Il relatore ci parlerà di come cambia l’Italia sotto l’aspetto demografico, prendendo in esame tre aspetti:

 

–          la longevità della popolazione;

–          la Seconda Transizione Demografica (std);

–          l’immigrazione.

 

I cambiamenti nella popolazione costituiscono il quadro generale entro cui si innestano le potenziali sfide per il welfare, conferendo diversi gradi di percorribilità alle soluzioni.

Come cambia la popolazione nel nostro paese?





Dal 1950 siamo cresciuti costantemente per trent’anni, poi la crescita è rallentata. E domani? Le cose cambiano sensibilmente a seconda dell’ipotesi di fecondità: alta, media, bassa. Le previsioni sono quelle dell’onu. In ogni caso non si prevede ulteriore aumento della popolazione, pur considerando un’immigrazione netta annuale di +120.000, mentre la fecondità viene assunta simile a quella attuale per l’ipotesi bassa e in aumento negli altri casi. Come possiamo constatare, le previsioni sono abbastanza discordanti e la loro affidabilità dipende evidentemente dalla bontà delle ipotesi di partenza. Il terreno demografico però, vista la relativa variabilità dei dati presi in esame, è in pratica il solo che può permettere previsioni con orizzonte cinquantennale. In merito alle ipotesi di fecondità utilizzate per le previsioni, possiamo dapprima osservare l’andamento storico di questo fenomeno nel nostro paese: il numero medio di figli è cresciuto nel dopoguerra fino a 2,5 intorno al 1965, poi ha iniziato a decrescere abbastanza rapidamente fino al 2000  per poi stabilizzarsi (tra 1 ed 1,5) e mostrare una leggera ripresa, dovuta sicuramente al fenomeno delle immigrazioni. Le tre ipotesi per il futuro si basano in tutti i casi su una risalita, più accentuata per l’ipotesi alta e più ritardata e limitata per l’ipotesi bassa (che vedrebbe sostanzialmente il ritorno al livello di fecondità attuale nel 2050).

Consideriamo la struttura della popolazione per età: il grafico che meglio la rappresenta è quello a barre orizzontali per ?coorti? di 5 anni (la classica ?piramide delle età?): il confronto tra il nostro paese e uno ad alta natalità (ad es. il Marocco) mostra come da noi la base della piramide si stia assottigliando quando si scende sotto i 35-40 anni (i figli del baby boom degli anni Sessanta

 





Per il futuro, mentre la base della piramide dipenderà dai cambiamenti nella fecondità, possiamo prevedere con sufficiente attendibilità l’andamento della parte superiore. Il numero di ultrasessantenni continuerà a crescere: erano il 12% della popolazione nel 1950, ora superano il 25% e nel 2050 potranno salire al 35-40% o sfiorare il 50%, a seconda delle ipotesi. Un’analisi della popolazione italiana in età lavorativa, senza nuove migrazioni, mostra un saldo negativo di 200-250 mila unità all’anno, per i prossimi 15 anni.

Quali sono le ragioni di questa dinamica, che ritroviamo in quasi tutti i paesi occidentali? Essenzialmente tre: si vive più a lungo, sono cambiati i comportamenti familiari e cresce il fenomeno della migrazione.

Vediamo dapprima la longevità. La ?speranza di vita? nei paesi sviluppati mostra un progresso continuo negli ultimi 50 anni (da 69 a quasi 79 anni), nonostante lo scetticismo di molti analisti. A questo progresso del valore medio (dovuto soprattutto a minor mortalità in età giovanile) ora si associano altri cambiamenti che toccano la durata dell’età anziana. Siamo di fronte alla cosiddetta ?società dei 100 anni?, (gli ottimisti parlano di una speranza di vita di 100 anni per un bambino nato nel 2000) che pone sicuramente nuove sfide per il welfare. Nella tripartizione del ciclo di vita, diventa sempre più vasto lo spazio dell’età anziana. Il sistema pensionistico e la spesa sanitaria dovranno essere reimpostati su basi nuove, sarà necessario riformare le riforme?

Il panorama italiano presenta alcuni aspetti peculiari, rispetto ad altri paesi occidentali: i figli vivono in un contesto di prossimità molto più spinto (oltre la metà dei genitori sopra i 55 anni vive con i figli e solo una piccola percentuale di questi vive a oltre 25 km di distanza), solo la Spagna ci somiglia, mentre per altri paesi, in particolare quelli del nord Europa, le percentuali quasi si invertono; allo stesso modo, i contatti della famiglia con i figli sono molto più frequenti nel nostro paese.





La longevità è correlata all’aumento della spesa sanitaria (sia quella pubblica che quella privata), che vede una crescita sensibile: dal 1970 l’aumento corrisponde al 70% circa. Con l’aumento della vita media è facile prevedere un forte incremento delle cure di lungo periodo, assai costose. È difficile pensare oggi a come creare i mezzi per sostenere l’impatto di tale aumento dei costi sanitari che, secondo le previsioni, inciderà per diversi punti del prodotto interno lordo (da 2 a 9% per il nostro paese, a seconda dello scenario considerato, per i prossimi 40 anni).





Dopo la longevità, passiamo a esaminare un fenomeno che ha pesato, e continua a pesare, sull’andamento demografico: la seconda transizione demografica (std, per semplicità). Si tratta di una serie di cambiamenti in atto dagli anni Sessanta, che si diffondono a partire dal Nord-Ovest europeo. Si rigettano le norme sociali tradizionali (soprattutto l’autorità), si dà enfasi all’autonomia individuale (privilegiando la vita da single) e si rinviano o si rifiutano certe scelte irreversibili (il matrimonio, diventare genitori). Viene così a emergere in modo massiccio il fenomeno delle convivenze e, nei comportamenti, si slega sempre di più la sessualità dal matrimonio e dalla fecondità mentre aumentano le unioni di tipo nuovo.

Fino agli anni Novanta però, la std sembra fermarsi ?alle Alpi e ai Pirenei?, coinvolgendo cioè molto poco

Italia e Spagna. Oggi però assistiamo a una evidente diffusione dei nuovi comportamenti anche in questi





paesi, con cambiamenti radicali. Permangono comunque alcune peculiarità italiane, quali la permanenza dei figli nella famiglia d’origine: i giovani tra i 18 e 34 anni che vivono con i genitori sono 60-70% in Italia, 35-45% in Spagna, scendendo via via anche sotto il 10% in Svezia e Danimarca (è da

notare che in tutti i paesi sono i maschi a restare di più in famiglia). Sempre per la stessa fascia di età, la percentuale di giovani coniugati o conviventi vede l’Italia in coda (19-33%) mentre gli altri paesi si situano intorno al 30-50% (il primo dato è quello della popolazione femminile, più ?precoce?). In Italia ci si sposa, o si convive, decisamente più tardi.

È interessante analizzare più in dettaglio il motivo di uscita dalla famiglia, per i 35-40enni del nostro paese: i 2/3 dei maschi del Nord-Centro se ne vanno di casa per sposarsi (40%), convivere (10%) o per lavoro-studio (16%), mentre al Sud e Isole le stesse motivazioni riguardano i 4/5 dei giovani (matrimonio: 48%, convivenza: 3%, lavoro e studio: 25%);  per le femmine, aumenta di circa 20% la percentuale delle uscite per matrimonio.

Un altro dato che mostra l’effetto della std è quello della percentuale di convivenze come prima forma di unione. Al Nord e Centro Italia si constata un’impennata che porta il valore dal 3-5% degli anni anteriori al 1960, fino al 25% del 1970 (nei paesi scandinavi, questa percentuale supera oggigiorno il 90%).

Le nascite, nel nostro paese, sono cresciute leggermente negli ultimi 5 anni (da 543.000 nel 2000 a 585.000 nel 2005), ma è aumentato il numero di nati fuori dal matrimonio (da 10,2 a 16%), valore che in altri paesi europei raggiunge il 40-50%. I matrimoni, nello stesso periodo sono calati (da 284.000 a 245.000) mentre è salita la percentuale di unioni civili (da 25 a 32%). Un cenno infine al tasso di divorzialità che, nel nostro paese, è cresciuto dal 3% del 1980 al 12% circa del 2000.

Abbiamo visto come la std ponga nuove sfide per il welfare e imponga nuove scelte familiari.

 

–       I giovani potranno mantenere a lungo l’attuale livello di permanenza nella famiglia d’origine?

–       La convivenza è destinata a diventare la ?via principale? per le nuove coppie?

–       Si renderanno necessari interventi espliciti (servizi, trasferimenti monetari, leva fiscale) per contrastare la bassa fecondità?

–       Come intervenire per offrire uguali opportunità di fronte alla vita? (la scelta del numero di figli da parte dei genitori non dovrebbe incidere sulle opportunità del nuovo nato).

 

Come rispondono i diversi paesi? Esaminando la percentuale di bambini (0-2 anni) affidati a servizi di cura all’infanzia, troviamo l’Italia in posizione di coda (5%, superiore solo a Spagna e Grecia, contro il 30% di Belgio e Francia e il 65% di Danimarca e Svezia). È stato calcolato il tasso di rischio di povertà per i diversi paesi confrontando la situazione delle famiglie con due figli con quella delle famiglie che hanno più di due figli. Anche qui l’Italia è in posizione di coda: 20% dei nuovi nati rischia la povertà se ha un solo fratello contro 35% se la famiglia è più numerosa. In alcuni paesi (Svezia, Finlandia) il rischio non supera il 5% e la differenza è minima rispetto al numero di figli, fino al caso del Belgio in cui, grazie ad interventi espliciti, incorre in minor rischio di povertà il nuovo nato in famiglia numerosa.





Il terzo elemento d’impatto sulla demografia è l’immigrazione, con effetti molto rapidi, anche a causa del veloce calo della fecondità del paese, con necessità di nuove forze lavoro.

L’Italia è diventata un paese d’immigrazione a partire dalla metà degli anni Ottanta. L’immigrazione è rapida, se si considera che nel 1980 si stimava una presenza di 1.144.000 stranieri sul nostro paese (di cui 473.000 irregolari) mentre nel 2005 siamo a 3.350.000 (con 539.000 irregolari). I paesi di provenienza vedono in testa l’Albania (316.000), seguita da Marocco (295.000), Romania (249.000) e Cina (118.000). La crescita negli ultimi anni proviene da quasi tutti i paesi, in particolare dall’Albania e dall’Est europeo, in particolare l’Ucraina.

Si stima circa un 20% di immigrati irregolari. Il valore però è fortemente influenzato da sanatorie ed interventi legislativi.

Anche l’immigrazione pone sfide importanti per il welfare.

 

–       Come far integrare o convergere culturalmente i nuovi residenti? Possiamo imparare dall’esperienza di altri paesi, anche cercando di non ripeterne gli errori.

–       Come prendere in conto il problema delle differenze religiose?

–       Come porsi di fronte agli immigrati di seconda generazione? Come trattare i problemi della scuola e della cittadinanza?

Questi sono probabilmente, in prospettiva, i problemi maggiori.

 





Ora gli alunni con cittadinanza non italiana che frequentano le nostre scuole sono il 4,2%, si prevede un incremento tra il 6-7% entro il 2010; anche le domande di acquisizione della cittadinanza italiana attraverso il matrimonio (quasi 20.000 all’anno) o per altre vie (circa 10.000), sono in costante aumento.

Riassumendo, l’evoluzione demografica ci pone di fronte a condizioni mai sperimentate prima:

–          la prospettiva di una vita molto lunga per molti;

–          la prosecuzione di bassa fecondità con aumento della quota di persone senza figli;

–          l’impatto della Seconda Transizione Demografica con percorsi familiari non standardizzati;

–          il crescente fenomeno dell’immigrazione nel nostro paese.

 

Queste nuove condizioni impongono di pensare a un welfare sostenibile lungo l’asse temporale delle generazioni, non anno per anno, né quinquennio per quinquennio.

 

 

Spunti tratti dal dibattito

 

E.D. – Il problema della fame deriva dallo sconsiderato numero di persone che popolano il pianeta. Perché non pensare a calare di numero? L’esempio dell’evoluzione di due paesi come il Brasile e il Giappone non dovrebbe essere illuminante, in questo senso?

 

F.B. – Certamente esistono limiti di sostenibilità a livello mondiale, ma il problema è molto spesso di natura locale o regionale, non globale. In molte zone del pianeta non è possibile decrescere senza cambiamenti di struttura. C’è evidenza empirica dello stretto legame tra sviluppo e crescita demografica (le ?tigri asiatiche? ne sono un chiaro esempio). Più che Brasile e Giappone, si possono osservare casi come Francia e Stati Uniti, la cui influenza mondiale è variata in sintonia con lo sviluppo demografico.

 

G.R.Dai dati della relazione emerge una tendenza marcata alla dissoluzione della famiglia. Quale potrebbe essere la politica più adeguata per intervenire?

 

F.B. – In Italia cambiano i modi di ?essere famiglia?. La centralità del matrimonio ha valenza costituzionale, oltre che religiosa. Un passo avanti potrebbe essere fatto mettendo al centro il bambino e pensare di più ai suoi bisogni che a quelli dei genitori. Ci sarà confronto con il resto d’Europa, questo è inevitabile.

 

B.S.Lo sviluppo economico e quello demografico sicuramente interagiscono, ma il fenomeno ha molte variabili. Occorre trattare a parte il flusso migratorio, che si dirige verso le economie in salute.

 

A.B.A livello mondiale, la popolazione può ancora crescere o deve diminuire? Che cosa dicono gli esperti?

 

F.B. – Non c’è accordo in letteratura, e non si sa quanto potrà ancora durare la sostenibilità del pianeta.

 

G.G.Sul tema demografia e impatto sul welfare, ci sono differenze tra i due schieramenti politici italiani?

 

F.B. – Unione: politiche di tipo pacs; servizi (es. asili nido) o deduzioni fiscali per categorie specifiche; supporto ?antipovertà? per famiglie a basso reddito; ?bonus? compartecipato Stato/famiglia

Casa delle libertà: mantenimento del bonus di 1000 ?; quoziente familiare (unità impositiva a livello famiglia). Ci sono poi differenze sulle politiche migratorie: l’Unione pone enfasi sull’integrazione mentre la CdL propone il mantenimento del sistema attuale di quote.

 

G.R. – Si poteva fare di più nelle politiche dei governi, sul terreno della demografia?

 

F.B. – Sicuramente. Il nostro paese (come la Grecia e la Spagna) lascia molte incombenze alla famiglia. Il problema più grosso è quello dei tempi lunghi: le politiche della demografia hanno bisogno di stabilità.

Le cose da non fare? Soprattutto legare le scelte in questo campo alla legge finanziaria!!

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