In che tipo di sistema internazionale ci troviamo? Imperiale, multipolare o anarchico? Cosa vogliono i militanti dello jihadismo? Siamo nel mezzo di uno scontro fra civiltà o forse all’interno di un conflitto intra-islamico? Come giudicare la reazione a questo tipo di conflitto da parte degli Stati Uniti? Quali sono i reali obiettivi americani? Qual è il nesso reale fra la guerra all’Iraq e il terrorismo? Quale giudizio è possibile formulare sulla politica estera italiana e sulla posizione assunta dall’Europa? Sono queste le domande con cui il prof. Valter Coraluzzo ha introdotto l’incontro con il dr. Lucio Caracciolo, direttore della rivista di geopolitica Limes.

            Il relatore ha esordito segnalando la necessità di correggere una pericolosa semplificazione, alimentata dai mezzi di informazione, soprattutto americani, desiderosi di personalizzare in qualche modo il nemico, relativa alla assoluta centralità ideologica ed organizzativa di Osama bin Laden nel panorama del terrorismo islamico. Il movimento jihadista, infatti, non ha affatto una struttura piramidale, ma una struttura a rete in cui si connettono organizzazioni fra loro differenti, per lo più articolate in cellule di pochi individui, autosufficienti dal punto di vista operativo. Per questa ragione, la cattura dello sceicco yemenita, pur rappresentando un grave colpo per Al Qa’ida, non ne significherebbe la decapitazione. Essa, però, senza dubbio influirebbe potentemente sull’opinione pubblica americana, agevolando la rielezione di George W. Bush.

Non è facile ricostruire, neppure a grandi linee, il percorso politico e teologico da cui nasce il fondamentalismo jihadista. Se ne potrebbe indicare l’origine prima, la causa che lo alimenta e che crea un consenso attorno alle sue azioni terroristiche, nella storica frustrazione delle masse islamiche, ed in particolare di quelle arabe, nei confronti dell’Occidente. La marginalità politica in cui il mondo islamico è venuto a trovarsi da alcuni secoli sarebbe, infatti, secondo i fondamentalisti nient’altro che una conseguenza della corruzione religiosa e morale in cui esso è precipitato al contatto con il mondo occidentale. Per restituire ai popoli islamici l’antico prestigio si rende allora necessario un ritorno all’Islam delle origini. Questa restaurazione di carattere religioso si accompagna necessariamente nell’ideologia jihadista ad una vera e propria rivoluzione geopolitica. Perché essa si realizzi è infatti necessario la restaurazione dell’antico califfato, ossia la ricomposizione della umma, la comunità dei credenti, sotto un unico potere politico. Questa in estrema sintesi la matrice teologico-politica del movimento jihadista, la cui origine storica deve essere fatta risalire quanto meno alla prima metà del ?900, a pensatori come gli egiziani Al-Qutb e Al-Bannà e al successivo movimento dei Fratelli musulmani. Esso però non diverrà un attore politico importante almeno fino agli anni settanta e in particolare alla guerra in Afghanistan. Il conflitto contro i sovietici svolge, infatti, una funzione di catalizzatore dell’universo fondamentalista. Accorrono in difesa della umma volontari da ogni parte del mondo islamico, con la compiacenza degli Stati Uniti e l’aperto sostegno del Pakistan, interessato ad impedire la penetrazione sovietica in Afghanistan e a controllarne in qualche modo il territorio in funzione anti-indiana, e dell’Arabia Saudita che finanziando l’internazionale jihadista spera di mantenere la propria leadership teologico- politica sul mondo islamico sunnita, controbilanciando la spinta rivoluzionario del fondamentalismo sciita iraniano.

La guerra in Afghanistan è lo scenario nel quale si rende possibile l’ascesa di Osama bin Laden che, in virtù delle ingenti risorse finanziarie di cui dispone e delle sue qualità imprenditoriali, svolge un ruolo di primo piano nell’organizzare i volontari islamici, intessendo i rapporti da cui dopo la vittoria sull’URSS nascerà Al Qa’ida. La fine del conflitto afgano e la successiva crisi dell’Unione Sovietica, di cui il fondamentalismo islamico si attribuisce il merito, spingerà a modificare gli orientamenti strategici del movimento jihadista. L’Occidente, verso cui gli jihadisti nutrono da sempre una forte inimicizia ideologica, diviene il nuovo obiettivo polemico della loro propaganda. L’intervento militare nel golfo per la liberazione del Kuwait, lo stanziamento, inizialmente solo temporaneo, di truppe americane in Arabia Saudita, nel territorio in cui sorgono i luoghi santi dell’Islam, interviene a modificare profondamente la mappa geopolitica con cui gli jihadisti si rappresentano il mondo musulmano. Essi interpretano quelle vicende come una riedizione delle crociate, in cospetto della quale i regimi arabi e islamici moderati, tradizionalmente legati agli Stati Uniti da una robusta rete di interessi comuni, hanno dimostrato la loro completa ignavia. L’eversione di questi regimi, in particolare di quello saudita e di quello pakistano, diviene così l’obiettivo strategico prioritario dei fondamentalisti.

Nel corso degli anni novanta l’organizzazione di bin Laden fa opera di capillare proselitismo, operando in ogni regione, abitata da popolazioni islamiche, sia investita da conflitti interetnici, presentabili come episodi di quello scontro di civiltà che opporrebbe Islam e Occidente. Dalla Bosnia al Kashmir, dalla Somalia al sud est asiatico, passando per il Caucaso e per l’Asia Centrale, Al Qa’ida offre alle popolazioni di fede musulmana supporto assistenziale e organizzativo e ai militanti islamisti sostegno militare e finanziario. Si struttura così una rete di solidarietà internazionale che originariamente finanziata con le stesse fortune personali di bin Laden (per tacere del supporto ad essa offerto dai servizi segreti pakistani e da parte della stessa famiglia regnante saudita, gli Al Sa’ud) diviene presto in grado di riprodursi grazie alle risorse ottenute con il narcotraffico e una efficiente rete di finanziarie che si strutturano secondo i tradizionali canali delle attività caritatevoli islamiche. In quest’opera di ramificazione, la rete jihadista può avvalersi di alcuni ?santuari? in territori amici, come il Sudan di Al-Turabi, o in regioni in cui l’instabilità politica è tale da permettere loro di sottrarsi ad ogni controllo (è il caso della Somalia e della Bosnia). Ma il centro principale continua ad essere indubbiamente ad essere rappresentato dall’Afghanistan, soprattutto quando nel 1996 il movimento fondamentalista dei Taliban assume il controllo del paese, dando vita ad un emirato islamico.

Questo è il quadro in cui matura l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001, per altro preceduto da una spettacolare serie di attentati ad interessi americani nel mondo. Esso ha certo costituito un fortissimo trauma per l’opinione pubblica americana, che per la prima volta avvertiva come la sicurezza nazionale fosse fortemente minacciata. Ma ha anche offerto un pretesto alla presidenza Bush per ristrutturare l’insieme delle relazioni internazionali con l’obiettivo di mantenere e se possibile allargare il divario fra gli USA e il resto del mondo al fine di conservare l’american way of live. Secondo Lucio Caracciolo, nell’analizzare la politica internazionale dell’attuale presidenza americana è necessario tener conto della compresenza di più anime al suo interno, portatrici di disegni geopolitici parzialmente diversi. Nello staff e fra i consiglieri della Casa Bianca è però emersa come egemone la linea di quanti intendono, attraverso una politica estera aggressiva, introdurre una netta soluzione di continuità rispetto agli anni di Clinton.

Con l’attacco all’Afghanistan, gli Stati Uniti hanno inteso riconvenzionalizzare per quanto possibile il conflitto, ?mettendo gli stivali a terra?, preferendo così rispondere all’attacco terroristico di Al Qa’ida con una strategia altrettanto spettacolare e globale, piuttosto che attraverso un’azione puramente di intelligence. Esso ha indubbiamente avuto l’effetto di sottrarre agli jihadisti la propria principale base operativa e ha messo in moto, con un effetto a cascata, una serie di importanti cambiamenti politici a livello internazionale. Il Pakistan di Musharraf, principale sponsor, attraverso l’ISI, del regime dei Taliban, ha dovuto acconsentire ai dettami di Washington che gli imponevano di recidere i propri legami, in funzione anti-indiana (Kashmir), con il terrorismo islamico nel sud est asiatico e con i movimenti islamisti al proprio interno. I regime arabi moderati, compreso quello saudita, si sono affrettati a riallinearsi nei fatti alla politica americana.

Il successivo, discusso e discutibile intervento americano in Iraq, accusato dagli Stati Uniti di possedere armi di distruzione di massa e di avere rapporti di collaborazione con Al Qaida, è invece ancor meno connesso con le immediate necessità della guerra al terrorismo, ma riposa, in maniera evidente, sulla volontà di avviare una sostanziale ristrutturazione degli equilibri geopolitici globali. Le finalità reali dell’intervento sono in realtà molteplici. La prima è di immagine: dimostrare, soprattutto all’opinione pubblica americana, lo strapotere militare degli Stati Uniti. La seconda di carattere strategico: nell’instaurare un regime filo-americano in un paese centrale per gli equilibri mediorientali come l’Iraq gli USA si ripromettono di diminuire la centralità della produzione petrolifera dell’Arabia Saudita per l’economia globale (l’Iraq è il secondo paese al mondo per riserve petrolifere) e di sviluppare una forte pressione politica e militare nei confronti dell’Iran e della Siria.

La strategia americana è però per Caracciolo viziata da una contraddizione di fondo. Entrambi gli interventi militari sono stati giustificati in nome dell’esportazione della democrazia. Se è difficilmente pensabile che l’occupazione militare americana, quand’anche, come nel caso afgano, dotata di una precaria legittimazione internazionale, possa far nascere la democrazia a Kabul e soprattutto a Baghdad, è francamente impossibile che qualora in quei paesi si affermassero delle istituzioni veramente democratiche esse diano vita a governi dichiaratamente filo americani. Attualmente la democrazia nei paesi islamici nella maggior parte dei casi coinciderebbe con l’avvento al potere dei movimenti islamisti. E’ questa per esempio una delle possibili evoluzioni dell’attuale situazione irachena nel momento in cui terminerà l’occupazione militare.

La risposta del movimento jihadista e in particolare di Al Qaida alla strategia americana è quella di destabilizzare definitivamente il precario regime degli Al Sa’ud in modo da spingere gli USA ad intervenire anche in Arabia Saudita.  L’occupazione dei luoghi santi dell’Islam nei piani degli jihadisti provocherebbe, infatti, un ulteriore, incontenibile, radicalizzazione delle masse islamiche, ed arabe in particolare. La penisola arabica, allora, diverrebbe il teatro dello scontro finale fra la civiltà islamica e quella giudaico-cristiana, assurgendo a scontro cosmico fra le forze del bene e quelle del male.

Mentre gli americani, nel contrapporsi al terrorismo jihadista, dimostrano di non saper usare, per cattiva volontà o per mancanza delle risorse politiche e culturali necessarie, il soft power, ossia di preferire alla politica l’uso della forza, finendo così con l’alimentare gli stessi movimenti fondamentalisti che si intenderebbe combattere, altri paesi, Cina e Russia in particolare, hanno, per la loro stessa rilevanza geopolitica, una forte rendita di posizione. Al riparo da problemi di natura internazionale, il governo cinese può concentrarsi sulla crescita economica e sugli squilibri interni che essa genera, permettendosi, anche, di reprimere, con la giustificazione del terrorismo islamico, il movimento degli uiguri nel Turkestan cinese. Analogamente il presidente Putin può sfruttare la benevolenza americana per reprimere gli indipendentisti ceceni, con una strategia pericolosa per la stessa precaria democrazia russa.

Rendita di posizione di cui non gode l’Europa il cui interesse, vista anche la forte presenza di cittadini di origine musulmana al proprio interno, è invece quello di non alimentare, senza necessariamente smarcarsi dalla politica americana, l’ideologia dello scontro fra le civiltà. In questo senso il compito dell’Europa è quello di mantenere aperto il dialogo, esercitando tutto il soft power di cui dispone.

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