I giovani nella società italiana oggi: peculiarità e rilevanze. Sicuramente una peculiarità del nostro Paese è costituita dal protrarsi a lungo della condizione giovanile, a tal punto che il termine «adolescente», legato alla pubertà, viene oggi riconosciuto sempre più inadatto a caratterizzare una consistente fascia di giovani adulti che non hanno però ancora superato completamente le tappe che introducono alla condizione adulta. Fra queste tappe un posto di rilevo spetta sicuramente all’oltrepassamento della prima fase formativa.  In quest’ambito salta agli occhi che in Italia vi sono numerosi «studenti di lungo corso» che prolungano la loro permanenza a scuola a tempo indefinito.

            A tale riguardo l’indagine iard sulla condizione giovanile in Italia condotta nel 2000 evidenzia un aumento degli studenti fra i 25 e i 29 anni e il permanere nello studio, oltre i 30, di un significativo 12,5 per cento. Un simile stato di cose si rispecchia nell’ingresso nel mercato del lavoro, dove più di un quarto dei giovani oltre i trent’anni risulta non essere ancora collocato. Tale ritardo, infatti, non può essere spiegato solo in riferimento all’entità delle opportunità occupazionali (che sono piuttosto cresciute negli ultimi anni), ma chiama in causa anche scelte soggettive e, appunto, il prolungamento degli studi. Peraltro il fatto di possedere un lavoro che garantisce l’indipendenza economica e la conclusione degli studi non sono garanzia di una uscita dalla casa dei genitori. Solo il 30 per cento dei 25-29enni italiani ha realizzato questa scelta, mentre un terzo dei 30-34enni vive a sua volta ancora con la propria famiglia di origine. Si tratta di una percentuale che esprime in modo spiccato una tendenza presente in generale nell’Europa mediterranea, con una incidenza maggiore nei giovani di sesso maschile. Poiché inoltre l’uscita di casa coincide spesso con il matrimonio e la creazione di una nuova famiglia, in Italia tale scelta si realizza prevalentemente nella classe di età dei 30-34enni e a sua volta condiziona consistentemente la nascita dei figli e l’assunzione di un ruolo genitoriale, l’ultima delle tappe caratterizzanti l’ingresso nella condizione adulta, che si sta spostando sempre di più oltre i trent’anni. Pertanto si può affermare che queste scelte dei giovani sono largamente correlate al calo demografico in atto nel nostro Paese.   

 

Essere giovani nella scuola che cambia. I risultati negativi della scuola italiana nell’ultima indagine ocse dimostrano una sofferenza complessiva del sistema scolastico nel nostro Paese. Peraltro occorre osservare che il sovracampionamento realizzato in alcune regioni porta con sé la prova che certe zone come il Trentino e la Lombardia raggiungono risultati simili al Paese leader come qualità, la Finlandia: tale regionalizzazione dei risultati sembra sconsigliare la realizzazione del un modello di «centralismo regionale» connesso con la lettura in chiave federalista della riforma del titolo V della Costituzione. Tale modello, infatti, risulterebbe ulteriormente peggiorativo per le aree già attualmente in crisi. Va anche segnalato che tali difficoltà non paiono dovute a scarsità di finanziamento, che non appare presente, rispetto alle medie europee, a livello di istruzione primaria e secondaria. Piuttosto bisogna dire che la nostra non è sempre una scuola «che cambia»: in certe zone del Paese non cambia affatto, o cambia in peggio, risentendo anche degli effetti negativi della vecchia ripartizione fra Licei, Istituti tecnici e Scuole professionali. È proprio di questa organizzazione, infatti, mantenere una forte dipendenza del successo scolastico da fattori ascritti, quali la condizione economica e il livello culturale della famiglia di origine, nettamente influenti anche sulle scelte attitudinali. Abbiamo così tassi di dispersione minimi nei licei classici e massimi nelle scuole professionali: l’enorme ampliarsi degli accessi non ha trovato un corrispettivo nella capacità del sistema di adattarsi al cambiamento. Ciò si ripercuote sugli strati economicamente e culturalmente più deboli.

            La situazione in atto potrebbe essere migliorata con opportunità meritocratiche, come un buon sistema di borse di studio e una diversa impostazione generale. Per contro nel nostro Paese abbiamo piuttosto un sistema di istruzione privata che si caratterizza (con l’eccezione di pochi istituti di élite) per il fatto di essere soprattutto dedicato al recupero degli «scarti» dell’istruzione statale. La valorizzazione delle eccellenze richiede anche percorsi di arricchimento, attualmente impossibili nella nostra scuola per la mancanza di una organizzazione adeguata del tempo nelle classi, con la creazione di gruppi flessibili per attività differenziate.

 

La relazione con gli insegnanti: difficoltà e potenzialità. L’ultima indagine iard dimostra che il massimo scontento nei confronti della scuola viene da coloro che hanno avuto risultati scolastici peggiori. Nel complesso, peraltro, risulta che i giovani hanno fiducia negli insegnanti, anche se questo atteggiamento mostra di avere un processo di erosione progressiva in corso. Coloro che si dichiarano insoddisfatti sono attualmente circa il 20 per cento, anche se in generale non si può affermare che vi sia piacere di andare a scuola. La scuola viene frequentata volentieri soprattutto come luogo di socializzazione con i pari, mentre una percentuale significativa di giovani ha forti difficoltà di rapporto con il mondo adulto. Del resto oggi nel nostro Paese vi sono circa quattro milioni di adulti che hanno vissuto un’esperienza di fallimento scolastico a livello universitario, e altri due milioni che sono stati scontenti della scuola nell’arco degli ultimi vent’anni. Esiste anche il problema degli studenti dotati, che non hanno percorsi a loro misura. In generale si può dire che nel nostro ordinamento scolastico non vi sia spazio né per l’eccellenza, né per la difficoltà, con un apice di sofferenza nell’istruzione professionale e con il rischio di un tendenziale abbassamento di livello.

L’atteggiamento ricettivo-passivo presente nella maggioranza degli studenti può essere anche spiegato con il permanere, in Italia, dell’uso della lezione frontale e dell’interrogazione orale come modalità didattiche prevalenti, nonché di un modello di formazione umanistica che dà scarsa importanza al peso delle materie scientifiche e delle lingue. È fondamentale invece inserire nella scuola elementi della cultura del lavoro, con opportunità come l’alternanza scuola-lavoro. Per contro non pare efficace anticipare troppo la scelta del canale fra istruzione e formazione professionale: è preferibile piuttosto una scuola largamente unitaria, con ricche possibilità di sperimentazione modulare di attività differenziate, fra cui le attività manuali. Il fine ultimo di questi percorsi dovrebbe essere quello di una formazione attitudinale adeguata su una base generalistica, metodologica e trasversale.

Una risposta efficace potrebbe venire dall’autonomia scolastica, che attualmente appare però ridotta piuttosto che potenziata. L’autonomia comporta una assunzione diretta di responsabilità, ma richiede anche sistemi di valutazione e un valutatore esterno e neutrale. La cultura della valutazione nel nostro Paese è però ancora troppo recente, e priva di un percorso lineare. Un sistema deve essere in grado di premiare il merito per raggiungere buoni livelli di efficienza, ma a sua volta il modello di valutazione deve fornire buone garanzie sulla propria validità, una questione delicata che appare particolarmente evidente quando si discute, ad esempio, di valutazione degli insegnanti. Gli insegnanti avvertono l’urgenza di questo problema, ma hanno scarsa fiducia nel ruolo dei dirigenti come valutatori: peraltro il modello francese di ispettori centrali ha scarse possibilità di essere trapiantato nella scuola italiana. Un approccio sensato potrebbe essere quello di realizzare una valutazione che metta insieme diversi indicatori, partendo anche dalla percezione diffusa sulla qualità dell’insegnante presente in colleghi, studenti, famiglie.

 

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