L’incontro si è articolato in due parti distinte: la relatrice, infatti, ha ritenuto opportuno esplicitare in primo luogo gli aspetti principali che caratterizzano il pensiero della differenza sessuale, per collegarsi in un secondo momento al suo ultimo lavoro dedicato alla filosofia dell’espressione vocale.

 

Nella cultura occidentale, i termini specifici che designano la differenza sessuale sono quelli di uomo e donna; ogni individuo, di fatto, viene segnato da tale differenza, che rappresenta un dato molto importante, corporeo, legato all’esistenza stessa, ma che ha avuto anche un altro preciso significato, ossia quello di attribuire un ordine ?simbolico? ai sessi. La nostra tradizione culturale, come noto, si è appropriata in modo complesso e mistificante di tale significazione: se, infatti, da un lato ha preso atto del dato dell’esistenza di due soggettività distinte, maschile e femminile, dall’altro ha deciso di ascrivere al sostantivo maschile il valore di paradigma del genere umano, e di assegnare invece al sesso femminile un valore di mera sottospecie di genere. Un riflesso evidente di questa operazione si ritrova anche nel modo di parlare: nella nostra struttura linguistica, infatti, il sostantivo maschile possiede valore per se stesso, per l’altro sesso e, in definitiva, per l’intero genere umano, mentre il sostantivo femminile vale unicamente per se stesso, ed è inapplicabile per designare l’umanità intera.

D’altro canto, se analizziamo la storia della filosofia occidentale, possiamo constatare come il neutro maschile sia già stato utilizzato da Aristotele: infatti, quando nella ?Politica? definisce l’uomo come animale portatore di logos, egli opera un confronto fra le specie animali e il genere umano, differenziando quest’ultimo in ragione dell’uso del linguaggio, e utilizza il termine uomo per designare l’umanità nel suo complesso. Il filosofo, evidentemente, intende affermare che i rappresentanti del genere umano sono solo gli uomini, i maschi, mentre considera le donne esseri umani inferiori, mancanti, in quanto non portatrici di razionalità. Per tale motivo, solo l’uomo è animale politico, solo il maschio si realizza all’interno della polis, mentre la donna appartiene per natura alla sfera domestica e alla tradizione della cura. Dunque, la cultura occidentale interpreta fin dalle origini la differenza sessuale come inferiorità culturale della donna, e marca una netta divisione fra le sfere del maschile e del femminile, riconoscendo alla prima la razionalità e alla seconda l’istinto come tratti fondanti. Tale ordine simbolico è giunto a noi pressoché immutato.

Un esempio di luogo importante e pervasivo, all’interno della nostra esistenza, di tale ordine simbolico è dato dalla pubblicità, che utilizza normalmente e con tacita approvazione universale molti stereotipi di inferiorità femminile (la donna-corpo, la donna madre-sorella,?) e quando ne opera inversioni di senso (donna-manager o anche uomo-casalingo) li pone sempre, abilmente, come eccezioni, avvalorando quindi la tesi dell’inferiorità femminile e della superiorità maschile come norma.

Tutto quanto detto, vale dunque per ciò che concerne l’ordine simbolico. Se ci si sposta sul piano normativo, invece, dalla Rivoluzione Francese ad oggi è stata attuata un’altra operazione, più sottile, formalmente corretta ma sostanzialmente ?truccata?. Le donne appartenenti alla generazione del primo femminismo, infatti, da Mary Wollstonecraft in poi, hanno ottenuto di essere considerate dalla legge uguali AGLI uomini; tale risultato, pure di portata epocale, contiene tuttavia al proprio interno un trucco semantico: la precisazione uguali AGLI uomini significa in realtà a prescindere dal fatto che siano donne, e sottolinea così ulteriormente l’esistenza di tale differenza, poi magnanimamente superata dal legislatore, che sancisce così un’uguaglianza di tipo formale, sottolineando nel contempo la sostanziale diversità. Gli elementi considerati discriminatori, all’interno di tale uguaglianza solo formale, possono anche non contare più, ma a condizione di essere neutralizzati: così, ad esempio, le donne adottano atteggiamenti e modalità di pensiero maschili per poter essere considerate in modo paritario.

 

Date tali premesse oggettive, la relatrice ha chiarito la propria posizione: ella, ovviamente, non accetta la destinazione naturale di ?uomo al potere e donna alla cura?, né abbraccia completamente il movimento emancipazionista, che ha certamente avuto un’utilità strumentale, ma anche limiti molto evidenti. Il modello da lei proposto è caratterizzato dall’azione non più sull’ordine legislativo, bensì a livello dell’ordine simbolico; si tratta dunque di interpretare la differenza sessuale non come superiorità di uno dei due sessi sull’altro, ma come il darsi di una differenza legata alla datità corporea, che segna in primo luogo una parzialità dei due sessi. Gli uomini, filosoficamente, non sono gli unici soggetti di pensiero: al contrario, anche le donne devono riflettere su ciò che significa per loro essere, appunto, un soggetto di pensiero.

La relatrice ritiene dunque che per le donne emerga anzitutto la necessità di pensare ?a partire da sé?, da ciò che significa essere una donna non in astratto né in solitudine, bensì attraverso la comunicazione e l’elaborazione dell’esperienza individuale con altre donne, al fine di trovare un’immagine del mondo diversa ma non contrapposta a quella degli uomini. Questo è quanto intende Luce Irigaray: ??stare nella meraviglia, nello stupore dell’altro, uno di fronte all’altro (…)?.

 

Se dal piano legislativo si passa poi a considerare l’ambito del pensiero delle dottrine politiche occidentali, all’interno dei molti modelli proposti è possibile individuare alcune costanti: l’ossessione della politica come ordine, la coessenzialità fra politica e violenza, l’identificazione del soggetto politico come cittadino-maschio-competitivo (espressione di una concezione peculiare di un individualismo astratto e aggressivo). Rispetto a tali costanti, il pensiero della professoressa Cavarero si rivolge invece a una politica che abbia al centro la relazione, un legame naturale relazionale, che parta dalla datità carnale ed esistenziale di ciascun individuo. La relatrice ritiene dunque che sia necessario partire dal SENSO, ponendolo prima del significato, per giungere ad una politica che regoli i rapporti non attraverso l’utilizzo della violenza, bensì per mezzo dell’accoglienza. Cruciale a questo proposito è il pensiero di Hannah Arendt, che ha sostenuto con forza il riconoscimento dell’unicità dell’individuo, la disponibilità all’altro e il valore della relazione, poiché da essa dipende il senso dell’essere umano individuale e collettivo.

 

Data dunque l’affermazione dell’importanza della relazione per la costruzione di senso e di identità, e data la logica conseguenza che ciascuno di noi riceva dagli altri tale senso e tale identità, si è reso necessario per la professoressa Cavarero comprendere che ruolo avesse all’interno del proprio modello, e più in generale all’interno del pensiero filosofico, la voce, mezzo unico di trasmissione di logos, di pensiero e di filosofia, e dunque ad essi antecedente e necessario, ma relegato nell’ambito dell’istintivo, del femminile, quindi dell’inferiore, dello strumentale, dell’irrazionale. I suoi studi sulla vocalità, sfociati nella sua ultima pubblicazione ?A più voci. Filosofia dell’espressione vocale?, hanno preso l’avvio dal dato personale della passione per il canto, particolarmente per l’opera lirica, e dalla constatazione che la felicità consista, almeno dal suo punto di vista, non tanto nel dire ma soprattutto nell’udire.

All’interno del canto, pur avendo le parole un ruolo importante, ciò che emerge è la vocalità, che supera il significato, dà piacere, comunica l’essenziale anche e nonostante l’eventuale banalità del testo. È quanto accade, ad esempio, all’interno dei libretti d’opera lirica, ma anche nei testi di molte canzoni fondamentali nella storia della musica moderna. Tali elementi possono essere opportunamente letti alla luce del modello del pensiero della differenza. Il presupposto, sancito dalla tradizione, è che gli uomini siano ?per natura? adatti al pensiero, alla filosofia, alla parola, al semantico, alla razionalità insita nel linguaggio, mentre le donne siano portate a una vocalità senza parola. Non è però lo stesso messaggio che ci giunge, ad esempio, da Omero e dalle Sirene, voci potenti e letali al centro dell’Odissea. Per il poeta, ogni lingua ha una propria musicalità, una vocalità che è preponderante nella comunicazione poetica, che non è la parola, e la cui fonte è femminile (?cantami o Musa?); le Sirene narrano cantando e cantano narrando (??tutto sappiamo, tutto vediamo, tutto possiamo raccontare??): ecco dunque che la narrazione coesiste con la vocalità. Da Omero in poi, la figura della sirena sopravvive in racconti e mitologie, ma ridisegnata: le sono state tolte parola, onniscienza, narrazione, ed è giunta ai nostri giorni muta, non più custode del sapere ma del solo dolore; essa, ormai, si limita a gemere o a piangere. Questo è potuto accadere proprio perché la donna è stata identificata sempre più come voce senza parola, perfetto contraltare dell’uomo che costruisce il pensiero senza bisogno della vocalità.

Tornando all’opera lirica, essa rimane dunque uno dei rari luoghi in cui la vocalità femminile vince sulla razionalità linguistica maschile, beninteso indipendentemente dal fatto che il cantante sia uomo o donna: è la vocalità in sé, come principio femminile, a vincere sulla razionalità in sé, principio maschile. Tale ?vittoria?, all’interno della messa in scena lirica, si accompagna tuttavia a un principio misogino che attua un bilanciamento: nell’opera le donne sono generalmente creature anonime, quasi sempre soffrono di mali fisici e/o psichici, sono spesso straniere o prostitute e di norma muoiono cantando? L’uomo esorcizza in tal modo la vittoria del principio femminile.

In conclusione, la relatrice ha posto l’accento da un lato sull’unicità della voce e dall’altro sul suo essere sempre, costitutivamente, relazionale. Quest’ultima affermazione significa che, senza alcun dubbio, esiste una comunicazione linguistica a carattere semantico, ma che ne esiste certamente un’altra a carattere vocale, contestuale e imprescindibile, fatta di corpo, di respiro, con modalità proprie che non esistono nel linguaggio della significazione. Tale comunicazione vocalica rappresenta il modello di ogni altra comunicazione linguistica; anzi, essa è ciò che propriamente permette di comunicare, come dimostrano i suoni del neonato, legati alla vocalità e non al senso; la madre e il figlio comunicano originariamente attraverso la voce ben prima che per mezzo della parola.

La professoressa Cavarero intende dunque il vocalico come comunicazione dell’unicità, del relazionale, della ritmicità delle lingue, di quella parte di discorso che è musica e che eccede il linguaggio. Ella, sempre a proposito dell’unicità, sottolinea infine come, nell’attuale contesto politico internazionale in rapida mutazione, sia fondamentale pensare non ad un’assolutizzazione delle differenze o ad una rivendicazione delle identità, ma alla valorizzazione dell’alterità e della singolarità dell’individuo: dunque, non a ?com’è? l’altro, bensì a ?chi è? l’altro. In tal senso, l’aspetto vocale e musicale è ciò che rende possibile la comunicazione primaria, anche fra linguaggi diversi, e soprattutto la comunicazione della singolarità, il ?chi siamo? ricco di unicità e non di dominio, e contenente una richiesta di accoglienza pacifica.

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