Il disagio degli immigrati è stato analizzato da una prospettiva di tipo psicologico, antropologico, storico e politico, collocando le problematiche relative all’immigrazione in uno scenario complesso e controverso disegnato da:

–   violenza della storia (situazione coloniale),

–   violenza del presente (situazione post- coloniale)

–   razzismo, spesso mascherato e invisibile, dei nostri servizi e delle nostre istituzioni.

Con queste premesse, il relatore ha sostenuto la necessità di ? prendere partito? quando si parla di immigrati, ?rinunciando a ogni voglia di innocenza e a posizioni neutrali che poco aiutano persone con storie di indifferenza, negazione e violenza tali da non consentire loro di attendere ulteriormente e di incontrare ancora neutralità?.

Attraverso il riferimento costante a storie di vita incontrate nel suo lavoro di etnopsichiatra, il professor R. Beneduce ha analizzato quattro condizioni che, molto spesso, vivono gli immigrati in situazioni di disagio:

–          medicalizzazione

–          rifiuto

–          violenza

–          trasformazione

 

La medicalizzazione è stata definita come una procedura che tende a depotenziare i problemi, traducendo sul piano del sintomo e della cura medica un disagio spesso più complesso e talvolta derivante da fenomeni socio- economici.

Nei confronti degli utenti immigrati, la medicalizzazione opera una doppia negazione: nega i problemi sociali ed economici, ma, soprattutto, nega i vissuti personali, la storia e i conflitti. Spesso ciò avviene perché, nel momento in cui si analizzano le ragioni dell’immigrazione, si è inevitabilmente costretti a confrontarsi con le proprie responsabilità e a riconoscere una storia di interessi, di violenze e di ipocrisie che non si vuole ricordare.

Da qui ci si interroga su quale strategia debba essere adottata nell’avvicinarsi alla sofferenza degli immigrati. Una lunga tradizione delle società occidentali ribadisce il principio dell’uguaglianza, ma occorre capire che cosa significa essere tutti uguali di fronte al medico. Questa pretesa uguaglianza rischia infatti di generare molti equivoci. Ad esempio, appare chiaro che il destino dei corpi degli ammalati di uno stesso virus è radicalmente diverso in rapporto alle condizioni di vita, alla situazione lavorativa e familiare, alle possibilità di accesso alle medicine e alla presa in carico delle istituzioni.

Uno dei luoghi nei quali più si esercita questa neutralizzazione delle differenze è l’uso delle categorie diagnostiche. Il relatore ha analizzato a questo proposito il caso di una immigrata nigeriana, avviata alla prostituzione e con problemi di deambulazione. La donna, in seguito a crisi allucinatorie, riceve due frettolose diagnosi psichiatriche (disturbo schizofrenico e disturbo delirante), senza che, nel formularle, si tenga conto né del suo travagliato passato, né del suo difficile presente. Analogamente, quando lei, dopo un parto cesareo, si ritrova con un figlio maschio, invece della figlia femmina che attendeva, e parla di ?bambino sostituito?, gli operatori interpretano le sue dichiarazioni come una manifestazione di debolezza psichica, anziché riferirla alla componente magica delle sue radici culturali, alle quali si aggrappa in un momento in cui nient’altro la rassicura.

 

Il relatore ha considerato il rifiuto non come una categoria morale, ma come una procedura, un meccanismo, un modo di agire nei confronti degli immigrati messo in opera da esperti, operatori e funzionari di Prefetture e Questure.

In particolare, diventa una strategia politico- giudiziaria che arreca danni psicologici gravi ai richiedenti asilo e ai rifugiati. Essi sono ?schegge proiettate fuori dai loro paesi, che conoscono vicende di una complessità e di una durezza incredibili?, di cui spesso non riescono ad essere testimoni tanto confuse sono le vicende e doloroso il ricordo. Eppure, quando i richiedenti asilo, con le loro narrazioni, non soddisfano i criteri di verosimiglianza che dovrebbero consentire l’accoglienza della loro domanda, ricevono un secco rigetto, magari dopo un’attesa estenuante, che per mesi li ha lasciati in una condizione di sospensione e di incertezza. E, purtroppo, oggi in Italia i rifiuti alle richieste di asilo stanno crescendo per una precisa decisione politica a livello centrale.

 

Il tema della violenza è stato affrontato a partire dal riferimento storico (sollecitato da un intervento del pubblico) a due esempi di piani di sterilizzazione etnica, rivolti esclusivamente alle donne indie in Perù e in Ecuador ed esclusivamente alle donne di colore in Sudafrica durante il governo dell’apartheid. Tali interventi dimostrano che i saperi inerenti la cura e la prevenzione non sono neutrali, ma, al contrario, sono caratterizzati da una connotazione politica e da una dimensione di violenza, percepite in quanto tali dalle vittime di questi interventi e insite nella memoria di chi emigra da quei paesi.

La presenza degli immigrati costituisce, di per sé, una sfida alla nostra memoria e un obbligo ad assumerci le nostre responsabilità passate e attuali, anche rispetto alle vicende belliche, che hanno operato e operano uno stravolgimento del tessuto sociale, psicologico e culturale. Lo stato di guerra diventa l’equivalente di uno stato mentale ordinario, costitutivo delle identità alla stessa stregua della scuola e della famiglia, e contribuisce alla costruzione di nuove forme di soggettività.

Di questa condizione, i bambini- soldato/ bambini- stregone costituiscono uno dei profili più inquietanti, in cui si saldano concetti e metafore della tradizione e delle nuove forme di soggettività, prodotte dagli scenari della violenza e percepite dalle stesse comunità di appartenenza come estranee, irriconoscibili e minacciose.

Ancor più estranei e incollocabili, questi ragazzi risultano ai nostri servizi e ai nostri operatori, poco preparati a gestire le loro sofferenze per l’inadeguatezza delle categorie della clinica, la scarsa familiarità con queste vicende e l’incompatibilità dei nostri modelli di soggettività e di adolescenza con quelli da loro rappresentati. La gestione di tali problemi è uno dei passaggi più drammatici nelle scuole e nei servizi che si occupano di questi adolescenti.

Emblematico di questa difficoltà di gestione del disagio degli immigrati è il caso del ragazzo dodicenne, proveniente dalla Repubblica Democratica del Congo dove è stato addestrato nelle milizie. Lì ha subito una violenza che in Italia agisce attraverso comportamenti tipici dei ragazzi- stregone, ma noti solo a chi ha lavorato in questi paesi. Sospettato di essere stregone, il ragazzo partecipa alla riproduzione di questo codice semiotico condiviso, utilizzando gli stessi gesti e gli stessi segni che gli altri gli attribuiscono. Gesti e segni di cui gli educatori della comunità che lo accoglie non conoscono il significato, come non conoscono l’immaginario della stregoneria africana di tipo antropofagico- cannibalico, a cui sono da riferire le descrizioni del figliastro che fa la matrigna (?ci guarda come un lupo famelico?). Senza la conoscenza di questa semiotica da parte delle persone che lo circondano, il ragazzo, incompreso, non riesce a raccontare la sua storia di violenza e questa impossibilità diventa determinante anche rispetto alla diagnosi e al suo uso.

Succede spesso che le diagnosi siano inadeguate a interpretare il disagio degli immigrati, come avviene anche per il sedicenne afghano a cui viene diagnosticato un deficit cognitivo. Tale diagnosi si sgretola nel momento in cui l’adolescente immigrato viene messo nella condizione di esprimere la sua conoscenza di ben cinque lingue e, soprattutto, di narrare la sua vicenda di violenza e di dolore.

 

La trasformazione del disagio si connette al riconoscimento della difficoltà di raccontare che per gli immigrati è duplice. Da un lato, deriva dall’incontro con persone che hanno scarsa familiarità con le vicende che li rappresentano e con i loro registri narrativi. Dall’altro, dipende dal fatto che gli immigrati non riescono a collocarsi nella dialettica che li spinge o verso la modernità o verso la tradizione (entrambi non assimilabili, in quanto soluzioni opposte). Non riescono a farlo perché molti di loro cercano, nell’esperienza della migrazione, uno spazio e una libertà altrimenti irrealizzabili  e perché ciò da cui devono prendere le distanze è un mondo di violenza, di fatica, di vincoli e tradizioni inaccettabili.

Inoltre, in questo processo di trasformazione, gli immigrati incontrano una sapienza, un’arroganza, una supponenza che accelera il loro cammino verso la presunta modernità, invitandoli a dismettere in fretta tutto quanto appartiene alla tradizione, come se non ci fossero possibilità di mediazione e di negoziazione.

Falsa e inautentica è la dicotomia  modernità/ tradizione, inconscio/ credenze in cui la dinamica della trasformazione del disagio degli immigrati rischia di essere disorientata, piegata all’interno di logiche che la predeterminano e la sovradeterminano. Si tratta, invece, di accogliere tale dinamica nella delicatezza dei suoi passaggi e di dedicare tempo e cautela a comprendere la ricchezza tra questi livelli, per poter rispettare questo processo che concerne sia gli individui che i saperi.

Ogni immigrato è qui portatore non solo del suo destino, del suo progetto, ma anche di un insieme di conoscenze, di saperi la cui collocazione è anche compito nostro perché egli possa riconoscersi in un processo, in un cambiamento.

Molto spesso il successo della cura dipende dalla capacità di ascoltare il disagio, secondo il registro più appropriato che il nostro interlocutore ci propone, senza banalizzarlo né ridicolizzarlo, ma accompagnandolo verso una trasformazione, il cui senso e i cui tempi non sono prevedibili e rispetto ai quali dobbiamo essere disposti anche a interrogare le nostre categorie, i nostri modelli.

Questo è il processo, sempre incerto e mai scontato, che può procedere dall’ascolto del disagio e dall’accoglienza di esperienze di violenza e di morte  a una trasformazione anche terapeutica.

 

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