La relazione del professor Roberto Esposito è stata introdotta dalla professoressa Simona Forti (docente di Filosofia politica presso l’Università di Alessandria), che ha preliminarmente tracciato una breve storia del concetto di biopolitica.

Che cosa si intende per biopolitica e perché se ne parla? Il termine rimanda all’idea dell’esistenza di un rapporto fra il potere politico e il bios, il vivente. In quanto tale, l’origine del concetto di biopolitica deve essere ricondotta al secolo diciannovesimo quando si diffuse nella scienza politica l’uso di descrivere lo Stato come un organismo dotato di una vita propria, non diversamente dagli esseri biologici. In particolare, la parola biopolitica nacque per identificare le dottrine di quanti, fra gli scienziati sociali, sostenevano la possibilità di studiare e comprendere il comportamento politico sulla base delle scienze biologiche, in primo luogo l’etologia e la sociobiologia. È il caso della corrente filosofica che negli Stati Uniti d’America aveva e ha la propria voce nella rivista Research in Biopolitics. Il suo presupposto filosofico è l’esistenza di una natura umana comune a tutti gli uomini, in tutte le epoche, e da cui è possibile derivare leggi valide per qualsiasi organizzazione sociale. Un assunto naturalistico verso il quale la filosofia europea novecentesca sarà fortemente critica.

Dopo una lunga eclissi, a metà degli anni Settanta, il termine biopolitica farà infatti nuovamente la sua comparsa nella riflessione di Michel Foucault che nel suo La volontà di sapere se ne avvalse per definire il concetto di potere. Per Foucault la modernità era caratterizzata dalla tendenza della politica ad assumere come oggetto delle proprie decisioni sempre di più il ?mero vivere?, l’uomo in quanto essere vivente. Biopolitica e biopotere sono allora il risultato della consapevolezza che le società umane hanno sviluppato del fatto biologico fondamentale secondo cui l’uomo costituisce una specie. Ancor prima di Foucault, però, è Hannah Arendt a riflettere, pur senza teorizzarlo, sul concetto di biopolitica, sostenendo come la politica novecentesca fosse progressivamente divenuta amministrazione del vivente.

Dopo la riflessione di Foucault, il termine e il concetto di biopolitica sono entrati stabilmente nel lessico e nelle categorie della filosofia politica. Il dibattito  è proseguito con Heller e Fehér che lo hanno utilizzato in polemica con i movimenti della politica dell’identità, dal femminismo, all’ambientalismo, ai sostenitori del black power, rimproverando loro di politicizzare l’identità biologica. In Italia Agamben, sulla scorta del pensiero di Foucault, Arendt e Benjamin, recupera il concetto di biopolitica per interpretare il presente. C’è poi chi ha dato al termine e al fenomeno da esso descritto una valenza positiva; è il caso, ad esempio, di Toni Negri secondo il quale proprio il controllo dei corpi, istitutivo della politica moderna, permette di individuare un nuovo soggetto antagonista globale, la moltitudine.

 

Per Roberto Esposito la cifra distintiva del nostro tempo presente è certamente  la sorpresa. È lo stupore, prima ancora che l’orrore, l’emozione principale che abbiamo provato in questi ultimi anni, posti di fronte a fatti e accadimenti storici per più di un motivo inaspettati, dalla fine dell’impero sovietico agli attentati dell’11 settembre 2001. Fatti incomprensibili soprattutto qualora ci si ostini a spiegarli utilizzando le categorie tradizionali della politica. Anche ?globalizzazione?, il termine con cui si è soliti denominare la nostra epoca, è insufficiente per illustrare la situazione del tutto inedita che stiamo vivendo in questi anni e che getta una luce diversa anche sull’interpretazione del passato.

Qual è la nuova scena che la terminologia tradizionale non riesce a spiegare e che anzi in realtà tende da tempo a celare? Per disvelarla è fondamentale proprio il ricorso al concetto di biopolitica. Nella sua formulazione più generale, esso si riferisce all’intreccio cha a un certo momento si sviluppa fra la politica e la vita, il dato biologico.

In epoca moderna la conservazione della vita diviene la preoccupazione dominante della politica. Si pensi per esempio al racconto del patto istitutivo della comunità politica presente sia in Hobbes sia in Rousseau, i cui contraenti entravano in società proprio sotto la spinta della necessità di autoconservare la propria vita. Non è un caso che il contrattualismo filosofico nasca proprio nel momento in cui in società che vanno secolarizzandosi viene meno il ?genio? della trascendenza: la politica deve conservare la vita, è un apparato immunitario per una vita senza più una garanzia di salvezza eterna, divina.

Fra la fase moderna e la fase attuale intercorre però una cesura che dobbiamo datare agli inizi del ?900. Nella fase passata il rapporto fra politica e vita è ancora mediato da filtri concreti. Oggi invece quei filtri non esistono più, la sovrapposizione fra politica e vita è immediata.

Nel ?900, innanzitutto, c’è un progressivo intrecciarsi di politica, medicina e biologia. Quando la biopolitica si intreccia con il nazionalismo e con il mito della razza, quando la ricerca della salvezza passa dal piano individuale a quello collettivo, essa genera poi il suo rovescio, la tanatopolitica. Ciò avviene quando la conservazione della vita di un popolo razzialmente considerato è assunto quale valore ultimo. Il bios, la vita nel suo complesso viene così tagliata in zone di diverso valore.

Si tratta di una deriva anticipata nella storia del pensiero dalla riflessione del filosofo tedesco Friedrich Nietzsche, che per primo colse la falsità delle categorie politiche tradizionali. Per Nietzsche, infatti, gli assetti di potere sono l’esito di una lotta che ha in realtà per oggetto la questione della vita, al cui centro non c’è la coscienza di individui presunti razionali ma il loro corpo. Lo straordinario rilievo della prospettiva nietzscheana sta nel fatto di aver compreso che lo scontro attorno alla vita sarebbe stato lo sfondo delle società umane nel futuro: la vita non conosce altra forma che quella di un continuo autopotenziamento. Così Nietzsche può chiedersi per quale ragione non si dovrebbe incidere sulla produzione della vita stessa in un futuro in cui vi sia la possibilità di farlo.

La vita umana, con il ?900, diviene così oggetto di decisioni che riguardano non solo le sue soglie esterne, ma anche le sue soglie interne. Il passaggio principale è rappresentato dal nazismo, con il cui avvento la vita del popolo tedesco diventa un idolo. Il meccanismo immunitario applicato alla nazione si rovescia così in tanatopolitica, in produzione di morte. A differenza del comunismo che rimane nello sfondo della filosofia moderna, il nazismo non ha nulla a che fare con la modernità. Si tratta di una biologia realizzata, alla cui azione è intrinseca l’idea che razze umane e razze animali siano fra loro comparabili. Questo fatto spiega anche il ruolo straordinario che ebbero all’interno del movimento nazionalsocialista medici, antropologi e biologi.

Per il nazismo, pur di proteggere e potenziare la vita del popolo tedesco, bisognava allargare il cerchio della morte. Ogni tedesco aveva il potere di vita e di morte su ogni altro essere umano. La vita degli ebrei era considerata già morta, sicché attraverso il loro sterminio non si faceva altro che affermare i diritti della vita, restituendo alla morte ciò che di fatto già le apparteneva.

La catastrofe della Germania non ha significato la fine della biopolitica. Non è il nazismo a produrre la biopolitica, è al contrario la biopolitica a produrre il nazionalsocialismo. Il nodo che si era intrecciato fra politica e vita non poteva più essere sciolto con il ritorno al vecchio ordine, come dimostrano la situazione attuale e gli avvenimenti che si sono susseguiti a partire dalla caduta dell’impero sovietico. Si veda il ruolo che hanno avuto in questi ultimi anni le questioni etniche nel generare nuovi inaspettati conflitti e l’impatto che le moderne tecnologie della vita hanno sulle nostre società.

Al centro della politica contemporanea vi è, dunque, la questione della vita biologica. Le vicende successive all’11 settembre non costituiscono l’inizio delle dinamiche biopolitiche in atto, ma semmai ne segnano l’inarrestabilità. Si pensi al concetto di guerra preventiva che implica l’idea che la guerra sia la vera, unica forma di coesistenza possibile, in luogo della pace. È nelle pratiche terroriste che vediamo il segno più evidente di questa deriva, nella figura rivelatrice dell’attentatore suicida, che genera morte attraverso la propria morte. Del resto, oggi si assiste sempre più a un’assoluta sovrapposizione fra difesa della vita e produzione della morte, come dimostra in maniera esemplare la vicenda del teatro Dubrovska di Mosca o quelle del carcere di Abu Graib a Baghdad. Bisogna, però, sforzarsi di immaginare una nuova politica, una politica non più sulla vita, ma per la vita, in cui cioè avvenga un’effettiva distinzione fra biopotere e biopolitica.

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