Nel corso della serata è stato presentato e discusso il sesto Quaderno dell’Associazione Cultura & Sviluppo, intitolato appunto Alla ricerca della politica e pubblicato dall’editore Guerini e Associati di Milano a cura di Giorgio Barberis e Marco Revelli. Introducendo la conferenza, Giorgio Guala ha sottolineato il valore del testo, evidenziando in particolare l’originalità delle tesi proposte e la ricchezza dei contributi raccolti nel volume, e auspicando ulteriori sviluppi delle ricerche condotte dagli autori.

 

Giorgio Barberis, che ha preso la parola per primo, ha ricostruito anzitutto la genesi del Quaderno, ricordando come il progetto sia stato fortemente sostenuto e seguito da tutto lo staff dell’Associazione. Ha quindi brevemente esplicitato la struttura del testo, che si apre con i due saggi dei curatori, nei quali si ritrova un’analisi meticolosa e spesso impietosa del presente, mai disgiunta, però, dalla preoccupazione di tracciare percorsi originali di ricerca e di azione che consentano di prefigurare un futuro meno tragico. Seguono poi due sezioni che raccolgono una serie di contributi, frutto di altrettante rielaborazioni di conferenze su tematiche politologiche, promosse in questi anni dall’Associazione.

La prima parte del volume, significativamente intitolata ?Fenomenologia della crisi?, pone l’attenzione, in termini analitici, su alcuni aspetti contraddittori e inquietanti che caratterizzano l’attuale società e contiene i contributi di Simona Forti, Carlo Galli, Roberto Esposito, Maurilio Guasco ed Edo Ronchi. La seconda parte, denominata ?Tracce di un altro mondo possibile?, intende invece abbozzare alcuni possibili percorsi alternativi che conducano a un modo di fare politica decisamente nuovo e inconsueto (interventi di Marco Revelli, Severino Saccardi e Giorgio Barberis).

L’attenzione del relatore si è quindi spostata sul proprio saggio, ?La politica alla fine della politica?. Enucleandone i temi portanti, egli ha evidenziato in primo luogo la crisi profonda e irreversibile attraversata dalla politica, almeno nella sua accezione tradizionale. Essa dovrebbe anzitutto garantire l’ordine della comunità, ma oggi tale compito è palesemente disatteso. In un mondo caratterizzato da un crescente disordine globale, il paradigma politico della modernità, basato sul monopolio statale della forza per preservare l’ordine sociale, sembra definitivamente e storicamente superato. Una sfiducia diffusa nei confronti delle istituzioni, una percezione altrettanto vasta e capillare della mediocrità della leadership politica (in ambito nazionale e internazionale), una crisi di legittimità e di credibilità dei partiti politici, sono solo alcuni preoccupanti segnali di una crisi irreversibile in cui sembra versare oggi la politica, ormai priva di un senso condiviso e di una direzione chiara e riconosciuta, e sempre più in posizione di marginalità e subalternità nei confronti dell’economia.

La crisi della politica, poi, coinvolge inevitabilmente molti altri ambiti della società contemporanea, moltiplicando gli squilibri in atto. Vi è la sensazione diffusa di assistere all’esaurimento di molteplici modelli per lungo tempo accettati acriticamente: basti pensare al nostro stesso modello di sviluppo, fondato su una distribuzione delle risorse assolutamente iniqua, o all’emergenza ambientale-ecologica, alla progressiva disgregazione della società con l’estinzione del legame sociale che ne consegue, all’inadeguatezza del modello formativo, alla trasformazione del sistema produttivo.

Tutto il Novecento, del resto, è stato attraversato da crisi e da contraddizioni evidenti; esso è stato il secolo del riconoscimento dei diritti umani, ma anche dell’affermazione radicale e violenta dei totalitarismi; del benessere e dell’opulenza da una parte, della fame nel mondo e di una crescente disuguaglianza dall’altra; di uno straordinario sviluppo tecnologico e della distruttività delle sue applicazioni. La nostra epoca porta ancora con sé molte di quelle ambivalenze

Tuttavia, la constatazione del perdurare di una situazione carica di tensioni negative non implica necessariamente un suo indefinito perpetuarsi. Un’altra categoria o parola-chiave che Barberis propone per interpretare l’epoca attuale è quella di possibilità, in netta antitesi rispetto al concetto di necessità. ?Un altro mondo è possibile?, questa è la tesi di fondo, e benché sia ancora tutto da comprendere e da costruire, e gli scenari futuri rimangano imprevedibili, esso è già presente, in nuce, proprio in tutte le contraddizioni e le assurdità di questo tragico presente.

Quello che il relatore prefigura è un radicale rinnovamento-cambiamento dei rapporti tra gli uomini, non più dominati dalla logica della prevaricazione e dell’interesse egoistico, ma impostati sulla solidarietà e sulla condivisione; un vero e proprio salto antropologico. ?La sfida consiste nel riuscire a costruire una nuova soggettività polifonica, [?] passando finalmente, per richiamare la mirabile ?antropologia prescrittiva’ di Padre Ernesto Balducci, dal mondo delle tribù , cioè dalla logica ristretta dell’appartenenza esclusiva e del potenziale antagonismo con qualunque forma di diversità, alla città planetaria, totalmente immune da ogni volontà di potenza e nella quale ciascuno ha imparato a guardare se stesso con gli occhi dell’Altro, a educarsi alla reciprocità e a rifiutare guerre e violenza, senza se e senza ma?. Quest’ultima riflessione è fondamentale: la rinuncia esplicita e consapevole all’uso della violenza, sotto qualunque forma, risulta essere un elemento imprescindibile per intraprendere il cammino verso un mondo più giusto e più libero.

In conclusione Barberis, in termini puramente esemplificativi, ha esplicitato il suo ideale di approdo futuro, coincidente con l’idea marxiana di un regno post-storico delle libertà, in cui ciascuno contribuisca in base alle sue possibilità e ottenga in cambio tutto ciò di cui ha bisogno. Quest’opzione, che non vuole assurgere a modello paradigmatico, è proposta solo come una traccia di quel nuovo mondo possibile, che va costruito insieme, opponendosi anzitutto alle distorsioni e alle ingiustizie dell’epoca attuale.

 

Marco Revelli ha esordito ricordando come la riflessione che sta a monte del volume presentato sia articolata, lunga e complessa, e come abbia avuto una sorta di epicentro nell’Associazione Cultura e Sviluppo, con propaggini significative di lezioni e seminari organizzati in Università e in altri contesti associativi.

Venendo poi al suo saggio, intitolato ?La fine del lavoro, la fine dello Stato?, egli ha sottolineato l’importanza e la centralità del dibattito sulle ?fini?, dibattito che è andato via via moltiplicando i suoi oggetti (la fine della storia, della modernità, della politica, dello Stato, del lavoro). La questione non è semplicemente legata a un dato cronologico, la fine di un millennio; in realtà siamo di fronte a una vera e propria ?frattura di faglia?, come ama definirla Revelli. Qualcosa nelle nostre identità sta profondamente mutando ed è impossibile non interrogarsi sui cambiamenti in corso.

Due sono le fini prese in esame nel saggio: la fine del lavoro e la fine dello Stato.

Riguardo alla prima questione, ?la fine del lavoro?, il relatore osserva anzitutto che la formula è tratta da un noto testo di Jeremy Rifkin, pubblicato negli anni Novanta, dal titolo The End of Work. È subito necessario chiarire un frequente fraintendimento del termine ?fine?. Con esso non si intende ?scomparsa?, quanto piuttosto trasformazione, stravolgimento. Il lavoro, oggi, non è più sicuro, strutturato in senso taylorista o fordista. È finito, o comunque storicamente superato, il lavoro normato, contrattualizzato, socialmente visibile. Il Novecento è stato il secolo del lavoro per eccellenza. Nei Paesi industrialmente avanzati esso è stato il vero protagonista della vita pubblica. Ma con la fine del Novecento quel tipo di lavoro è finito. Le nuove tecnologie, che specializzano e parcellizzano, la ?rottura? dei grandi contenitori, delle unità produttive con la conseguente esternalizzazione, la disseminazione dei processi produttivi, la delocalizzazione delle catene produttive, la precarizzazione, la moltiplicazione delle figure del lavoro, sono fenomeni, tutti, che hanno reso il lavoro socialmente invisibile. Lo stesso modello socialdemocratico, organizzato intorno al lavoro, è entrato in crisi, come già preconizzava André Gorz nel suo saggio, pubblicato nel 1980, Adieu au proletariat.

Passando alla seconda tesi, la fine dello Stato non è da intendersi in termini di ?estinzione?; si tratta piuttosto dell’esaurimento del paradigma politico dei moderni, nato tra Cinque e Seicento con Thomas Hobbes. Tale modello, fortemente statocentrico, fondato su una concezione dello Stato come unico detentore del monopolio della forza per contrastare legittimamente la violenza, è entrato in una crisi irreversibile. Oggi la violenza non è più fisicamente arginabile, contenibile nelle mani di qualcuno; anzi, il suo uso scellerato evidenzia la fragilità ontologica del genere umano, minacciato dal rischio implicito che le armi di distruzione di massa recano con sé.

Accanto a questo lento, ma inesorabile svuotarsi dello Stato, così concepito, come si è detto, dalla modernità, si evidenzia una crisi altrettanto drammatica e profonda della politica, della sua stessa funzione primaria, di organizzazione cioè della convivenza umana attraverso il superamento sociale del nucleo familiare esclusivo e dei vincoli di sangue. La politica, nata per porre fine alla violenza e autolegittimatasi come luogo di pacificazione, è oggi un moltiplicatore del terrore, della paura. A fronte dell’incapacità della politica di mantenere le sue promesse, di selezionare leadership di alto profilo a livello internazionale in grado di ridarle senso, si impone uno sforzo di innovazione collettivo, un ?salto di paradigma? che ci interpella tutti, individualmente. Una vera e propria svolta antropologica, come è già stato sottolineato, che consiste in un mutamento della capacità di costruire le relazioni, imparando a guardare noi stessi con gli occhi dell’altro in un’ottica di reciprocità. Lo spazio globale, che la tecnologia ha configurato, va riempito di contenuti etici, morali. La sfida che ci attende consiste principalmente nella volontà di costruire un modo nuovo di fare politica, che rinunci innanzitutto all’uso della violenza e che si fondi non più sulla verticalità del potere, ma sulla relazionalità, sulla tessitura di nessi solidali tra uomo e uomo. La politica della non-violenza deve conquistare la sfera pubblica: non ci può essere salto di paradigma se non c’è un cambiamento radicale dei mezzi tradizionalmente impiegati e considerati legittimi. La non-violenza, intesa come ?recupero? dell’avversario in luogo del suo annientamento, e come definitivo superamento della vecchia logica amico-nemico, è la vera ?ribellione? che anticipa un futuro di dialogo e di pace.

 

Nella seconda parte della serata sono intervenuti Valter Coralluzzo (docente di Scienza della Politica e Relazioni Internazionali presso l’Università di Perugia) e Maurilio Guasco (docente di Storia del Pensiero Politico Contemporaneo e Decano della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università del Piemonte Orientale), i quali hanno riportato, a seguito della lettura del Quaderno, le loro impressioni e annotazioni.

 

Valter Coralluzzo ha esposto alcune perplessità relativamente alle analisi contenute nei saggi presentati, soprattutto riguardo all’idea che il mondo così com’è non valga la pena di essere conservato, e ha poi messo in discussione talune delle presunte ?evidenze empiriche? proposte dai relatori.

Inoltre, egli ha criticato la parte progettuale, facendo dapprima riferimento alle tesi di Robert Cooper, diplomatico britannico, il quale ritiene che il mondo si divida ancora secondo il grado di modernità: gli Stati ?pre-moderni?, come l’Afghanistan o la Somalia, che sono incapaci di darsi un governo e una sicurezza di base; gli Stati ?moderni?, come l’India, la Cina o il Brasile, che si concentrano sull’acquisizione dello status classico di grande potenza, e gli Stati ?post-moderni?, cioè in sostanza l’Europa occidentale. Alla luce di questa analisi, sottolinea Coralluzzo, è evidente che i relatori hanno focalizzato l’attenzione soltanto su una parte fortemente ristretta del mondo, quella appunto post-moderna, peccando così di eurocentrismo. Ma non siamo in grado, oggi, di ipotizzare come evolverà la situazione a livello globale, soprattutto per quanto riguarda quell’ampia fascia di realtà geopolitiche ancora lontanissime dal nostro grado di modernità e di democrazia.

Una seconda obiezione riguarda il declino dello Stato. Non convince Coralluzzo l’idea di uno Stato universale, omogeneo, o un mondo fatto di piccole comunità, di reti. Si tratta di concetti troppo vaghi, caratterizzati da un utopismo ?buono?. Quando poi si concretizza la proposta e si prefigura un comunismo libertario e anarchico è palese che, anche in uno scenario ideale in cui i bisogni materiali di tutti sono stati soddisfatti, in cui l’uomo si fa dio e non deve più lottare per conquistare alcunché, si pone comunque il problema del soddisfacimento di altri bisogni. Mancano, in una visione di questo tipo, la tensione, lo sforzo, e sembrano completamente eluse le problematiche inerenti la differenziazione individuale.

Altro passaggio importante riguarda l’anti-istituzionalismo di fondo che pare permeare i contributi di Barberis e Revelli. Secondo Coralluzzo c’è una sorta di compiacimento nella constatazione dell’incapacità delle istituzioni vigenti a gestire la complessità contemporanea. La rivoluzione, presentata come un salto di paradigma, comporta una presa di distanza dalla prassi, dalle regole del gioco costituzionale. Sognare un altro mondo possibile manifestando nel frattempo una forte indifferenza, se non avversione, nei confronti di tutto ciò che è istituzionale e astenendosi (talvolta anche in termini elettorali) dal controllo e dal presidio del potere vigente può rivelarsi una scelta molto pericolosa.

 

Maurilio  Guasco ha espresso la sua totale condivisione dell’analisi condotta da Barberis e Revelli, palesando anzi una forse maggior indignazione morale nei confronti dell’assurda e iniqua distribuzione delle ricchezze, vero e proprio scandalo dell’umanità.

Riguardo, invece, alla necessità di creare logiche interpretative nuove e un diverso modello politico, pur dando per presupposto che quello attuale non è eterno e immutabile, Guasco esprime forti riserve. Qual è la soluzione? Una società senza potere? I tentativi storici fatti in questa direzione sono tutti falliti (basti citare l’esperienza dei kibbutz). Si tratta di un progetto affascinante, di un’antropologia bella ma non esistente, perché non si possono costringere le persone ad accettare forzatamente un modello, per quanto virtuoso esso appaia.

Fatte queste premesse il relatore ammette di non avere una soluzione alternativa convincente. Forse l’unica possibilità reale, per quanto minimalista, consiste in una politica di piccoli gesti, ovvero in un impegno individuale per contribuire quotidianamente, attraverso azioni concrete, per quanto circoscritte, a migliorare la micro-realtà che viviamo.


 


A questi due interventi, cui sono seguite altre riflessioni e richieste di chiarimenti da parte del pubblico, relativamente ad esempio al ruolo della tecnica nel progetto politico prefigurato o all’evoluzione del sistema formativo in relazione con il mondo del lavoro,  hanno ovviamente replicato nel corso della serata Barberis e Revelli.  

Il primo, dopo aver espresso sincero compiacimento per la forte partecipazione da parte del pubblico in sala, anche in termini etici ed emotivi, e per la sostanziale condivisione delle analisi proposte, si è concentrato in particolare sulla ?soluzione?, ossia sul modello politico ideale prefigurato e sul suo valore decostruttivo. È stato sostanzialmente chiarito che ?l’alternativa? deve essere pensata, progettata e costruita insieme, passo passo, e che il vero valore della proposta nasce dalla sua condivisione e dal rifiuto di costruzioni teoriche ristrette e rigide. In tal senso, l’approccio minimalista di Guasco, che suggerisce di ?svuotare da sotto? il sistema, di procedere attraverso piccoli passi per creare una rete sempre più grande di cooperazione e solidarietà, è assolutamente condivisibile. Inoltre è stato ribadito nuovamente come la necessità di prefigurare possibili scenari futuri nasca proprio dalla constatazione dell’assurdità di questo mondo e dal rifiuto delle intollerabili disuguaglianze che condannano miliardi di uomini alla fame e alla miseria.

Revelli, dopo aver brevemente chiarito che il miglior sistema formativo, a suo parere, è quello che insegna ad apprendere (formazione permanente), evitando eccessi di specializzazione che rischiano di chiudere i soggetti in una gabbia che diventa velocemente obsoleta, e dopo un veloce accenno ai pericoli insiti in uso indiscriminato e dissennato della tecnica, si è soffermato in particolare sull’osservazione di Coralluzzo relativa  alla critica dello Stato e delle istituzioni. Sicuramente la statualità moderna ha prodotto cose buone, i diritti, le Costituzioni, il cui valore è indiscutibile. Tuttavia, oggi, quel modello non funziona più, non basta più, c’è necessità di andare oltre. La fine della modernità ha segnato anche la fine del sogno universalistico di un mondo destinato a uniformarsi pacificamente. La trasformazione antropologica cui si accennava in precedenza implica la necessità di uscire all’antropologia dell’uomo contemporaneo occidentale, un’antropologia artificiale prodotta negli ultimi cinquant’anni e fondata su una dimensione opulenta e distruttiva. Fondamentale, ancora una volta, la relazionalità: solo attraverso la costruzione di reti, di comunità caratterizzate da una filosofia di vita nuova e condivisa, è possibile superare il modello consumista-capitalista e affrontare con coraggio e fiducia le sfide che ci attendono.

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