Negli anni Dieci la crisi finanziaria ha tagliato la spesa pubblica provocando il crollo degli investimenti. Tutti i i Paesi europei pensavano di fare a meno degli investimenti da parte dello Stato, lasciandoli ai privati. Era finita la fase delle grandi opere e, in particolare in Italia, si guardava con scetticismo alle opere pubbliche, considerate un catalizzatore di malaffare. Lo stock di capitale pubblico, come le strade, si riduce, non si fa più manutenzione e le opere si deteriorano, pertanto la dotazione infrastrutturale non solo non cresce ma tende ad arrestarsi. In Italia la componente che collassa è soprattutto quella degli enti locali: non si possono alzare le entrate con le tasse allora si tagliano la spese più comprimibili nel breve periodo, come strade e scuole. Se ciò avviene per molti anni lo stock di capitale si erode. Gli enti locali che sviluppavano le opere pubbliche hanno perso l’abitudine a fare pianificazione finanziaria, e a questo vanno aggiunti i problemi legati alla burocrazia delle opere pubbliche. Questi sono i motivi che hanno provocato una sorta di paralisi dell’economia, come ha spiegato Fedele De Novellis, partner di Ref Ricerche e consulente di importanti imprese e istituzioni italiane, in dialogo con Carluccio Bianchi, professore di Macroeconomia all’Università del Piemonte Orientale e già preside della Facoltà di Economia di Pavia, nell’appuntamento dei Giovedì Culturali organizzato nell’ambito del progetto Europe in the Global Age. Identity, ecological and digital challenges promosso dall’Università del Piemonte Orientale – Dipartimento di Giurisprudenza e Scienze Politiche ed Economiche.

L’Italia da vent’anni non cresce più, il pil pro capite sta calando dal 2000 e il declino è preoccupante nel lungo periodo. La pandemia ha determinato un crollo verticale del pil. La crisi è globale ma l’Italia ha anche un debito pubblico molto alto, tanto da essere vicina al default. Dall’Europa viene permesso a tutti i Paesi di non rispettare i vincoli di bilancio: in questo modo lo Stato può destinare tutte le risorse necessarie per la crisi. La Banca Centrale Europea ha acquistato i titoli di stato italiani e il nostro Paese può spendere in deficit. Con Next Generation You si fa un programma per la prossima generazione, diviso in prestiti a buone condizioni e altri a fondo perduto. Come ha spiegato De Novellis c’è un finanziamento con emissione di Eurobond, titoli a lungo termine della Ue.

Molti programmi hanno utilizzato le risorse in parte per fare investimenti aggiuntivi e in parte per finanziare investimenti che erano già previsti.

La distribuzione delle risorse è divisa in 6 missioni: digitalizzazione, transizione ecologica, mobilità sostenibile, istruzione e ricerca, inclusione e coesione, salute. I progetti coinvolgono tutti i ministeri e gli enti locali. Le riforme strutturali dovrebbero portare a cambiare la struttura economica: anche quando non ci saranno più le risorse, il sistema sarà più forte. Le riforme orizzontali riguardano la giustizia e la pubblica amministrazione e potrebbero avere effetti importanti sul tasso di crescita dell’economia. Le riforme abilitanti sono rivolte alla semplificazione dei contratti pubblici, alla lotta all’evasione fiscale e al federalismo fiscale, quelle settoriali sono relative all’ambiente e all’economia circolare.

L’impatto positivo sulla crescita porterà un incremento di tre punti di pil. “In pratica si dovrebbe passare da un’economia debole a un’economia forte” ha spiegato De Novellis.

Le criticità riguardano soprattutto il lasso temporale lungo e la stabilità del governo: “Il prossimo esecutivo potrebbe avere una base elettorale che non si aspetta certe riforme, come quella del Catasto. Occorre poi pensare ad una selezione delle opere pubbliche, tutelare dalle interferenze della corruzione, conciliare la semplificazione e la legalità – ha detto ancora il relatore – inoltre l’aumento del prezzo dell’energia ha fatto esplodere i costi nell’edilizia. Certe opere andrebbero pertanto rifinanziate. Per opere non urgenti non è il momento migliore”.

De Novellis ha ricordato anche che il sistema produttivo ha reagito bene ma non deve passare l’idea che l’Europa ci aiuti, esistono infatti paesi più poveri come Romania e Bulgaria.

Il professor Bianchi ha spiegato l‘impatto del Pnrr sul pil, pari al 3,1% cumulato in 6 anni. Non tutte le spese, però, sono aggiuntive ma alcune sono sostitutive. Sono previste molte assunzioni di personale, ma sono spese correnti che hanno un moltiplicatore molto basso. Inoltre il Piano è molto frammentato: su 192 miliardi di investimento, 107 riguardano progetti da meno di un miliardo di euro. Gli investimenti sono poco coordinati e la distribuzione territoriale è a pioggia “Era meglio puntare su grandi progetti – ha detto Bianchi – il 40 per cento degli investimenti è destinato al Sud, ma la gestione pregressa dei fondi europei non è stata soddisfacente. Il Pnrr dura 5 anni ma le spese di gestione, come le nuove assunzioni, vanno mantenute quindi peseranno permanentemente sul bilancio”.

Le riforme orizzontali sono ben dettagliate ma di difficile esecuzione e non si fanno previsioni sulla specializzazione produttiva dell’Italia. Le imprese italiane sono medio piccole e refrattarie all’innovazione: “Serve più impegno per la programmazione economica e la politica industriale” ha concluso Bianchi.

Nel dibattito si è parlato della redistribuzione della ricchezza. I relatori hanno ricordato che esiste una polarizzazione della ricchezza. Il pil cresce ma un’ampia fascia della popolazione, che comprende anche lavoratori e non solo disoccupati, soffre. Per gli economisti una cattiva distribuzione del redditto è contraria alla crescita perché la propensione al consumo dei ricchi è bassa mentre quella dei poveri è alta. Sarebbe essenziale ridurre l’evasione fiscale, pari a 110 miliardi di gettito ogni anno.

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