Il primo appuntamento dei Giovedì culturali del 2006 ha avuto come graditissimo ospite Gad Lerner, un giornalista tra i più conosciuti e preparati, autore di un libro molto interessante, presentato e discusso nel corso della serata, che ha visto la partecipazione di un pubblico numerosissimo e attento. Il titolo del volume è di sicuro impatto: Tu sei un bastardo, accompagnato da un sottotitolo molto chiaro, che sintetizza mirabilmente lo spirito del testo: Contro l’abuso delle identità.

A introdurre la discussione è intervenuto il professor Marco Revelli, da sempre vicino all’Associazione e protagonista in molte occasioni delle nostre conferenze. Egli ha dapprima sottolineato come il baricentro del libro di Lerner sia appunto costituito dal tema dell’identità e delle sue diverse definizioni, una questione davvero molto complessa e articolata. Per sottolineare la tesi di fondo del testo, afferma Revelli, si potrebbe richiamare il titolo di un bel volume di qualche anno fa di Francesco Remotti, intitolato Contro l’identità. L’identità in sé, vi si sosteneva, non esiste, è un’astrazione, una determinazione convenzionale. In realtà, come detto, ne esistono definizioni plurime. Ciascuno di noi deve costruirsi la sua identità attraverso un percorso di progressiva specificazione, che talvolta può condurre anche a una chiusura autoreferenziale. L’identità può divenire una prigione. Ma ci dobbiamo anche chiedere che cosa comporterebbe la sua assenza, quali conseguenze deriverebbero dal non averne alcuna. La sottolineatura della pericolosità potenziale dell’identità, questa la tesi di Revelli, non ne esclude affatto l’indispensabilità. Il bisogno di specificarci, di costruirci in qualche modo, non può essere eluso. Quello di Lerner, dunque, non è solo un libro contro le patologie di una difesa esclusiva della particolarità, contro la degenerazione fondamentalista dell’uso e dell’abuso dei riferimenti identitari, spesso utilizzati secondo una logica bellica molto pericolosa. Questa è sicuramente la parte prevalente della riflessione, ma sullo sfondo si intravede anche il vuoto che sta all’opposto delle molte identità armate che caratterizzano il nostro tempo: l’ipertrofia e la crisi delle rivendicazioni identitarie si alimentano a vicenda. Se si vuole trovare una plausibile via di uscita non si possono che condividere le argomentazioni dell’autore in difesa dell’ibridazione culturale, del meticciato e di un’identità più leggera, polimorfa, mai cristallizzata e sempre aperta all’altro, alla diversità, al cambiamento.

Revelli ripercorre poi i diversi capitoli del libro, ne ricorda alcune figure emblematiche, dallo Zelig di Woody Allen con le sue camaleontiche trasformazioni, fino alla straordinaria personalità di Alexander Langer, prototipo cosmopolita di una cittadinanza europea proiettata nel futuro; dalle odiose affermazioni contro il meticciato da parte di Marcello Pera, giustamente definito nel libro ?un  pusher di identità artificiali e manipolate?, all’azione infaticabile di alcuni straordinari ricercatori di altruismo, come padre Giovanni Nicolini o il rabbino Isacco Levi. Infine, egli conclude il suo intervento ponendosi e ponendo all’autore alcuni interrogativi, che ripropongono le questioni sottolineate in apertura: fino a che punto è possibile sfumare le identità? Come si fa a non perdersi in un occasionalismo puro? E come si deve porre correttamente il rapporto tra l’Io e l’Altro, tra identità e alterità? Come coniugare l’identità individuale con una prospettiva universale?

Una possibile risposta che la lettura del libro suggerisce, richiamando la riflessione di Primo Levi, è data dalla centralità della categoria del Mitmensch, del co-uomo, con cui si indica quel frammento di umanità che si può e si deve riconoscere dentro l’identità di ciascuno. Il Mitmensch rappresenta il tratto universale della particolarità, esprime la condivisione immediata con il singolo in ragione soltanto della sua umanità. «Dovremo pure rintracciarla, dentro noi stessi – scrive Lerner -, questa naturale propensione a riconoscere l’essenza comune dell’umano personificata in chi ci sta di fronte. Qui siamo oltre l’Ama il prossimo tuo come te stesso. La nostra stessa natura può condurci a riconoscere, di più, l’essenza comune. Cercare il Mitmensch, ecco un bell’obiettivo che trascende le appartenenze e le identità, restituendo senso a un disegno comunitario rivolto al futuro».

Da qui prende le mosse la riflessione proposta da Lerner, dalla necessità di tradire le identità belliche, di aprirsi all’altro, all’ibridazione, senza lasciare alcuno spazio per l’angoscia dell’estinzione del proprio ristretto gruppo, rifuggendo il rischio di un separatismo narcisista e non inseguendo un’impossibile purezza, ma appunto accettando di contaminarsi e valorizzando, come egli ha inteso fare nel suo libro, tutti quegli esempi virtuosi di fuoriuscita dalla gabbia di un’identità esclusiva. Con consueta incisività e lungimiranza, Alexander Langer osservò: «È di fondamentale rilevanza che qualcuno si dedichi all’esplorazione e al superamento dei confini». Uno dei paragrafi del suo mirabile Tentativo di decalogo per la convivenza interetnica, ricorda Lerner, che di Alex è stato amico e compagno di strada, ha un titolo davvero significativo: Dell’importanza di mediatori, costruttori di ponti, saltatori di muri, esploratori di frontiera. Ciascuno deve attivarsi e impegnarsi nel suo campo per aprire i confini, per abbattere i muri (e non certo per costruirli), per facilitare l’incontro tra persone e culture, per «incoraggiare una certa osmosi fra comunità diverse» in modo da favorire «una nozione pratica più flessibile e meno esclusiva dell’appartenenza». L’esatto contrario, osserva Lerner, di quanti predicano la sua cementificazione, la sua difesa armata. 

Non ci sono luoghi che siano immuni rispetto a tale contrasto tra una rivendicazione esclusiva della propria appartenenza e un’apertura alla diversità e alla pluralità. Lo si vede ovunque questo conflitto, dalle forme drammatiche che esso assume nei campi di battaglia veri e propri, fino alla farsa proposta dal tifo calcistico. Moltissimi sono i casi paradigmatici che Lerner ricorda nel suo libro, con accenti davvero molto vari e con la capacità di coinvolgere sempre il lettore, e in questo caso l’ascoltatore, e di suscitare profonde riflessioni anche a partire da episodi apparentemente marginali. Gustosissimo, ad esempio, il racconto di una domenica allo stadio, quando l’antica fede interista dell’autore e di uno dei suoi figli si è dovuta scontrare con l’assurdo odio razziale antisemita di una parte della tifoseria amica, e ha trovato invece conforto e accoglienza nell’incontro con i tifosi avversari, quelli della mitica curva livornese che mescola calcio e politica, pallone e comunismo, riproponendo anche nei campi di calcio una contrapposizione identitaria per alcuni aspetti delirante, ma non priva di elementi di fascino.

La tesi di Lerner, come detto, è che la miglior risposta alla sensazione diffusa di sconsolante ipocrisia e di inautenticità che ci circonda sia la difesa e la valorizzazione del meticciato, che è la specifica forma contemporanea di convivenza sociale. Rifiutando quella diffusa retorica delle radici, che ricerca nel passato improbabili legittimazioni e fondamenti del presente, il nostro ospite osserva molto opportunamente che ciò che ci accomuna è sempre molto di più di ciò che ci divide. Se davvero gli uomini mettessero radici di fatto morirebbero. La ricchezza umana è nell’incontro, nello scambio, nella relazione, non in un’angusta (e impossibile) purezza.

La critica di Lerner è trasversale: dalle femministe, che in nome della difesa a oltranza della differenza di genere scoprono molteplici punti di convergenza con Joseph Ratzinger, agli intellettuali ebrei che coltivano una narcisistica separazione, in contrasto con l’intento emancipatorio del sionismo; dai simboli dell’odio etnico sbandierati negli stadi, al cristianesimo strumentale di chi predica il conflitto tra civiltà; dalla difesa interessata e truffaldina dell’italianità delle banche e delle imprese da parte di certi poteri forti, fino alla crisi del progetto unitario del Centrosinistra italiano, con l’Ulivo disfatto in nome delle identità di partito.

Stiamo giocando con il fuoco, conclude Lerner. La metropoli globale implica necessariamente la convivenza fra diversi nel medesimo territorio, mentre le nostre Oriana Fallaci o i nostri Marcello Pera sono impegnati ad alimentare la contrapposizione e lo scontro tra civiltà. Troppo spesso ci dimentichiamo che «tutti siamo portatori di identità doppie e triple. Siamo il risultato provvisorio di un numero incredibile di storie». Per fortuna, con buona pace per i seminatori d’odio, siamo e resteremo bastardi.

 

 

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