, intendendo come ?aumento del benessere sociale? una situazione in cui qualche parte della società può star meglio senza che le altre stiano peggio. Ciò implica la presenza di condizioni in cui vi siano ?sprechi?, che possono essere acquisiti da qualcuno. Per contro, nelle situazioni definite ?ottimali? o ?efficienti? non vi sono possibilità di aumento del benessere sociale, in quanto tutto è già distribuito (non necessariamente in modo equo), e quindi l’accrescimento di una parte va a danno di un’altra.

 

3. Il Welfare come sistema di assicurazioni

 

Su queste premesse teoriche il Welfare State decolla intorno agli anni Quaranta come insieme di operazioni redistributive rispetto a inefficienze precedenti, operazioni consistenti in una serie di prelievi (realizzati mediante imposte, tasse?) convertiti in spesa pubblica (pensioni, sanità, assistenza, istruzione, interessi per il debito pubblico?). Tali operazioni possono essere considerate in gran parte forme di assicurazione, e il Welfare State, appunto, un modo in cui viene garantito un sistema di assicurazioni sociali. In particolare è interessante annotare che, oltre alla sanità e alle pensioni, anche l’assistenza è una forma di assicurazione, legata alla realizzazione del principio liberale di un mercato con il massimo di concorrenza possibile. Tale mercato presuppone infatti che ognuno possa ingegnarsi per aumentare le proprie possibilità di guadagno, e le sue scelte possano essere coronate dal successo o fallire per puri meccanismi di mercato. Ciò implica la necessità di mobilità sociale, e quindi il fronteggiamento assistenziale delle conseguenze individuali negative di  tale mobilità: alla mobilità si collega anche la scuola, che deve fornire le opportunità perché la possibilità di elevare la propria posizione sociale sia accessibile a tutti.

 

4. La crisi del Welfare

 

Il sistema di assicurazioni obbligatorie pubbliche (per sanità, pensioni, assistenza) che caratterizza il Welfare State è divenuto via via più esteso e costoso nei paesi europei fra gli anni Quaranta e la  fine degli anni Ottanta, con un generale consenso sull’aumento di entrate e uscite, viste comunque come supporto della crescita economica.  Nel caso italiano il sistema ha funzionato fino agli anni Settanta, potendo godere di un rapporto vantaggioso fra i contributi versati e la spesa pubblica, in quanto pensionati, disoccupati e persone che fruivano della spesa sanitaria producevano uscite relativamente modeste, a fronte di una consistente massa di contributori. Ciò ha favorito una gestione non lungimirante del sistema, mantenuto con contributi bassi anche quando le uscite sono aumentate. La crisi si è innescata quando il deficit pubblico, dovuto al fatto che lo Stato corrispondeva agli assicurati che riscuotevano (malati, pensionati, assistiti) più di quanto incassasse nelle assicurazioni, ha provocato un innalzamento molto consistente del debito pubblico, per finanziare il quale è stata moltiplicata l’emissione di titoli di Stato. I titoli di Stato sono prestiti che i sottoscrittori fanno allo Stato in cambio di un congruo interesse: quindi, più lo Stato emette titoli, più interessi deve pagare, il che provoca un ulteriore aumento di spesa pubblica e deficit. Il rischio è che, a un certo punto, l’esplosione della spesa pubblica provochi un crollo di fiducia da parte dei sottoscrittori circa la solvibilità dello Stato: in questo caso la caduta di domanda rispetto all’offerta dei titoli provocherebbe la bancarotta statale, con tutte le conseguenze drammatiche, anche sul piano politico, che ne derivano. Negli anni Novanta è divenuta così indispensabile un’inversione di tendenza con aumento di entrate e riduzione di spese, da cui è scaturito il malessere nei confronti del Welfare State da parte dei cittadini che si sono sentiti ?tartassati? e ?defraudati?.

 

5. Le ragioni della crisi: Stato e governo, principale e agente

 

Questa inefficienza sulle forme di assicurazione non è però ?tipica? dell’organizzazione del Welfare State, ma dipende dalle scelte politiche di chi ha governato: in altre parole non bisogna attribuire allo Stato (al Welfare State) ciò che invece è dipeso dai governi. Il rifiuto da parte della classe politica di imboccare la via inversa all’aumento del debito pubblico (aumento dei contributi per le assicurazioni, cioè della tassazione, riduzione o differimento delle somme distribuite) dipende dal fatto che chi governa preferisce in genere compiacere i suoi elettori presenti, piuttosto che preoccuparsi di quelli futuri. I titoli di Stato permettono quindi di spostare il problema in avanti nel tempo, cioè di poter continuare a pagare in modo crescente le assicurazioni senza penalizzare gli assicurati. Tale scelta ha anche il sostegno degli assicurati i quali, in genere, tendono a loro volta a limitarsi al vantaggio presente trascurando il bene delle generazioni future. L’economia politica ha anche individuato a questo proposito una particolare forma di rapporto, dominante nelle amministrazioni pubbliche ma non ad esse esclusivo, denominata ?principale-agente?. Il ?principale?, per il raggiungimento di certi suoi obiettivi, dà delega contro pagamento a un ?agente? che dovrà realizzarli, in quanto dotato delle competenze e delle risorse necessarie. L’agente possiede quindi più informazioni sul processo che non il principale, e tende inoltre a gestire il processo anche al fine di raggiungere i propri vantaggi (carriera, maggiore retribuzione ecc.) Per questo gli agenti tendono a comportarsi in modo meno efficiente di quanto sarebbe possibile nel raggiungimento degli obiettivi del principale, piegando il processo ai propri interessi e tenendo il principale all’oscuro delle informazioni che gli permetterebbero di valutare correttamente l’andamento in relazione ai propri interessi. Le amministrazioni pubbliche vengono descritte come sistemi ?principale-agente? a cascata, nel senso che dal cittadino elettore come principale del parlamentare-agente si passa attraverso una serie di anelli intermedi fino agli operatori dei servizi, ultimi agenti nella catena amministrativa che distribuisce inefficienza ad ogni livello. Da ciò scaturisce conseguentemente un problema valutativo, che non può essere risolto nella misura in cui le amministrazioni tendono a risolvere questo problema ?valutando se stesse?, creando cioè al proprio interno organismi di controllo che tendono inevitabilmente al rischio di essere autoassolutori.

 

6. Vantaggi e limiti delle forme di assicurazione privata

 

Il malessere nei confronti delle inefficienze del sistema delle assicurazioni pubbliche ha prodotto, soprattutto dalle generazioni che hanno subito i danni delle politiche di scarso controllo di cui dicevamo, un rifiuto del Welfare State in sé, a favore di privatizzazioni del sistema assicurativo avvertite come più efficienti. La forma più radicale di queste soluzioni va verso l’assicurazione su base volontaria presso privati, come appare soprattutto nei paesi anglosassoni. Ciò implica che le somme che le imprese versano allo Stato per la contribuzione assicurativa sia corrisposto ai lavoratori, i quali potranno provvedere ad assicurarsi in proprio. Questo sistema, tuttavia, tende fatalmente a un aumento dei premi per gli utenti e a una restrizione del numero di questi ultimi. Infatti, chi gestisce assicurazioni private tende ad aumentare i premi per l’impossibilità di cautelarsi adeguatamente, con informazioni complete, nei confronti dei clienti ?rischiosi?. Ciò provoca l’uscita dei clienti migliori (cioè con minor rischio di riscossione immediata e ingente dell’assicurazione) dal sistema, quindi ulteriori aumenti e così via, con un progressivo dilatarsi dell’inefficienza che tende anche a penalizzare, mediante l’esclusione, coloro che devono essere risarciti: anziani, invalidi ecc.. .

Una risposta a questa inefficienza può essere l’assicurazione obbligatoria praticata nel Welfare, cioè un’estensione generale dell’assicurazione che provoca la diminuzione media dei clienti rischiosi e quindi un abbassamento dei premi. L’assicurazione obbligatoria, come dimostra l’esempio tipico dell’rc auto, non deve tuttavia essere necessariamente pubblica: può essere comunque stipulata con compagnie private. Anche in questo caso, però, il sistema di assicurazioni obbligatorie private va incontro alle stesse difficoltà: o innalza i premi, alla ricerca del profitto, o, a fronte di situazioni sociali modificatesi in modo svantaggioso, rischia l’insolvibilità, cioè delle bancarotte il cui costo sociale si scaricherebbe comunque sulle spalle dello Stato (a rischio, in caso contrario, di effetti politicamente molto destabilizzanti).

Inoltre anche molti rapporti privati hanno caratteristiche ?principale-agente? (ad esempio il rapporto fra un fiscalista e il suo cliente), con analoghi rischi di inefficienza. Dove il privato appare migliore è nel meccanismo valutativo, incentrato in questo caso sul profitto, che dà un riscontro oggettivo dell’efficienza ma, nel caso dell’assicurato, non necessariamente a proprio vantaggio.

 

7. Il sistema misto come possibile soluzione

 

Se, dunque, il sistema delle assicurazioni pubbliche dimostra delle inefficienze, anche la sua alternativa privata non ne è esente. La tendenza attuale a voler spostare sul privato quanto è proprio del Welfare, quando non è motivata da precisi scopi di parte che confondono interesse privato e interesse generale, scaturisce dalla convinzione che la libertà della concorrenza, incentivando la responsabilità individuale, produca diminuzione dell’inefficienza e benessere sociale. Tale posizione trascura tuttavia che le condizioni di partenza sono in genere non eque, quindi che una parte dei competitori è comunque avvantaggiata rispetto agli altri. D’altronde bisogna riconoscere che l’alternativa al mercato è un sistema a pianificazione statale, che riproduce a dismisura i rapporti deleteri del tipo ?principale-agente?.

Una soluzione ragionevole potrebbe dunque essere quella di un sistema misto dove i governanti sono sottoposti alle regole di una ?costituzione economica? che fissi i limiti della loro responsabilità nell’amministrazione del sistema assicurativo, costringendoli anche ad aumentare il livello di informazione verso gli assicurati. Questi ultimi, a loro volta, dovrebbero essere responsabilizzati a un uso corretto del sistema mediante disincentivi o forme di ?compartecipazione?, come i ticket sanitari. Il Welfare, infatti, si  regge sulla capacità di raggiungere il pareggio finanziario nel lungo periodo e di evitare crisi fatali: pertanto può sopportare periodi ?in rosso?, ma richiede comunque rigore amministrativo, correttezza tecnica e trasparenza. Allo stesso tempo potrebbero essere utili forme di concorrenza con il settore privato, a condizione che vi siano comunque efficienti organismi pubblici di controllo (come l’isvap, l’autorità di controllo sulle assicurazioni).

In altre parole, si ritiene che il mercato possa essere un potente fattore di regolazione, ma che debba a sua volta essere limitato da alcune regole fondamentali, esattamente come lo devono essere i comportamenti individuali. La presenza a questo riguardo, nel campo dell’assistenza, di larghe percentuali di volontariato e ?terzo settore?, ovvero attività non-profit, richiama anche l’idea che nella ricerca di benessere sociale entrano in gioco valori fondamentali, irriducibili al puro calcolo utilitaristico e alle regole di mercato. D’altronde il richiamo ai valori, in una società laica e complessa, può essere insufficiente a garantire un efficace bilanciamento dei comportamenti collettivi: obiettivo che può essere più facilmente raggiunto mediante l’approccio più diretto della delimitazione di regole fondamentali.

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