Umanizzare lo sviluppo

Il senso del titolo della conferenza e l’auspicio in esso contenuto è di arrivare al più presto a una concezione umana di sviluppo, ovvero a un modello condiviso di sviluppo economico che sia fortemente connotato in senso umanistico e in cui determinante sia la volontà di autopromozione dei singoli e dei popoli.

Le tematiche di povertà e di disuguaglianza, conseguenza di una mancata crescita economica, sono tristemente attuali, evocate da fatti recenti come il Social Forum di Firenze e trattate talvolta con troppa superficialità e disinvoltura, soprattutto a livello mass-mediatico. La conferenza ha cercato di offrire il senso del dibattito in corso e della complessità delle tematiche. 

 

Alcuni dati sulla situazione economica mondiale

I seguenti dati, eloquenti di per sé, non necessitano di alcun commento.

Nel mondo sono 1 miliardo e 300 milioni le persone che vivono in condizioni di povertà assoluta, ovvero con meno di 1 dollaro al giorno, concentrate in alcune zone, sostanzialmente coincidenti con il Sud del mondo (il 47% vive in India).

Alla dimensione economica della povertà (valutabile sulla base del reddito), si legano indissolubilmente cause e conseguenze di estrema gravità:

nel mondo, 507 milioni di individui hanno una speranza di vita inferiore ai 40 anni;

158 milioni di bambini sotto i 5 anni sono denutriti;

842 milioni di adulti sono analfabeti;

100 milioni di ragazze, ogni anno, subiscono mutilazioni genitali;

441 persone hanno un reddito complessivo pari a quello di 2,5 milioni di individui;

il bilancio della General Motors è superiore al pil della Danimarca.

Un divario tra poveri e ricchi  è sempre esistito, ma mai così marcato come è attualmente.

 

Crescita uguale sviluppo?

La crescita economica ha sempre avuto un ruolo determinante per lo sviluppo complessivo della società. Molti studiosi si sono dedicati a questo problema e le sue radici sono molto antiche. La crescita economica è intesa solitamente come un fatto quantitativo (la percentuale di aumento del reddito o del prodotto pro capite), mentre i benefici della crescita, che consistono in un generale innalzamento delle condizioni di vita della popolazione, sono quelli che possiamo indicare con il termine ?sviluppo?. Evidentemente è semplice collegare questi due aspetti affermando che dove c’è crescita economica c’è anche sviluppo. La crescita economica è ciò che permette di rendere sempre più grande le dimensioni di quella ?torta? (per usare la stessa metafora della relatrice) che rappresenta la ricchezza di un Paese; se questa torta si fa più grande, le persone potranno stare meglio. In realtà, il problema non è così semplice. Innanzitutto, se pensiamo che valga la pena continuare a ingrandire la torta, dobbiamo considerare attentamente come distribuirla; questione, quest’ultima, che ha un legame evidente con l’attuale situazione di fortissima disparità tra gli Stati e tra le classi sociali all’interno di ciascun Paese. Inoltre, la crescita economica, che si è verificata nel mondo occidentale, non è una ricetta facilmente esportabile e riproducibile nelle nazioni più povere. Infine, come visto poc’anzi, il progresso non significa crescita economica tout court, ma spesso porta con sé criticità e lacerazioni, quali mortalità, analfabetismo, negazione di diritti.

 

Dagli accordi di Bretton Woods alla teoria dei Basic Needs

Per cercare di capire meglio le ragioni complesse della situazione attuale, la relatrice ha ripercorso i paradigmi economici dominanti dal dopoguerra ai nostri giorni.

Nell’intento di ristabilire un ordine monetario internazionale, la conferenza che si tenne nel 1944 a Bretton Woods istituì il Fondo Monetario Internazionale (fmi) e la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (birs), divenuta Banca Mondiale nel 1960. Il sistema, che si basava sulla stabilità dei cambi e dei mercati delle valute libere, doveva garantire un contesto finanziario stabile e gestire l’applicazione del Piano Marshall per la ricostruzione (La proposta di Marshall subordinava la concessione degli aiuti a un accordo tra tutti i Paesi europei, che avrebbero dovuto redigere un bilancio delle proprie risorse e delle proprie necessità in modo da consentire un aiuto organico da parte americana). Capitale e investimenti rappresentavano gli ingredienti di base della crescita e, sulla base di queste premesse, l’obiettivo prevalente di ogni Paese era quello di puntare a un tasso di crescita del reddito pro capite quanto più elevato possibile. L’idea di fondo era che i guadagni derivanti dal processo di crescita del pil pro capite e complessivo avrebbero fatto ricadere, prima o poi, i loro effetti positivi sull’intera popolazione sotto forma di maggiori opportunità economiche e standard di vita più elevati, con conseguente riduzione della povertà e delle disuguaglianze.

A metà degli anni Cinquanta era in voga l’assunto del ?Trickle down? (risparmio, accumulazione del capitale e redistribuzione del reddito); secondo questa teoria gli effetti della crescita avrebbero dovuto ?cadere a pioggia?, in un momento successivo, sulle aree periferiche e sui gruppi sociali inizialmente emarginati. In realtà, l’evidenza statistica ha dimostrato che non è sempre così: larghe fasce di popolazione non riuscirono e non riescono tuttora a cogliere i frutti della crescita, con conseguenze drammatiche, non solo di natura economica, ma anche a livello di coesione sociale e di stabilità.

Intorno agli anni Settanta cominciò a maturare una nuova visione, non più fondata sull’identità crescita=sviluppo. La percentuale di crescita del prodotto nazionale, pur mantenendo un ruolo centrale come indicatore di sviluppo, non doveva essere il solo, incontrastato protagonista. Per alcuni, l’idea di sviluppo doveva collegarsi a una strategia dei bisogni fondamentali (Basic Needs), ovvero ogni Paese doveva garantire uno standard minimo ai gruppi più poveri della popolazione, con l’obiettivo di assicurare il raggiungimento di un livello di vita piena e soddisfacente per tutti.

La grande innovazione della teoria dei Basic Needs consiste nel fatto che, mentre le teorie tradizionali della crescita economica ponevano l’innalzamento delle condizioni sociali e il soddisfacimento dei bisogni fondamentali degli individui come conseguenza del processo di crescita, tale assunto ribalta completamente la prospettiva, in quanto presuppone che solo attraverso il soddisfacimento dei bisogni umani si possa pensare di favorire la crescita economica.

 

Il Washington Consensus

Malgrado le novità introdotte dalla teoria dei Basic Needs, il paradigma dominante negli anni Ottanta è quello dell’applicazione di dottrine neoliberiste, note sotto il nome di Washington Consensus, che prevedono un approccio centrato esclusivamente su imperativi di stabilizzazione macroeconomica, i cosiddetti Piani di Aggiustamento Strutturale (pas). Tali piani prevedevano che le organizzazioni internazionali (fmi, bm) dettassero dall’alto le priorità di sviluppo dei Paesi, dando centralità alle politiche macroeconomiche neoliberiste, derugulation, liberalizzazione degli scambi commerciali, degli investimenti e dei conti di capitale. Tra il 1984 e il 1994 la Banca Mondiale ha concesso 238 prestiti per sostenere la liberalizzazione del commercio o politiche di scambio in 75 Paesi. Tutto ciò ha significato esporre alla concorrenza internazionale l’economia dei Paesi in via di sviluppo, con conseguenze devastanti per gli stessi sul versante interno, quali aumento dell’inflazione, riduzione della crescita del pil, contrazione della  spesa sociale. Senza contare le barriere protezionistiche con cui i sistemi economici più sviluppati tutelano i loro prodotti.

 

La teoria dei funzionamenti di Amartya Sen

Nel corso degli anni Novanta cominciano a levarsi voci critiche nei confronti di quest’idea di economia. In questi stessi anni si inserisce il contributo di pensiero di Amartya Sen, filosofo ed economista indiano, attualmente professore ad Harvard. La teoria dei funzionamenti da lui elaborata si pone come alternativa alle più consuete concezioni di well-being economico (comunemente etichettate come concezioni welfariste). Mentre i suddetti approcci privilegiano aspetti soggettivi del well-being, la visione dei funzionamenti mette l’accento sulla realizzazione di certe dimensioni oggettive, che Sen definisce stati di fare e di essere e che chiama genericamente funzionamenti, ovvero dei risultati acquisiti dall’individuo su piani come quello della salute, della longevità, dell’istruzione ecc. Un aspetto centrale della proposta teorica di Sen ha a che vedere con l’uso che spesso si fa di misure monetarie di well-being. All’interno delle teorie welfariste è molto diffusa la pratica di valutare il grado di well-being in base al reddito che un individuo possiede (teoria utilitaristica della crescita economica). Tuttavia, nota Sen, a parità di reddito, persone con caratteristiche diverse che vivono in ambienti diversi, finiscono col condurre stili di vita diversi. Ne consegue che è più opportuno utilizzare misure come i funzionamenti, che rappresentano il benessere in quanto tale, piuttosto che il reddito, il quale è solo uno strumento per raggiungere il benessere. I concetti di sviluppo e di benessere devono andare quindi aldilà del semplice possesso di beni o alla disponibilità di servizi, guardando piuttosto a ciò che essi permettono agli individui di fare e di essere con i mezzi ma anche con le capacità a disposizione di ciascuno. È su questo spazio delle realizzazioni e dei traguardi importanti della vita umana che occorre focalizzare l’attenzione per giudicare il benessere degli individui e lo sviluppo dei Paesi.

La teoria di Sen è molto affascinante, ma non di facile traduzione sul piano delle politiche pubbliche. Molto brevemente si può dire che la teoria dei funzionamenti assume un atteggiamento favorevole verso la fornitura pubblica di alcuni beni essenziali, come la sicurezza sociale, l’istruzione, la sanità. La presenza di tale intervento pubblico può infatti garantire la trasformazione della pura e semplice crescita economica in un aumento del benessere della popolazione.

 

Il Post Washington Consensus e le Poverty Reduction  Strategy Papers (nuove strategie integrate di lotta alla povertà)

Verso la fine degli anni Novanta si fanno sempre più insistenti le voci dissonanti nei confronti del paradigma imperante del Washington Consensus, provenienti soprattutto dal mondo accademico (A. Sen), ma anche dall’interno delle stesse organizzazioni internazionali. Non a caso, uno dei critici più feroci, Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia, è stato ?chief economist? della Banca Mondiale dal 1996 al 1999. L’opinione sempre più largamente condivisa è che se i Paesi in via di sviluppo vogliono far funzionare le riforme economiche devono affidarsi a un impulso ideologico interno e non a un condizionamento esterno. A fine 1999 bm e fmi hanno lanciato le nuove strategie integrate di lotta alla povertà, le cosiddette Poverty Reduction Strategy Papers (prsp). Le prsp identificano le strategie per superare la povertà, ovvero programmi nel settore sociale, azioni per promuovere la crescita, creazione di infrastrutture locali, buon governo. L’obiettivo principale è quello di rafforzare la capacità dei governi di gestire con larga autonomia e responsabilità programmi di sviluppo sociale e lotta alla povertà.

 

Conclusioni

Malgrado l’importanza di un cambiamento significativo di approccio al problema dello sviluppo (inteso, come detto, non più soltanto come equazione conseguente della crescita economica, ma come processo di cambiamento lento e graduale, con implicazioni sulle istituzioni sociali e politiche oltre che sulle strutture economiche e con un impatto affatto trascurabile su ambiente, povertà, democrazia) i  problemi aperti e le criticità rimangono molti.

Innanzitutto, quali sono le dimensioni rilevanti, quali le priorità da perseguire? Necessariamente entrano in gioco giudizi di valore su cosa è più importante; è migliore un’impostazione ideologica che privilegi il relativismo culturale (ovvero ciò che è meglio per una cultura, ad esempio quella occidentale, non è detto lo sia per altre) oppure l’universalità dei valori (ma si può parlare di universalità senza cadere nell’ambiguità di un’estensione arbitraria di valori occidentali?) E inoltre, come misurare concretamente tutto ciò, quali strumenti possediamo? È evidente che, per applicare il nuovo paradigma economico del Post Washington Consensus necessitiamo di metodologie nuove di misurazione.  

 

 

Approfondimenti del dibattito

 

Numerosi e interessanti sono stati gli spunti offerti dalla discussione; dovendo necessariamente privilegiarne alcuni, si propongono di seguito alcune riflessioni ritenute particolarmente significative.

 

1.      La relatrice, nel corso del dibattito, ha precisato meglio in cosa consistono le strategie integrate di lotta alla povertà messe in atto dalla bm. Sostanzialmente, Paesi molto indebitati o molto poveri che richiedono aiuti economici devono redigere un paper, partendo da un’analisi articolata e organica della povertà al loro interno. A seguito di questa diagnosi di povertà, vengono individuate strategie e priorità sulla base di una precisa valutazione delle risorse finanziarie necessarie. In questo modo il Paese richiedente si assume una precisa responsabilità politica, in quanto la comunità internazionale finanzia i progetti di sviluppo sulla base delle priorità che il Paese ha individuato. La bozza di documento viene presentata per una valutazione congiunta di bm e fmi. La bozza rivista viene quindi rinviata al Paese richiedente che redige un paper definitivo. A partire da fine 1999 sono state redatte 42 bozze.

2.      I consistenti movimenti migratori in atto che stanno investendo il mondo occidentale devono far riflettere sulla necessità quasi ineludibile di interventi mirati e consistenti, coordinati a livello internazionale. L’aiuto ai Paesi in via di sviluppo è un problema che va affrontato non sull’onda del buonismo, ma per un preciso senso di responsabilità, onde evitare, in un futuro non troppo lontano, tensioni sociali gravi. La globalizzazione (ed è sicuramente un aspetto positivo) ci impone di farci carico di ciò che succede in altre parti del mondo, non solo per questioni morali, ma anche pratiche, in quanto non sarà possibile contenere ad infinitum la spinta rivoluzionaria di popolazioni emarginate, tenute finora ai confini del benessere.

3.      Il problema della crescita economica implica anche un parallelo sviluppo tecnico-economico, il quale, secondo la relatrice, va sicuramente favorito e non frenato (se non si produce non si può ridistribuire). Tuttavia tale processo tecnico andrebbe indirizzato, soprattutto, a trovare soluzioni eco-compatibili, onde evitare, in futuro, di usurare le risorse ambientali disponibili.

4.      Un’altra questione importante riguarda il ruolo assegnato alla democrazia (ovvero alla presenza di regimi democratici), da parte della comunità internazionale, per la concessione di aiuti economici. Secondo la relatrice, la democrazia rappresenta un elemento indispensabile dello sviluppo, ma non deve diventare precondizione per gli aiuti economici, altrimenti si finirebbe per penalizzare pesantemente intere popolazioni vittime di regimi autocratici.

5.      Un ultimo cenno merita sicuramente la precisazione fatta in sede di dibattito sull’approccio all’idea di uguaglianza di Sen. Criticando l’egualitarismo economico radicale, egli osserva come sia sempre necessario introdurre correttivi e integrazioni particolari per consentire a ciascuno di avere strumenti idonei al conseguimento dei propri obiettivi.

 

 

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