L’incontro, organizzato in collaborazione con l’Istituto per la Cooperazione allo Sviluppo (ics) di Alessandria, è stato introdotto dalla professoressa Rosmina Raiteri, la quale ha dapprima ricordato l’attività formativa dell’Istituto, e ha poi presentato il professor Renzo Guolo, noto sociologo e giornalista. Egli ha esordito precisando di voler individuare, a partire dal titolo della conferenza ? ?Occidente e fondamentalismo islamico? ?, le relazioni che intercorrono tra i due termini e la dimensione autonoma che il movimento fondamentalista islamico ha assunto, indipendentemente dall’Occidente.

 Il termine fondamentalismo è nato in terreno protestante nell’America di inizio Novecento, quando due pastori protestanti andavano predicando la necessità di tornare ai fondamenti della Bibbia. In realtà, sono molti i fondamentalismi esistenti e investono diversi contesti religiosi. Più che di fondamentalismo islamico, termine ormai abusato a livello mediatico, sarebbe più corretto parlare dunque di movimenti islamisti, i quali, tutti, pur come vedremo con significative differenze, si propongono di re-islamizzare l’Islam. Quest’affermazione sembrerebbe costituire un paradosso, ma in realtà non è così, dal momento che il giudizio che questi gruppi danno del concreto sviluppo storico dell’Islam è fortemente critico, ritenendo che, all’interno di quindici secoli di storia del mondo musulmano, solo l’esperienza della comunità del Profeta e poi quella dei suoi primi quattro successori sia da salvare.

I movimenti fondamentalisti moderni nascono negli anni Venti del Novecento in Egitto (Fratelli Musulmani) e nell’allora India Britannica (Jama’at at Islami). Fin dagli inizi sono caratterizzati da un duplice aspetto: da un lato, a livello religioso, accusano l’Islam di essersi scostato dal mito di fondazione, dall’altro si costituiscono come dimensione politica proprio al centro di due Paesi che rappresentano il luogo in cui l’Occidente (britannico e non americano) si è insediato attraverso l’opera di colonizzazione. Il discorso sul rifiuto del percorso storico compiuto dall’Islam si intreccia dunque alla contestazione dell’avvenuta adesione e introiezione da parte del mondo musulmano di valori occidentali.

Relativamente alla rivendicazione di una re-interpretazione della tradizione religiosa in chiave molto rigida, bisogna precisare che uno dei luoghi comuni più diffusi sull’Islam riguarda la stretta correlazione esistente tra politica e religione. Ciò è sicuramente vero a livello di modello originario, ma nell’esperienza storica una certa autonomia del politico si è manifestata, sia pure in maniera relativa rispetto ai paradigmi occidentali. L’Islam, infatti, nasce sì come esperienza fondativa sul legame tra politica e religione, ma dopo la scomparsa di Alì, l’ultimo dei quattro califfi ?ben guidati?, primi successori del Profeta, dovrà necessariamente rivedere il suo rapporto con il politico. A seguito della salita al potere attraverso la forza, nel 661, della dinastia omayyade, il khalifa si trasforma in un puro governante. Per legittimare questo strappo, questa sorta di ?schizofrenia? interna, l’Islam dovrà elaborare una giustificazione a posteriori, il quietismo, una tesi finalizzata a legittimare il governante che conquista il potere, purché questi difenda la comunità musulmana e consenta la pratica religiosa. ?La teoria del potere necessario presuppone ? dice Guolo ? la rinuncia al diritto di resistenza al sovrano che si discosta all’adesione alla Legge religiosa in nome della stabilità politica e della difesa dell’ordine sociale?. Il mutamento del criterio di legittimazione del capo politico determinerà, nel corso dei secoli, l’insorgenza di gruppi minoritari che tenderanno a rettificare questa esperienza storica.

Come accennato è il movimento dei Fratelli Musulmani, gruppo storico islamista fondato nel 1928 da Hassan al Banna, seguito un decennio dopo dalla Jama’at Islami di Abu Ala Mawdudi nell’India Britannica, a proporre nella prima metà del Novecento il tema dell’Islam politico. Questi movimenti rettificatori non solo rivendicano il ritorno all’autentico Islam, il modello originario politico-religioso storicamente inveratosi nella prima comunità del Profeta, ma mettono anche in discussione le esperienze di alleanze o sudditanze che i governanti musulmani locali hanno adottato nei confronti dell’Occidente. I Fratelli Musulmani ? un movimento definito neo-tradizionalista, in quanto in esso è forte ed esplicita la volontà di tornare alla tradizione ritenuta autentica ? vogliono re-islamizzare l’Islam partendo dal basso, creando cioè una serie di reti comunitarie, che adottino stili di vita islamici, antitetici rispetto ai modelli coloniali occidentali. L’idea fondante è quella di una riforma dell’individuo come primo passo verso la conquista del potere. Nel momento in cui tutti gli individui saranno convertiti alla vera fede, solo allora sarà possibile instaurare un autentico Stato islamico che si ispiri all’esperienza del Profeta. La Fratellanza, malgrado faccia della religione un’ideologia politica, non rivendica per sé il potere politico, ma è disponibile a supportare i governanti che si ispirino al ?metodo coranico?. L’autentico Stato islamico dovrà fondarsi, quando i tempi saranno maturi, sull’affermazione del principio di sovranità divina e sul conferimento del potere a un leader che assuma la duplice veste di guida spirituale e politica della comunità. I Fratelli Musulmani diventano presto ? anche grazie alla loro capacità di gestire attività assistenziali e caritatevoli, organizzandosi in una sorta di ?Stato sociale? ? un partito di massa, estendendo e consolidando la propria influenza e arrivando a raccogliere, verso gli inizi degli anni Cinquanta, circa due milioni di adepti. La loro esperienza subisce tuttavia un forte trauma quando Nasser decide di porre fine, attraverso una violenta repressione, alla provvisoria alleanza che aveva instaurato con il movimento per rovesciare il regime monarchico di re Faruk e prendere il potere. Tutti i capi vengono messi a morte, tranne Sayyd Qutb, che viene imprigionato.

Qutb è l’ideologo che ha maggiormente influenzato i gruppi islamisti radicali, più legati alle esperienze delle avanguardie europee. In particolare egli contesta che sia ancora valida la distinzione tra Casa dell’Islam e Casa dell’Occidente. Questa concezione geo-politica è falsa, in quanto l’Occidente è già dentro al mondo islamico, per effetto della sua penetrazione politica, economica e ideologica. Il mondo si divide dunque in due partiti: il Partito di Dio, al quale appartengono coloro che credono in maniera autentica, e il Partito di Satana, che aggrega trasversalmente occidentali e falsi musulmani. Questa credenza in due grandi partiti globali, della fede e dell’incredenza, tende a definire un nuovo bipolarismo, una nuova visione del mondo. La contrapposizione verso chi si colloca fuori dal Partito di Dio è assoluta e nei confronti di questo nemico è assolutamente legittimo il jihad, ovvero il combattimento per la fede. Il salto di paradigma, che implica un’adesione incondizionata alla violenza, avviene quando alcuni gruppi islamisti recuperano le idee di Qutb, in particolare alcune affermazioni relative al fatto che non è più tempo di opporsi ai governanti empi che tradiscono i principi della religione con la stessa debolezza politica che ha caratterizzato i Fratelli Musulmani. Nel corso degli anni Sessanta, ma soprattutto Settanta, saranno molti i giovani affascinati dall’idea della rivoluzione armata ? che loro chiamano jihad ? al pari di molti coetanei europei. Se la pratica dei Fratelli Musulmani di riforma dell’individuo viene considerata corretta a livello teorico, viene tuttavia giudicata inadeguata rispetto ai tempi veloci con cui procede la secolarizzazione. Una parte dei giovani egiziani vicini all’ideologia di Qutb opera una radicalizzazione delle sue tesi, ritenendo fondamentale giungere a una pratica politica analoga a quella delle avanguardie europee. L’ostilità assoluta nei confronti di chi non appartiene al Partito di Dio si manifesta nel concetto di doppia guerra: guerra civile interna contro il governante empio e guerra esterna contro l’Occidente. L’esempio più significativo, nel primo caso, è rappresentato dall’assassinio del presidente egiziano Anwar Sadat, nel 1981, per opera del gruppo Al-Jihad. L’ideologo del movimento Salam al-Faraj considera il tirannicidio come un atto dovuto, al contrario di Qutb che teorizza invece il conflitto con i governanti come prassi insurrezionale, senza giungere mai a parlare esplicitamente di omicidio. Dall’altro lato, l’idea di una purificazione della Casa dell’Islam dalla contaminazione di occidentali ed ebrei diventa, in alcuni gruppi radicali, un imperativo della fede (vedi gli attentati compiuti dalla Jama’a Islamiyya egiziana ai danni di turisti occidentali). È evidente dunque la frattura che si instaura tra i gruppi islamisti; già nel 1969 i Fratelli Musulmani si erano dissociati dalle idee di Qutb, mentre i gruppi radicali andavano intensificando la pratica jihadista.

Occorre poi ricordare che l’Islam come strumento di mobilitazione politica non è un fenomeno circoscritto al mondo sunnita; in Iran, con la rivoluzione del 1979, esso diventa Stato. Tuttavia, il khomeinismo non rappresenta, come molti pensano, un fattore di continuità storica del potere egemone religioso-politico esercitato dal clero. In realtà, quella khomeinista non è una rivoluzione di carattere tradizionalista, quanto piuttosto una rivoluzione contro la tradizione, che scompagina le strutture religiose sciite. Secondo la tradizione sciita, infatti, la linea di successione dei discendenti del Profeta si interrompe nell’874, quando il dodicesimo imam, ancora bambino, scompare misteriosamente. La credenza religiosa vuole che egli sia ancora in vita, ma occultato, destinato a tornare alla fine dei tempi nelle vesti del Mahdi, il Messia, per instaurare un regno di giustizia e verità, in attesa del Giudizio Finale. Il khomeinismo rifiuta l’atteggiamento quietista e sostanzialmente passivo del clero, argomentando che non è pensabile che Allah abbia lasciato la comunità senza una guida. La rivoluzione iraniana, nel suo tentativo di ricomposizione di religioso e politico, mette dunque in crisi la leadership orizzontale e paritaria degli ayatollah tradizionalisti, identificando ed eleggendo uno di essi come Guida suprema, investita di ampi poteri. In questo senso il khomeinismo può essere annoverato pacificamente tra i movimenti islamisti.

Alla fine degli anni Settanta si verifica anche un altro fenomeno, il cosiddetto internazionalismo islamista, che vede gruppi di militanti radicali di diversa nazionalità praticare il jihad al di fuori dei propri Paesi di appartenenza. Grande impulso a questo fenomeno viene dato dall’invasione dell’Afghanistan da parte dei sovietici nel 1979. La politica di laicizzazione condotta dall’Unione Sovietica genera una forte reazione che conduce alla nascita del movimento dei mujaheddin. Gli Stati Uniti, intravedendo nel conflitto la possibilità di mettere in difficoltà l’Urss, sostengono, con l’appoggio di due Stati alleati, Arabia Saudita e Pakistan, la guerriglia anti-sovietica. L’arruolamento dei giovani radicali combattenti, provenienti da una quarantina di Paesi musulmani, è affidato a Osama Bin Laden, che costruisce in questo contesto la Base di contatti che confluirà poi in Al Qaeda, mentre Abdullah Azzam svolge il ruolo di ideologo della dimensione globale del jihad. Una volta liberato l’Afghanistan molti di questi militari esporteranno il jihad in altri Paesi; alcuni, come gli egiziani o gli algerini torneranno in patria dove alimenteranno la Jama’a Islamiyya o il gia, mentre altri andranno a combattere in Bosnia, in Cecenia, nelle Filippine.

A seguito delle sconfitte delle esperienze di insurrezione nazionalistiche, ad esempio in Egitto o in Algeria, dove la contrapposizione tra neo-tradizionalisti e radicali è sempre viva, il jihad subisce un’accelerazione: si deterritorializza e diventa globale. Il passo dagli attentati alle ambasciate africane ai cieli di Manhattan è breve. La formazione di Al Qaeda avviene nel 1998 sotto l’egida di Osama Bin Laden, il quale, ormai sorta di vera e propria icona, predica il senso di rivincita del mondo islamico nei confronti dell’Occidente attraverso la dimensione globale del jihad.

 

Nel successivo dibattito Renzo Guolo è stato sollecitato ad approfondire tre questioni particolarmente rilevanti e complesse: la prima strettamente legata all’attualità, riguarda il gruppo politico palestinese di Hamas, la seconda la tradizione del martirio nel mondo islamico e, l’ultima, il ruolo e la consapevolezza dell’Occidente di fronte alla internazionalizzazione del terrorismo islamista.

Ancora oggi la dialettica tra movimenti neo-tradizionalisti e movimenti radicali è molto viva e presente, tra l’altro, nei discorsi di Bin Laden, per il quale ogni forma di compromesso politico con l’Occidente e la stessa democrazia rappresentano un’evidente negazione della volontà divina. In questo senso anche gruppi islamisti storici, come Hamas, sono fortemente contestati, dal momento che legittimano forme politiche mediate dall’Occidente,

Hamas, per struttura e ideologia, è un movimento di carattere neo-tradizionalista, fondato dopo la prima Intifada dallo sceicco Yassin e favorito in qualche misura nella sua crescita e nel suo consolidamento dallo stesso Israele, che lo riteneva meno forte e pericoloso dell’olp. Hamas pratica da sempre una sorta di welfare religioso, attuato attraverso gli aiuti economici provenienti da altri Paesi, ad esempio l’Arabia Saudita, la quale, pur filo-occidentale, legittima in questo modo la propria identità religiosa. Hamas, come è noto, ha vinto le recenti elezioni tenutesi in Palestina. Le ragioni di questa vittoria sono molteplici, ma due sono forse le più significative. Da un lato la caduta della leadership storica dell’olp (in particolare del nucleo storico vicino ad Arafat) ha consentito ad Hamas di intercettare il dissenso della società palestinese nei confronti dell’olp stesso, attraverso l’attuazione di una politica sociale molto efficace, di stampo neo-tradizionalista, e lo sviluppo, con l’ausilio di cospicui finanziamenti esteri, di reti comunitarie. Non bisogna poi dimenticare, dall’altro lato, che a molti settori radicali palestinesi Hamas appare oggi come l’unica forza politica ancora in grado di combattere Israele. Questa duplice linea politica ? sociale-assistenzialista e di aperta ostilità nei confronti di Israele ? ha fatto di Hamas un vero partito di massa, che gode di ampio consenso e assimila neo-tradizionalisti e radicalisti.

Per quanto riguarda la pratica degli attentati suicidi, Guolo sottolinea di non adottare volutamente il termine kamikaze (riferito, come è risaputo, ai militari giapponesi che durante la seconda guerra mondiale si schiantavano con i loro aerei sulle navi americane), preferendogli il termine con il quale si autodefiniscono gli stessi combattenti suicidi, ovvero shahid, cioè martiri. L’Islam, come tutte le religioni monoteiste, proibisce il suicidio, anche se la reintrepretazione della tradizione trasforma il martirio passivo (lasciarsi uccidere per la propria fede come segno di testimonianza) in martirio attivo, ovvero il suicidio in senso offensivo, attuato all’interno del jihad per annientare i nemici. I martiri contemporanei appaiono per la prima volta nel 1980, nella guerra tra Iran e Iraq. Si tratta di adolescenti, i bassidji,  appartenenti a una milizia legata ai Pasdaran, che moriranno a migliaia in operazioni speciali in cui si offrono come volontari per aprire la strada alle truppe iraniane nei campi minati iracheni. Al collo portano le chiavi del Paradiso e, prima di morire, fanno testamento. Il martirio islamista assume una connotazione chiaramente offensiva con gli Hezbollah libanesi che, nel 1983, si scagliano carichi di tritolo contro l’ambasciata degli Stati Uniti. In ambito sunnita i primi martiri compaiono negli anni Novanta in Palestina, tra gli uomini di Hamas che si fanno saltare in aria nelle città israeliane. È una generazione, quella dei giovani palestinesi, che soffre in qualche misura una vera e propria forma di martiropatia, che è cresciuta sotto l’occupazione israeliana, tra umiliazioni e lutti, e che vede nella morte una possibilità di riscatto per sé e per la propria famiglia, alla quale la comunità tributa grande onore e rispetto, nonché sostegno economico.

Per venire all’ultima questione, ovvero il ruolo dell’Occidente, il contenimento della dimensione internazionale del terrorismo attraverso la guerra permanente, caposaldo della teoria dei neocon statunitensi, si è rivelato chiaramente inefficace, al pari della nation building attraverso l’esportazione della democrazia manu militari.

Che fare allora? Se la democrazia non è esportabile con le armi è forse percorribile l’idea della society building ? ovvero la possibilità di favorire una maturazione delle società civili dei Paesi islamici che conduca a una lenta ma progressiva democratizzazione ?dall’interno? ?, così come è possibile attuare politiche di scambio economico e portare sostegno a movimenti interni non radicalizzati. Si tratta di un processo lungo e sicuramente faticoso, che potrebbe tuttavia dare buoni frutti e che, allo stato attuale, sembra comunque l’unica alternativa seria alla guerra globale.

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