L’avvocato Mario Boccassi ha introdotto il tema dell’incontro, ricordando come la famiglia dovrebbe rappresentare una micro-società naturale attraverso la quale formare la propria cultura, i valori, le regole di vita, i ruoli e le funzioni da esportare al di fuori del proprio nucleo, declinandoli in maniera differente a seconda della propria esperienza sociale. Purtroppo, troppo spesso oggi la famiglia rappresenta un luogo di insicurezza, dove violenze, maltrattamenti o addirittura omicidi – manifestazione ultima del lato deviato e disturbato dei rapporti familiari – si consumano con frequenza terribile, come ben attestano le tante cronache di orrore quotidiano, impietosamente messe in mostra dalla spettacolarizzazione massmediatica.

In particolare, i minori rappresentano l’elemento più debole e per questo più abusato e sottoposto a violenza, sia morale che fisica. Un lungo percorso è stato intrapreso per tutelare a livello normativo i bambini, percorso che è sfociato nella ?Convenzione sui diritti dell’infanzia? approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre del 1989 a New York. La Convenzione rappresenta lo strumento normativo internazionale più importante e completo in materia di promozione e tutela dei diritti dell’infanzia e contempla l’intera gamma dei diritti e delle libertà attribuiti anche agli adulti, ovvero diritti civili, politici, sociali, economici, culturali. Costituisce inoltre uno strumento giuridico vincolante per gli Stati che la ratificano, oltre a offrire un quadro di riferimento organico nel quale collocare tutti gli sforzi compiuti in cinquant’anni a difesa dei diritti dei bambini.

Ma, aldilà del contesto normativo, cosa viene fatto operativamente e concretamente per opporsi all’orrore della violenza sui minori? È sufficiente il diritto penale per sradicare questo degrado? L’interrogazione è pesante e cruciale, ma la risposta, o quanto meno la riflessione che siamo in grado di offrire, è sicuramente autorevole, in quanto sia la dottoressa Mineccia sia l’avvocato Ronfani convivono quotidianamente, pur con ruoli diversi, con queste problematiche e possiedono la competenza e l’esperienza necessarie per tracciare un quadro esaustivo in materia.

 

Marilinda Mineccia ha preso la parola per prima e ha esordito ribadendo la centralità della tutela della persona e della coscienza per la verità e il rispetto, valori questi che dovrebbero accomunare ciascuno di noi, ma che diventano imprescindibili per chi opera in campo giuridico, in qualità sia di magistrato sia di avvocato. In particolare, la dottoressa Mineccia ha iniziato la sua carriera come giudice per approdare poi alla funzione di Pubblico Ministero, e, nel corso della conferenza, ha più volte sottolineato come, in base anche alla propria esperienza, ritenga fondamentale per un magistrato inquirente svolgere prima il ruolo di giudice, fatto questo che consente di acquisire sicuramente una prospettiva più ampia e professionalmente più completa e nel contempo di operare con maggior imparzialità.

La violenza in famiglia è un fenomeno terribile che esiste da tempo, difficile da sradicare. Si va dai maltrattamenti (percosse, ingiurie), alla violenza e all’abuso sessuale, fino ad arrivare all’omicidio. Per lo più si tratta di fenomeni perpetuati nel tempo, spesso sottaciuti per vergogna, per paura, ma anche per connivenza. Il magistrato ha ribadito più volte come la denuncia di un episodio di violenza non rappresenti il più delle volte la rivelazione di un fatto estemporaneo, dettato da un impulso incontrollato, ma sia piuttosto il frutto di una lunga serie di maltrattamenti, di una perpetuazione di atti di violenza. Proprio per questo motivo, ogni singolo episodio non va mai sottovalutato, in quanto l’atto estremo dell’omicidio affonda le sue radici in una lenta elaborazione, che può esplodere in maniera improvvisa. La violenza in famiglia è un fenomeno assolutamente trasversale e matura sia in ambienti socialmente compromessi sia in situazioni di apparente normalità, in cui non sussistono elementi problematici a livello economico, sociale e psicologico.

La denuncia, si è detto, costituisce sovente l’atto finale di una lunga catena di maltrattamenti, violenze e abusi. Spesso le vittime non parlano per vergogna, paura, ignoranza; talora accade anche che ritrattino le proprie deposizioni. Le ripetute violenze fisiche o morali costituiscono reato di maltrattamento e sono punite con la reclusione, mentre atti di violenza isolati o comunque non continuativi sono riducibili a querela e sono materia del giudice di pace. Nel caso si arrivi a istituire un processo penale per reati di abuso o maltrattamento a danni di minori, uno dei principi-cardine del processo accusatorio vigente nel nostro Paese è costituito dalla formazione in giudizio delle prove, sotto il diretto controllo delle parti.

La dottoressa Mineccia, in qualità di Pubblico Ministero, svolge un ruolo chiave in questa fase e ci ha ben documentato la sua esperienza in merito. Il più delle volte il sospetto di comportamenti abusanti prende il via da una rivelazione che il minore trasmette a una persona di fiducia (un educatore, un parente), la quale la comunica a una figura istituzionale (ad esempio un assistente sociale). Quest’ultima figura svolge quindi un ruolo di interlocutore privilegiato con le autorità giudiziarie minorili (la materia dei maltrattamenti o abusi su minori è di competenza sia del Tribunale dei Minori sia del Tribunale Ordinario). Con il trascorrere del tempo, al minore è stata riconosciuta pienamente la propria individualità, e oggi è giuridicamente considerato come ?individuo? soggetto a diritti. Questo principio, potenziato da una nutrita serie di convenzioni internazionali, tra le quali la già ricordata Convenzione Internazionale sui diritti dell’Infanzia del 1989, è fondamentale per salvaguardare la protezione e il benessere dell’infanzia.

 Sulla scia di queste tutele della personalità del minore è stata convalidata una prassi giudiziaria definita come audizione protetta, ovvero un ascolto e un esame del minore, in qualità di testimone, che si svolge con modalità particolari, in un luogo diverso dal tribunale, presso strutture specializzate, ovvero locali muniti di impianti di audio-videoregistrazione e collegati con altri spazi riservati agli osservatori, separati dai primi con appositi specchi unidirezionali. Il cancelliere che verbalizza, gli avvocati, gli eventuali periti e consulenti si limitano ad assistere all’esame aldilà dello specchio, ascoltando senza essere visti dal minore. Normalmente si presta attenzione affinché il bambino non si trovi mai faccia a faccia con il presunto abusante, salvo rare eccezioni nelle quali si ritiene che tale fatto costituisca un aspetto liberatorio. L’audizione protetta è un esame estremamente delicato e bisogna accettare preliminarmente che il minore possa mettere in atto dei meccanismi di difesa e di rimozione che lo inducono a non affrontare il tema centrale del colloquio. Un altro aspetto importante, nella relazione con il minore è costituito dal rispetto per il suo bisogno di verità. Spesso il bambino comprende ciò che sta accadendo ed è sicuramente più rispettoso per la sua personalità cercare di spiegargli il contesto in cui si trova coinvolto, rendendogli note le varie fasi processuali e le decisioni prese.

Perché la sua testimonianza abbia valore processuale bisogna che il minore sia considerato attendibile. Malgrado siano rari i casi in cui un bambino elabora un racconto assolutamente fantastico su abusi e violenze subite, non si può negare a priori che questo possa accadere. Ecco perché occorre procedere sempre con cautela e, in casi dubbi, ricorrere all’aiuto di esperti, i quali svolgono una perizia, sia verificando il grado di attendibilità del bambino attraverso strumenti psicologici adeguati, sia interpretando il suo racconto, che talvolta può essere non verbale (utilizzo di disegni), talvolta fantasticato (semplicemente da decodificare). Non dimentichiamo poi che i bambini sono facilmente influenzabili e che possono essere manipolati da un genitore rancoroso nei confronti del coniuge o semplicemente terrorizzati dalla paura di ritorsioni violente o ancora delusi dalla mancata protezione da parte del genitore non abusante che non l’ha tutelato dai maltrattamenti dell’altro genitore. Per tutti questi motivi è fondamentale che magistrati e avvocati abbiano una conoscenza non superficiale delle scienze psicologiche, conoscenza che risulta imprescindibile sia per interpretare e applicare le leggi sia per porsi in maniera adeguata nei confronti dei minori.

Giudicare è un compito socialmente delicatissimo, che presuppone la capacità di comprendere molteplici aspetti emotivi, stimoli e vissuti personali, che vanno riconosciuti ed elaborati se ci si vuole porre con imparzialità. In questo contesto la dimensione personale e psicologica costituisce l’aspetto prioritario sia per applicare correttamente l’astrazione delle norme alla realtà dei fatti sia per realizzare un intervento che possa promuovere un effettivo cambiamento positivo a livello sociale. Le norme rappresentano sicuramente un valore, perché pongono un limite alla discrezionalità e all’arbitrio, ma assumono una pregnanza di significato solo quando sono interpretate e applicate in maniera non formale e pedissequa.

In questo senso è anche importante che sia sempre ricercata una forte sinergia tra le varie parti: magistrati, psicologi, operatori, pur ricoprendo ruoli diversi, con una differente formazione professionale, devono riuscire a integrare le loro conoscenze e i loro punti di vista, lavorando in equipe.

 

Anna Ronfani, avvocato penalista del Foro di Torino, si occupa di violenza in famiglia da ormai quindici anni. Ha iniziato collaborando attivamente con il Telefono Rosa, uno strumento di servizio sociale nato nel 1988 per far emergere attraverso la voce diretta delle donne, la violenza ?sommersa? (dalle statistiche otto o nove volte superiore rispetto quella denunciata), della quale non si trova traccia nei verbali giudiziari. La violenza, che colpisce la donna nella sua specificità, è enormemente diffusa in qualsiasi ambito sociale, e nasce spesso proprio all’interno di quell’istituto comunemente sentito rassicurante come la famiglia. Il Telefono Rosa costituisce un vero e proprio servizio a disposizione di tutte coloro che vogliono spezzare la catena del silenzio e del sacrificio, alleati primari della cultura della violenza, e organizza sia la consulenza legale sia il sostegno pratico e psicologico.

Dalla propria esperienza, l’avvocato Ronfani ha tratto alcune considerazioni relative al fenomeno della violenza in famiglia. Innanzitutto la violenza familiare si è trasformata da questione privata in questione pubblica; in secondo luogo la violenza all’interno della famiglia è figlia della caduta dei freni inibitori all’interno di quel particolare contesto; la violenza intrafamiliare è più evidente nei ceti più degradati semplicemente perché esistono maggiori controlli da parte dei servizi sociali, ma è altrettanto presente all’interno di ceti socialmente, economicamente e culturalmente più agiati; infine, all’interno della famiglia gli alleati più assidui della violenza sono il silenzio e il sacrificio e solo attraverso la parola e la condivisione si può vincere l’abuso.

Tre sono i momenti tipici del progetto violento in famiglia e tendono purtroppo a ripresentarsi in tutte le situazioni, con la stessa implacabile sequenza: l’intimidazione, fatta di coercizione, ricatto, maltrattamenti fisici e/o morali; la svalorizzazione, ovvero la distruzione progressiva dell’autostima e dell’autodeterminazione del soggetto abusato e infine le false riappacificazioni o i falsi pentimenti che, nella loro simulazione di normalità, annientano l’altra persona, alimentando false speranze.

L’ambivalenza emotiva nei confronti del colpevole è un aspetto cruciale per chi si occupa di persone vittime di violenze familiari. Da un lato ci può essere il bambino che anela, anche dopo un’avvenuta condanna del parente abusante, a una riconciliazione, nella speranza che il soggetto colpevole possa essere curato, recuperato e reintrodotto nella normalità della vita familiare, dall’altro esistono donne che maturano una profonda dipendenza nei confronti del coniuge, sia essa economica o anche solo psicologica, e arrivano a pensare di essere giustificatamente vittime dei suoi soprusi. Questo groviglio emotivo genera di frequente ritrattazioni da parte delle vittime anche in sede processuale. Talvolta bisogna poi riconoscere che le persone che sporgono denuncia hanno alle spalle vissuti molto lunghi di abusi e violenze e quando, faticosamente, si decidono a uscire dal silenzio vengono non di rado indotte dalla polizia a tentare una mediazione e a rientrare in famiglia. In molteplici casi, poi, sono ex mariti o ex conviventi che diventano veri e propri persecutori, con un passaggio non infrequente dal maltrattamento all’omicidio, spesso come atto conclusivo di un passato di reati già denunciati e sottovalutati.

Il Rapporto 2004 dell’Eurispes sull’omicidio volontario in Italia fornisce alcuni dati impressionanti: ogni quaranta ore, tra le mura domestiche, si compie un omicidio. Gli omicidi di prossimità sono più della metà dei casi censiti in Italia, superiori a quelli compiuti dalla criminalità organizzata e avvengono sempre più al Nord, la parte economicamente più avanzata e dinamica del nostro paese. Gli omicidi in famiglia sono poi la causa principale di morte per le donne tra i trentacinque e i quarant’anni.

Anche in virtù di queste statistiche allarmanti non bisogna mai sottovalutare l’emergere di una violenza in famiglia e prodigarsi per una diffusione sempre più capillare della cultura del rispetto. Se è vero infatti che la legislazione in materia non manca, malgrado si fatichi ad applicarla bene, qualunque norma, se non interviene un tessuto sociale in grado di interiorizzarla, non ha effetto e il cambiamento più radicale può avvenire solo in presenza di una significativa svolta culturale.

Per lungo tempo i processi penali contro la persona sono stati ritenuti meno tecnici, meno complessi e difficili da affrontare rispetto ad altri. In realtà sono enormi i rischi impliciti che questa semplificazione nasconde in sé ed è fondamentale riconoscere, invece, l’importanza di una professionalità forte, che non può esaurirsi nella competenza giuridica, per affrontare una materia tanto delicata

All’avvocato, nei processi per reati intrafamiliari, può capitare di difendere il minore o l’adulto; la persona offesa o l’imputato. Le tipologie di processi possibili sono varie, perché varia è la casistica, anche in termini di apparente gravità. ?Apparente? perché l’attualità ci fa purtroppo constatare che possono virare verso l’irreparabile situazioni connotate da un profilo di aggressività, conflittualità o disagio anche non enorme. Sia che si assista la persona offesa (presunta) che il colpevole (presunto) devono essere fuori discussione la competenza, la disponibilità di tempo da dedicare all’incarico, la riservatezza, l’indipendenza e anche la disponibilità al dialogo per la comprensione. Un bravo avvocato è chi cerca di sapere, imparando dalla situazione, comprendendola. D’altra parte, qual è la finalità del processo se non la ricerca della verità? Verità intesa in senso non assoluto, ma processuale. I due concetti sono diversi. In uno stato di diritto l’unica forma di verità è la certezza come risultato del contraddittorio processuale tra tesi opposte, avanzate con il contributo di tutte le prove assunte secondo le regole. Il primo dovere, anzi obbligo dell’avvocato è quello di una piena informazione del cliente sulle caratteristiche della controversia, ipotesi di soluzione praticabili, tempi, esigenze e fatiche del processo. I processi per abuso sessuale su minori sono probabilmente quelli in cui lo sforzo di ricerca della verità è per tutte le parti più faticoso e complesso.

Effettivamente, l’avvocato che assume la difesa di un minore si confronta con due domande: cosa serve un avvocato penalista a un bambino e cosa un bambino può pensare gli serva un penalista? A tale proposito l’avvocato Ronfani ha ripreso, condividendole, molte osservazioni riportate da Marilinda Mineccia, in particolare la necessità di un’attenzione psicologica particolare nei confronti del minore, soprattutto al momento della sua testimonianza, e la capacità di porsi in empatia con lui, ascoltandolo e mettendolo al corrente degli eventi processuali.

Quali sono poi gli obiettivi irrinunciabili della difesa sostanziale? Si tratta innanzitutto di impedire la reiterazione del reato. A tal proposito, fino al 2001 era il minore a essere allontanato dalla propria abitazione nel caso di episodi di maltrattamento da parte di un familiare. Dal momento che ciò costituiva un grave disagio per il bambino, sradicato dalla sua vita fatta anche di relazioni sane, ad esempio nel contesto scolastico o amicale – con il rischio che, una volta estromesso il bambino, causa involontaria di disordine e disagio, l’intera famiglia riusciva talvolta a ricomporre una qualche normalità relazionale – si è stabilito, dopo il 2001, che qualunque componente della famiglia possa essere allontanato, ad esempio il padre abusante. Questo provvedimento tutela sicuramente il minore, ma espone talvolta la famiglia a situazioni di grave disagio economico, nel caso per esempio che il padre costituisca l’unico soggetto portatore di reddito. In seconda battuta è indispensabile una piena garanzia del rispetto della persona, che può essere promossa attraverso sostegno affettivo e psicologico, indipendentemente dalla veridicità dell’accusa. Infine è necessario proteggere fisicamente la persona.

Nel caso della difesa processuale gli obiettivi irrinunciabili sono anzitutto la volontà di far compiere meno fatica possibile alla persona offesa (soprattutto in fase di raccolta della testimonianza). In secondo luogo è necessario promuovere la massima valorizzazione del suo apporto probatorio, proteggerlo da pressioni finalizzate alla ritrattazione e garantirgli sostegno psicologico adeguato durante tutto il processo. Infine è assolutamente legittimo sollecitare tempi processuali ragionevoli, in considerazione del fatto che i tempi di un processo non coincidono con i tempi di un bambino e fare in modo che ottenga un risarcimento del danno in caso di condanna.         

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