Valerio Pellizzari, in apertura di serata, ha presentato Giandomenico Picco, ricordando brevemente gli episodi più significativi della sua brillante carriera diplomatica. 

Picco ha lavorato con successo per le Nazioni Unite dal 1973 al 1992, svolgendo anche l’incarico di Sottosegretario Generale per gli Affari Politici. Fra i maggiori successi della sua carriera possiamo ricordare gli sforzi delle Nazioni Unite che hanno condotto al rilascio degli ostaggi occidentali trattenuti in Libano e le trattative che hanno portato il cessate il fuoco tra Iran e Iraq. Ha inoltre rappresentato il Segretariato Generale nelle negoziazioni per gli Accordi di Ginevra sull’Afghanistan del 1998 e nell’arbitrato sulla Rainbow Warrior, la nave ammiraglia di Greenpeace, misteriosamente affondata nella baia di Auckland in Nuova Zelanda.

 

Giandomenico Picco ha quindi ricordato come la sua attività svolta presso l’ONU sia sempre stata focalizzata nell’area del Medio Oriente (un’area geografica molto estesa che si protrae dalla Turchia al Pakistan, dal mar Caspio all’Arabia Saudita) e come questo mondo gli sia rimasto nel tempo molto vicino, sia in termini di rapporti istituzionali sia di relazioni personali.

Il relatore ha quindi sottolineato come negli anni più recenti si sia andato costituendo un nuovo sistema geopolitico, un vero e proprio paradigma internazionale caratterizzato da elementi inediti.

Il mondo è oggi assolutamente asimmetrico, fenomeno questo direttamente dipendente dalla globalizzazione in atto. Mentre un secolo fa le maggiori potenze potevano influenzare facilmente quelle minori, oggi, in un mondo divenuto interdipendente, persino un Paese molto piccolo può colpire una superpotenza, come si è più volte verificato nel settore finanziario, per non parlare poi del terrorismo.

Inoltre, non esistono più le vecchie alleanze ma si parla piuttosto di allineamenti, ovvero di schieramenti basati sulla concordanza di interessi e di azioni,  piuttosto che sulla condivisione di ideologie (anche degli ottimi amici possono essere d’accordo su alcune questioni e dissentire su altre).

 Infine, in un contesto geopolitico di tal genere, è implicita una riformulazione del concetto di ?nemico?. Con la caduta del predominio delle ideologie laiche (all’inizio degli anni Novanta del Novecento) e il riemergere delle ideologie religiose, il nemico assume oggi connotati differenti, per lo più di natura dogmatica.

Detto questo e sottolineato come tale paradigma si applichi bene anche al mondo mediorientale, Picco ha evidenziato come spesso il riferimento al Medio Oriente solleciti un immediato rimando al conflitto palestinese-israeliano. In realtà questo conflitto, per quanto ancora doloroso e sostanzialmente irrisolto, non è più strategico. Basti pensare, a sostegno di questa tesi, come negli anni Ottanta le stragi di civili causate dall’una e dall’altra parte causassero immediatamente delle ripercussioni a livello mondiale, provocando una repentina oscillazione del rapporto dollaro-yen e del prezzo del petrolio, mentre oggi ciò non avviene più. Già negli anni Novanta il conflitto tra israeliani e palestinesi aveva perso forza strategica. Attualmente la vera partita, nel Medio Oriente, si gioca tra Arabia Saudita e Iran, due Paesi in forte competizione che da tempo ?lottano? per la detenzione della leadership in area medio-orientale.

Già durante la guerra tra Iran e Iraq (1980-1988) emerge chiaramente il ruolo cardine dell’Arabia Saudita. Ricordiamo brevemente i fatti. Nel 1980 Saddam Hussein tentò di approfittare della caotica situazione iraniana creatasi in seguito alla rivoluzione islamica condotta da Khomeini, il quale si adoperò per esportare il radicalismo confessionale islamico all’interno della nazione irachena e appoggiò quasi tutti i gruppi terroristici antioccidentali. Saddam rivendicò alcuni territori petroliferi iraniani da molti anni in contestazione e cercò di indebolire il prestigio iraniano tra le popolazioni arabe. La guerra, lunga e cruenta, evidenziò alcuni aspetti strategici di grande interesse. Innanzitutto, per la prima volta e quasi in termini anti-storici, Saddam fu sostenuto da una vasta alleanza, costituita sia dagli Stati Uniti, sia dall’Unione Sovietica, sia da molti Paesi europei, come la Francia, la Germania e l’Italia (in pratica l’intero Occidente, interessato a ridurre la potenza dell’Iran khomeneista e preoccupato che il fondamentalismo islamico potesse impadronirsi dei Paesi arabi e musulmani). Ma un ruolo fondamentale fu giocato dagli sceicchi arabi (sunniti, come il regime al potere in Iraq) che sostennero economicamente e militarmente l’Occidente, tanto che, ricorda Picco, durante le trattative di pace – una pace mediata dall’ONU quando ormai, essendo stremate le forze di entrambi i Paesi belligeranti e non prospettandosi la vittoria di nessuno dei due, si arrivò a un negoziato – i banchieri sauditi risultarono inequivocabilmente i veri ?burattinai? di Saddam. Perché l’Arabia Saudita si era tanto impegnata in una guerra che non la coinvolgeva direttamente? La risposta è semplice. L’Arabia da sempre è stata il portabandiera del mondo arabo sunnita. I sunniti, che si presentano come i depositari dell’ortodossia islamica perché sono rimasti fedeli nei secoli alla tradizione del Profeta, costituiscono la maggioranza dei musulmani e si sono sempre opposti con maggiore o minore violenza a tutte le ?dissidenze? dell’Islam, in particolare agli sciiti. La  rivoluzione khomeneista rischiava seriamente di togliere la leadership alla maggioranza sunnita e di causare un violento spiazzamento culturale e politico nell’area medio-orientale a favore degli sciiti.

Anche il fenomeno dei Taliban fu sostanzialmente inventato a tavolino dai Sauditi e dai Pakistani, i quali favorirono con ogni mezzo l’insediamento in Afghanistan del fenomeno tradizionalista e conservatore talebano, strumentalizzandolo in senso violentemente anti-sciita, ovvero anti-Iran. Ma poi l’operazione è sfuggita di mano, con gli attentati del settembre 2001 a New York e la conseguente reazione militare americana.

L’incontro-scontro tra sauditi e iraniani è poi continuato, palesandosi con analoga evidenza, anche nel caso iracheno. L’Iraq, ricorda Picco, è uno Stato giovane, ?inventato? in seguito a una promessa. Sulla base del Protocollo di Damasco, nell’agosto 1915 l’emiro Faisal, figlio dello sceicco hascemita della Mecca, offerse l’alleanza araba all’alto commissario inglese in Egitto Sir Henry MacMahon. L’accordo anglo-arabo impegnava l’Inghilterra a riconoscere all’emiro il trono di Damasco nell’ambito di uno Stato arabo indipendente in cambio della temporanea occupazione della Mesopotamia. Un ruolo strategico fu assunto in tali circostanze dal tanto romanzato Lawrence d’Arabia, inviato dagli Inglesi per sollevare alcuni gruppi di Sauditi in funzione anti-ottomana, e da Gertrude Bell, un’avventuriera inglese, orientalista, archeologa, che forniva importanti informazioni militari sulla Mesopotamia. Nel gennaio 1919 la delegazione araba alla Conferenza di pace guidata da Faisal rivendicò l’indipendenza completa delle regioni arabe dell’ex Impero ottomano riunite in un’unica monarchia da sviluppare con l’assistenza finanziaria e tecnica di una Potenza europea. In realtà, semplificando molto i fatti, Damasco, a seguito di accordi precedenti intercorsi tra Inghilterra e Francia, era già stata promessa a quest’ultima e per soddisfare le pressanti richieste di Faisal si arrivò alla costituzione ex novo di uno Stato, l’Iraq appunto, con capitale Baghdad, all’inizio sotto mandato della Gran Bretagna e, nel 1932, finalmente indipendente. La salita al potere di Faisal fu dunque imposta dagli Inglesi e ciò significò una ascesa della forza sunnita (Faisal era infatti saudita e, come già ricordato, l’Arabia da sempre rappresenta la vera leadership sunnita). L’aviazione inglese determinò una violentissima repressione della rivoluzione tentata dagli sciiti, da allora condannati a una posizione politica e sociale assolutamente marginale. Negli anni Ottanta gli sciiti erano ancora pesantemente demonizzati, non solo all’interno del Paese, ma anche dall’Occidente, il quale li identificava tout court col fenomeno dei kamikaze. Dopo la caduta di Saddam, essendo gli oppositori del dittatore in prevalenza sciiti, e dopo l’ascesa di Bin Laden, appartenente alla grande famiglia sunnita, la situazione si è capovolta e nell’immaginario collettivo occidentale i sunniti sono diventati i ?cattivi? da combattere, mentre gli sciiti sono visti con maggior benevolenza e come possibili e preziosi alleati in funzione anti-sunnita.

In questo intreccio di relazioni e di interessi si evidenzia la grande ambiguità degli Stati Uniti, i quali da un lato demonizzano la componente sunnita e dall’altro sono legati a doppia mandata con la famiglia reale saudita di stirpe wahhabita e quindi, come detto, di fede sunnita. Il matrimonio tra Arabia e Stati Uniti risale al lontano 1945, quando Roosevelt, venendo direttamente a Yalta, incontrò il re d’Arabia. Nel momento in cui si stava disegnando la cartina del mondo della Guerra Fredda, il presidente americano e il monarca saudita si scambiarono delle promesse particolari che diedero vita a un ?matrimonio d’interesse? tra la più grande nazione democratica occidentale e il regno wahhabita conservatore: il petrolio saudita avrebbe irrigato a un prezzo ragionevole il mondo libero finché gli Stati Uniti avessero garantito il potere della dinastia di Ibn Séoud  e dei suoi figli sul regno che portava il nome della loro famiglia. È stato un matrimonio sicuramente felice e fedele, con un’unica incrinatura nel 1973 con l’embargo sul petrolio destinato agli alleati di Israele. Nell’agosto 1990 quando Saddam invade il Kuwait, minacciando i campi petroliferi sauditi, le clausole implicite previste dall’accordo ebbero automaticamente effetto: l’esercito americano, con qualche alleato occidentale e arabo-musulmano, venne in salvataggio dell’Arabia e della sua dinastia, liberando il Kuwait e respingendo l’esercito di Saddam in Iraq. Tuttavia, l’ascesa di Bin Laden e il dilagare del terrorismo islamico internazionale hanno decisamente rimarcato l’ambiguità del rapporto Stati Uniti-Arabia di cui si diceva prima. Se da un lato il sistema stesso del conservatorismo religioso wahhabita era stato giudicato in passato accettabile in quanto permetteva di rafforzare l’anticomunismo per mezzo di un Islam rigorista, di impedire il contagio socialista in Medio Oriente e di contenere l’espansione della rivoluzione iraniana, la sua passività se non complicità attraverso interi settori della società, addirittura di influenti circoli sauditi nei confronti del terrorismo islamico, getta molte ombre sulla vera natura del rapporto.

Oggi la ?partita a scacchi? tra Iran e Arabia, come l’ha definita Picco, è in una situazione di sostanziale stallo. Se da un lato l’Arabia ha subito pesanti sconfitte, ad esempio la costituzione e il rafforzamento dopo la cacciata di Saddam di un enorme fronte sciita che va dal Belugistan al Libano, oggi, grazie al petrolio, può ancora giocare un ruolo determinante non solo per gli equilibri del Medio Oriente, ma del mondo intero. Non dimentichiamo infatti che l’Arabia rimane il più grande produttore mondiale di petrolio, fornitore leale dell’Occidente, detentore soprattutto di spear capacity, ovvero della capacità di colmare il divario tra produzione e consumo. Infine non è da trascurare il fatto che la Russia ha ristatalizzato il petrolio e che i sauditi potranno dunque ricolloquiare con un governo, negoziando direttamente con Mosca e non con compagnie private, accordandosi sulla gestione e spartizione della produzione petrolifera.

Un secondo aspetto preso in esame da Picco riguarda il fenomeno del terrorismo. Il terrorismo cosiddetto vecchia maniera (Ira, Hezbollah, Brigate Rosse ecc.) poteva definirsi un terrorismo di natura tattica: era cioè finalizzato al raggiungimento di un obiettivo preciso, chiaro, caratterizzato dalla disponibilità alla negoziazione col nemico, fortemente radicato nella comunità di appartenenza; si scindeva in un’ala politica e in un’ala militare; poteva sopravvivere  anche senza la presenza di un nemico dichiarato.

Oggi il terrorismo ha una natura differente, è un terrorismo strategico, il suo obiettivo è di tipo cosmico (si vedano ad esempio le dichiarazioni di Bin Laden relativamente alla costituzione di un califfato universale senza infedeli), non ha mai negoziato col nemico, ha un’unica struttura soltanto operativa (a volte virtuale), non ha un ruolo sociale, e soprattutto non può esistere senza nemico. È per questo che esso individua un ?nemico perpetuo?, ponendosi obiettivi di fatto mai raggiungibili.

Il nuovo terrorismo rappresenta una sfida totale lanciata soprattutto al mondo islamico, il cui obiettivo è la sollevazione delle masse islamiche e come tale dovrà essere affrontata principalmente dal mondo musulmano stesso. Il terrorismo in Europa fu sconfitto soprattutto grazie all’infiltrazione. Oggi non è certo nelle nostre possibilità fare ciò né tocca a noi farlo. La sfida pertanto rimane aperta e irrisolta, anche se Picco ha concluso il suo intervento con un messaggio di speranza. L’Islam non è un mondo radicalmente diverso dall’Occidente, anzi ne è parte integrante, in quanto figlio anch’esso di una religione monoteistica, fondata sul senso della colpa originaria, al pari del Cristianesimo e del Giudaismo.

 

Nel corso del dibattito, particolarmente vivace e partecipato a conferma di una serata davvero di grande interesse, sono state affrontate molteplici questioni che qui riassumiamo brevemente.

 

Oil for food: il Ministero pubblico della Confederazione (MPC) ha aperto un’inchiesta in relazione al programma dell’ONU ?Petrolio in cambio di cibo? istituito per alleviare gli iracheni colpiti dall’embargo internazionale sotto il regime di Saddam Hussein. Al centro delle indagini vi sono sospetti di corruzione passiva, attiva e di riciclaggio di denaro. Picco ha decisamente respinto l’ipotesi di un coinvolgimento diretto di Kofi Annan, sia in virtù di una frequentazione personale di lunga data, sia per il fatto che era praticamente impossibile per il Segretario Generale dell’ONU occuparsi in prima persona di queste vicende.

Ruolo dell’ONU: l’ONU è oggi una grande macchina che sta cercando di adattarsi ai tempi, pur con molti limiti. Innanzitutto continua a trattare esclusivamente con attori governativi e questo rappresenta un grosso limite. Inoltre permangono al suo interno ancora troppe ?incrostazioni? risalenti all’epoca della Guerra Fredda. Il vero ?motore? dell’ONU dovrebbero essere, secondo Picco, le persone che lavorano al suo interno. Se le persone non si assumono le loro responsabilità individuali gli impegni nei confronti delle decisioni collettive risultano estremamente deboli.

Democrazia esportata: relativamente a questo aspetto Pellizzari e Picco hanno manifestato opinioni differenziate. Mentre Pellizzari, riportando anche interessanti racconti personali della sua attività di reporter di guerra, ha chiaramente deprecato l’esportazione della democrazia con modalità impositive, citando sia il caso della Cambogia sia l’Afghanistan sia l’Iraq, Picco si è rivelato più cauto, evidenziando sì i danni di un’azione coercitiva, ma sottolineando nel contempo la difficoltà di trovare, in alcuni casi, delle valide alternative.

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