Lo stato della ricerca scientifica in Italia è un tema oggi ampiamente dibattuto. Recentemente gli organi di informazione nazionale hanno sottolineato come essa non sia sostenuta né dallo Stato né dai privati con strutture e risorse adeguate. Nell’opinione pubblica si starebbe diffondendo la consapevolezza di come, in questo modo, si corra il rischio di condannare la comunità scientifica nazionale ad un ulteriore depauperamento (il fenomeno della cosiddetta “fuga dei cervelli”, ossia il trasferimento dei ricercatori più qualificati all’estero), aumentando ulteriormente il divario che in questo campo separa l’Italia dalle nazioni tecnologicamente più avanzate.

A questo argomento è stata dedicata la serata conclusiva del ciclo di incontri su temi di carattere tecnico-scientifico organizzati dalla Associazione Cultura & Sviluppo insieme alla Facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali dell’Università del Piemonte Orientale e al Politecnico di Torino, sede di Alessandria. Relatore della serata, introdotta dal professor Giovanni Gaudino, è stato il professor Jacopo Meldolesi, che nella sua esperienza professionale, oltre a svolgere importanti studi nel campo delle neuroscienze, ha avuto modo di occuparsi direttamente di questo tema, in particolare dei criteri con cui sono attualmente ripartiti i finanziamenti pubblici alla ricerca scientifica.

Per il professor Meldolesi la marginalità della ricerca scientifica nel nostro paese non è dovuta ad una mancanza di capacità e meno che mai all’assenza di una consolidata tradizione, che si vorrebbero prodotte dalla scarsa considerazione di cui la scienza goderebbe nel sistema formativo italiano. Il ritardo accumulato in questi ultimi decenni dall’Italia sarebbe, invece, in larga parte dovuto alla lentezza con cui il paese si è adeguato ai mutamenti che in questo lasso temporale si sono prodotti nel mondo della ricerca scientifica, di cui il principale è senza dubbio il venir meno della tradizionale distinzione fra ricerca di base e ricerca applicata. In questo nuovo contesto, la priorità non va attribuita soltanto alla qualità e alla quantità delle nuove conoscenze raggiunte, ma soprattutto alla capacità di “ingegnerizzarle”, ossia di tradurle, nel tempo più breve possibile, in tecnologia. Questo, però, non significa che la ricerca scientifica debba essere esclusivamente orientata in base alle possibili, immediate, applicazioni pratiche di una scoperta e assimilata a una tipologia qualsiasi di impresa economica. Come dimostra una recente statistica relativa agli Stati Uniti i migliori istituti di ricerca sono quelli che solo per il 30% finanziano le proprie attività con le risorse derivate dalle applicazioni delle loro scoperte. Essi sono risultati molto più “efficienti” sia di quelli totalmente dipendenti dal finanziamento pubblico sia di quelli principalmente o esclusivamente finanziati da investitori privati. Per avere una ?buona? ricerca è infatti necessario trovare un buon equilibrio fra la funzione insostituibile di finanziamento e coordinamento esercitata dalle istituzioni pubbliche e un’effettiva interazione con l’economia privata. È quanto accaduto, per esempio, in Finlandia dove si è sapientemente innescato un circolo virtuoso fra lo Stato e i privati nel sostenere adeguatamente la ricerca scientifica.

La vicenda italiana è diametralmente opposta: a causa dello scarso interesse per l’innovazione tecnologica da parte dell’industria privata e della progressiva riduzione delle risorse ad essa destinate nei bilanci dello Stato, l’Italia è l’unico fra i paesi tecnologicamente avanzati ad aver ridotto la quota, già misera, del prodotto interno lordo investita nella ricerca scientifica, dal 1.3% del 1992 al 1% del 2002. A questa situazione corrisponde un basso numero di laureati e dottorati in materie scientifiche, dovuto alla bassa appetibilità della carriera scientifica, un’insufficiente presenza di industrie nei settori hi-tech e una scarsa interazione fra le reti di ricerca, soprattutto fra quella pubblica e quella privata.

Nonostante i molti punti di debolezza che caratterizzano la situazione italiana, tra cui va segnalata in particolare la diminuzione negli ultimi cinque anni dei finanziamenti statali alla ricerca, recentemente sono comunque intervenuti alcuni positivi cambiamenti. Innanzitutto, sono stati parzialmente innovati i meccanismi attraverso i quali è finanziata la ricerca pubblica, con l’adozione di un sistema di valutazione dei progetti, e di ripartizione delle risorse realmente in grado di premiare l’eccellenza dei diversi centri di ricerca, in parte sottratto alla burocrazia ministeriale e a una logica di intervento di tipo ?politico?. Questo ha permesso di allocare in maniera più razionale le poche risorse disponibili e di stimolare l’efficienza complessiva della ricerca nel nostro paese.

Molto, però, può essere ancora fatto in questa direzione: dalla detassazione degli investimenti privati ad una riforma del sistema di finanziamento delle università, che tenga conto delle conoscenze da queste concretamente prodotte. Sono poi necessari nuovi, più organici, rapporti con il mondo dell’industria, attraverso il rafforzamento del modello dello spin off (il cofinanziamento pubblico e privato di specifici progetti di ricerca) e la creazione di efficienti parchi scientifici, così come la definizione di piani scientifici nazionali e regionali in grado di mettere effettivamente a disposizione della comunità scientifica risorse certe e infrastrutture adeguate.

Perché si produca una positiva inversione di tendenza, rimane, però, essenziale che avvenga un radicale mutamento culturale nel modo con cui nel nostro paese sono normalmente affrontati i problemi inerenti alla ricerca scientifica. È necessario, soprattutto, che si diffonda nell’opinione pubblica e di riflesso nella classe politica una maggiore consapevolezza circa l’importanza di un suo adeguato sostegno. Questa è, infatti, l’unica strategia in grado di garantire all’Italia l’ingresso nella cosiddetta “società delle conoscenze” e di non condannare il nostro paese ad un’ulteriore marginalizzazione internazionale a causa dei ritardi con cui esso si sarà adeguato ad un’economia sempre più immateriale, caratterizzata soprattutto dalla capacità di rinnovare le proprie conoscenze in campo scientifico e tecnologico.

 

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