Due premesse del relatore: la prima riguarda il titolo della relazione che già esprime un giudi­zio di valore dato che la crescita delle dimensioni aziendali è vista come auspicabile nel contesto industriale del nostro paese (anche perché è facilmente comprensibile come una crescita riservata al solo settore dei servizi non possa continuare all’infinito); la seconda concerne l’approccio al tema trattato: anzi­ché l’analisi economica dei grandi sistemi, il relatore privilegia la prospettiva dell’azienda, cercando di dare risposte ai problemi di gestione delle realtà industriali.





 





 

La frantumazione del sistema delle imprese ita­liane appare però meno spinta se si considera il fenomeno dei ?gruppi? che è presente in modo dif­fuso e tocca anche imprese di medie e piccole dimensioni. Ci sono infatti in Italia circa 46.400 gruppi giuridici (il 2,6% delle imprese, ma il 26,4% degli addetti dell’industria e dei servizi). Numerosi sono poi i ?gruppi economici? non contabilizzati ma ugualmente in grado di produrre collegamenti tra le aziende.

 

Abbiamo parlato del ?nanismo? delle imprese italiane: in effetti, rispetto agli altri paesi europei il sistema economico del nostro paese è sbilanciato verso la piccola dimensione.

All’origine del fenomeno c’è l’alta natalità delle imprese: ogni anno centinaia di nuove aziende vedono la luce, grazie anche a sussidi di varia natura. Le piccole imprese restano sovente tali perché vengono a mancare adeguati processi di crescita, per diverse ragioni:

–       la deriva generazionale di molte imprese a proprietà familiare

–       la presenza di molte imprese in settori con basse barriere di entrata: questo fa mancare gli investimenti minimi necessari per la crescita

–       la presenza di distretti industriali che spezzettano le fasi di lavorazione

–       le esternalizzazioni eccessive di imprese di ogni dimensione, che fanno aumentare l’indotto, formato da aziende con piccolissima autonomia strategica

–       ed infine, le già menzionate agevolazioni pubbliche riservate in modo particolare all’imprenditoria nascente.

Le conseguenze del nanismo industriale sono evidentemente di valenza negativa:

–       minori possibilità di controllo sui mercati

–       impossibilità di cogliere opportunità di consolidamento (tramite acquisizioni)

–       difficoltà a restare competitivi quando crescono i livelli di investimento con ritorni in tempi più lunghi

–       basso potere contrattuale in settori con clienti e fornitori ad elevata concentrazione.

 

Può essere interessante esaminare le caratteristiche delle prime trenta imprese operanti in Italia e le prime trenta  in USA. Nel nostro paese, delle 30 aziende, 15 sono pubbliche, alcune appartengono a grandi fami­glie del capitalismo italiano o a gruppi esteri; la maggior parte appartiene a settori con forte connota­zione locale o in qualche modo protetti.

La realtà statunitense vede invece tra i ?colossi? molte imprese aperte alla competizione internazionale, operanti nel settore della distribuzione, dei prodotti petroliferi, di macchine e prodotti ad alto contenuto tecnologico.

E’ altresì impressionante il divario dimensionale tra le imprese dei due paesi: mentre il fatturato della prima in lista USA è 4 volte quello dell’omologa italiana, arriviamo a 10 volte tanto per la trentesima.

Continuando la diagnosi del sistema delle imprese italiane possiamo constatare:

–       una continua perdita di competitività a livello internazionale (siamo scesi al 41° posto)

–       una bassa attrattività per investimenti diretti esteri

–       un numero di imprese multinazionali basso (sono 1017 in Italia), con ridotta estensione all’estero delle nostre imprese (basso numero di filiali)

–       un limitato grado di internazionalizzazione del sistema bancario: il sup­porto delle nostre banche per le imprese operanti all’estero è modesto

–       una ridotta capacità di innovazione: su 25 indicatori che misurano questa capacità, in 14 ci troviamo sotto la media UE del 20%, in 6 siamo in linea ed in 3 casi siamo sopra la media; se esaminiamo la spesa in ricerca e sviluppo in percentuale del PIL, troviamo un valore che è metà della media UE (dei 15) e circa un terzo di USA e Giappone

–       un gap per mancanza di infrastrutture e ?collo di bottiglia? energetico: il ritardo in questi campi è più grave in quanto i cicli di investimento necessari richiedono periodi lunghi.

In sintesi, le ragioni per cui le imprese italiane non crescono sono le seguenti:

–          bassa propensione allo sviluppo dimensionale, con preferenza al perseguimento di strategie di nic­chia (global player in niche market)

–          deficit di imprenditorialità:

·     ?meglio investire in settori protetti che affrontare la competizione internazionale?

·     ?meglio investire sul core business che tentare la diversificazione?

–          deficit di managerialità:

·     ?l’organizzazione manageriale non è così diffusa come appare?

·     ?i meccanismi di delega e di responsabilizzazione nelle aziende familiari sono ancora una sfida?

–          tendenza  del capitalismo italiano (nel quale riveste un ruolo fondamentale l’impresa familiare) a cre­scere per filiazione, piuttosto che per sviluppo lineare ed incrementale

–          modifica del ruolo dello Stato ? imprenditore, con sviluppo di nuove forme di imprenditorialità a livello locale o regionale, ma in settori protetti (nasce lo ?statalismo regionale?)

–          posizionamento in mercati maturi e scarsa presenza in quelli ad alto potenziale di crescita, in cui spesso siamo assenti come ?sistema paese?

–          poca ?finanza per crescere?, tanta  ?finanza bancocentrica?

–          sistema istituzionale e culturale poco orientato al supporto delle imprese italiane nei processi di cre­scita, anche a livello internazionale

–          deriva generazionale che ostacola i processi decisionali

–          incentivi alla nuova imprenditorialità e non al consolidamento di quella avviata

Abbiamo passato in rassegna ciò che ostacola o frena la crescita delle imprese italiane. E’ nella rimozione di tali ostacoli e nella ripresa di slancio che si gioca il futuro dell’industria del nostro paese. Il tema della cre­scita nelle realtà aziendali non è eludibile e si configura come scelta strategica obbligata o almeno consi­gliata.

 

–       La crescita è obbligata quando:

·        bisogna fronteggiare la crescita del mercato o dei concor­renti, il declino industriale dei mercati tradizionalmente serviti, la competizione internazionale

·        si deve consolidare un vantaggio competitivo di first mover

·        si richiede una dimensione minima per poter competere con successo

·        si deve recuperare un market power, laddove qualcuno ne può disporre già liberamente

–       La crescita è consigliata per:

·        aumentare la durabilità e l’autonomia dell’impresa

·        creare motivazione all’interno dell’organizzazione

·        alimentare la produttività, anticipare la concorrenza, sfruttare risorse critiche.

Nelle imprese familiari non è detto che la crescita si traduca in perdita di controllo, bensì in un mutamento dell’assetto di governo alla ricerca di sostenibilità strategica e finanziaria.

In conclusione, la crescita delle imprese passa attraverso scelte statali di politica industriale (privatizzazione, interventi sulle rendite, regole per il mercato del lavoro, sblocco del sistema finanziario?) ed operazioni aziendali di aggregazione (acquisizioni e fusioni). Le imprese devono poi investire nella managerialità, cioè creare manager che sappiano gestire progetti di sviluppo e non solo di efficienza.

Anche perché le zone protette sono destinate a ridursi e molte aziende si troveranno ad essere o dalla parte dei predatori o da quella delle prede?

Interventi

R. Guala passa in rassegna i problemi delle aziende del nostro paese, concordando in molti punti col relatore:

–       il sistema Italia non facilita la crescita (norme complesse?)

–       la sindacalizzazione è più forte che altrove (restare sotto le 15 persone è un modo per eludere l’art. 18)

–       la finanza italiana non aiuta le aziende a crescere

–       nel dopo guerra l’Italia è ripartita senza imprenditori di alto livello

–       manca una visione strategica (anche se il concetto di nicchia non è necessariamente limitativo: basta ampliare l’orizzonte geografico, ad esempio, per crescere pur restando con produzione di nicchia).

Un altro intervento (B. Berello) pone l’accento sulla possibilità di crescere anche senza diversificare, quando l’azienda poggia la propria la propria leadership sulla qualità tecnica del prodotto; anzi, in molti casi, la ten­sione al miglioramento che poggia sulle competenze, evita scelte di disimpegno (la diversificazione) e porta all’eccellenza.

L’intervento di G. Barberis mette in discussione la ?bontà? della crescita, mentre sarebbe da privilegiare la decrescita economica. A suo avviso, il vero problema non è quello della mancata crescita ma quello della cattiva distribuzione delle risorse.

A. Brina tocca alcuni punti che incidono sulla crescita economica: la presenza di categorie privilegiate, il settore creditizio e bancario ma anche la spesa pubblica, che necessita di essere riqualificata con maggior rigore, ed infine l’attenzione evasione fiscale e sprechi.

Altri interventi toccano il rapporto banca ? industria (un sistema fiscale iniquo e la presenza di leggi ad hoc rendono le aziende deboli e troppo dipendenti dal mondo bancario) ed il problema del management (ineffi­cace perché troppo individualista).

La replica finale del relatore si sofferma su alcuni punti:

–       auspicare la crescita non significa certo mettere in discussione lo stato sociale, che ha bisogno di un mer­cato più diffuso e di un sistema che garantisca le protezioni.

–       Il problema della fiscalità esiste e si possono pensare correttivi anche se non ci sono ricette miracolisti­che.

–       In merito al binomio imprenditore ? manager, sembra sempre di più manifestarsi (negli studenti universitari in eco­nomia, ad esempio) la propensione alla carriera da manager: è sempre più raro trovare un giovane con vocazione imprenditoriale?

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