Il dottor Mario Cedrini, facendo riferimento al proprio volume, Globbying, edito dalla Trauben di Torino, ha introdotto la serata, esplicitando innanzitutto il titolo del libro. Globbying è un neologismo coniato dall’autore che riunisce due termini inglesi: global e lobbying per denotare una caratteristica importante dei più potenti gruppi di pressione industriali operanti all’interno dell’Unione Europea, ovvero l’attività di influenza politica concentrata soprattutto sulla promozione della competitività globale delle imprese.

L’interrogativo principale posto ad inizio relazione è il seguente: appurato che le lobbies economiche  esercitano un peso determinante a livello decisionale in seno all’Unione Europea, come giudicare tale influenza? Si tratta di condizionamenti che hanno avuto e hanno risvolti soltanto particolaristici o che, in qualche modo, pur generati da un interesse privato, hanno influito e continuano a influire positivamente sul processo di integrazione europeo?

E ancora, quanto il processo di globalizzazione che sta invertendo la tradizionale gerarchia tra universo politico e universo economico finisce per indebolire la capacità delle autorità politiche di gestire lo sviluppo delle comunità che rappresentano?

La tesi dell’autore è molto esplicita in tal senso. Le lobbies hanno esercitato in passato una funzione per molti aspetti utile e positiva nel favorire e accelerare il processo di unificazione europea; circa il presente e il futuro permangono però molti dubbi e interrogativi, soprattutto relativamente ai rischi impliciti per la democraticità degli organismi politici interessati.

Andando per gradi, occorre innanzitutto sottolineare come il fenomeno delle lobbies in ambito europeo sia tuttora poco studiato dal mondo accademico. Peraltro, alcuni professori che se ne occupano sono spesso coinvolti in interessi di parte e quindi poco credibili. Inoltre il tema non suscita un grande interesse mediatico, ed è di conseguenza scarsamente noto al grande pubblico.

Il fenomeno del lobbying non nasce in Europa; la sua patria elettiva sono gli Stati Uniti, dove non solo è molto diffuso ma anche regolamentato. Il potere esercitato dalle lobbies negli USA è enorme e la loro influenza si estende in molteplici settori, dall’economico, al politico, dagli affari sociali alla comunicazione di massa. Le lobbies più potenti sono ovviamente le business lobbies, sia per le ingenti risorse economiche di cui dispongono, sia per il controllo che esercitano sui mezzi di comunicazione di massa e, non da ultimo, per la possibilità di contare sull’elemento expertise, ovvero sulle conoscenze tecniche che permettono loro di assumere un ruolo di primo piano nel dibattimento per l’approvazione della legge che deve regolamentare la loro attività. Ma il potere forse maggiore deriva loro dalla pratica ormai consolidata di finanziare pubblicamente con considerevoli somme di denaro le campagne elettorali. Oggi l’attività di lobbying in America è regolamentata da due leggi, una del 1946 che punisce coloro che influenzano il regolare corso della vita politica americana e una del 1995, la Lobbing activities disclosure act, che intende rendere pubbliche tutte le attività di lobbying e che a tal fine ha disposto l’istituzione di due registri su cui si segnano i lobbisti e le loro attività. Tuttavia, nonostante i propositi e la regolamentazione, è molto difficile per lo Stato controllare le azioni di tutti i gruppi, i quali, come spesso succede, possono sempre appellarsi al primo Emendamento della Costituzione che tutela «il diritto che hanno i cittadini di riunirsi in forma pacifica e di inoltrare petizioni al governo per la riparazione di torti subiti».

Se questo è il panorama americano, in Europa il fenomeno è molto diffuso ma scarsamente conosciuto e soprattutto quasi per nulla regolamentato. Accanto a lobbies con finalità positive, come Greenpeace, WWF, Amnesty International, che fanno pressione sulle istituzioni in materia ambientale e di diritti civili, esistono potenti lobbies di carattere economico che agiscono pesantemente sugli aspetti politici e decisionali. La più nota e strutturata, nonché influente è la European Round Table of Industrialist (ERT), ovvero la Tavola Rotonda Europea degli Industriali, fondata nel 1983 da Pehr Gyllenhammer, leader della Volvo che riunì 17 chief executive officer di altrettante grandi imprese europee con il fine di dar vita a un’organizzazione industriale politicamente potente a Bruxelles. Oggi l’ERT riunisce 43 rappresentanti di grandi multinazionali (Nestlé, PetrolFina, Philips Renault, Ericsonn, Nokia, Bayer, Solvay, Pirelli, Fiat, Unilever) ed è guidata dalla Thissen Krupp.

Come detto precedentemente Cedrini sostiene che in un certo momento storico le lobbies economiche (le quali, essendo l’espressione di multinazionali, possiedono un potere strutturale all’interno dell’economia europea fortissimo; basti a tal proposito ricordare che il loro fatturato complessivo è pari a 800 bilioni di euro annui e la forza-lavoro impiegata ammonta a 4 milioni di persone) hanno guidato positivamente il processo di unificazione europea, in particolare dopo la crisi degli anni Settanta-Ottanta (la cosiddetta «stagflazione», che ha segnato negativamente la crescita economica del continente). Sono state le lobbies stesse a rilanciare il processo di costruzione dell’Europa, sfruttando la loro natura fortemente europeistica derivante dalla necessità di ripensare le proprie strategie economiche in senso continentale. Il documento Europe 1990, di impronta chiaramente neoliberista steso nel 1985 dalla Tavola Rotonda, contenente un piano quinquennale di rimozione delle barriere commerciali e fiscali, preconizza addirittura il completamento del Mercato Unico (avvenuto nel 1992), in un contesto caratterizzato da scarsa volontà politica di procedere in tal senso. I successivi documenti redatti dall’Unione, dal Libro Bianco allo stesso Trattato di Maastricht sono sempre stati in qualche misura anticipati dai documenti della ERT.

Dunque in passato le multinazionali hanno esercitato un’influenza positiva, contribuendo in maniera decisiva al processo di integrazione europea (la stessa UE ha utilizzato i gruppi lobbistici in senso politico nel tentativo di rafforzare l’autonomia delle istanze sovranazionali dell’Unione rispetto ai decision-markers nazionali). Un surplus di esperienza di vita comunitaria, un forte know-how tecnico nonché un indiscutibile bagaglio di expertise, fondamentale in ambito legislativo, ha concesso loro di assurgere al ruolo di veri protagonisti del processo di costruzione dell’Europa.

Oggi è però opportuno domandarsi se il loro compito, nella direzione di una maggiore integrazione europea, si sia in qualche misura esaurito e se la loro influenza non rappresenti invece oramai un rischio concreto per le istituzioni dell’Unione, trasformando interessi di natura particolare in interessi generali, annullando la capacità critica delle istituzioni e dei cittadini che da esse sono rappresentati. Le lobbies, in particolare, hanno esercitato pressioni considerevoli sulle istituzioni europee, in primis la Commissione (l’organo esecutivo dell’Unione, dotata per altro di un potere quasi monopolistico in ambito legislativo e, ricordiamo, non eletta dai cittadini) con pericolose commistioni e conflitti di interesse, minando seriamente la democraticità stessa degli organismi comunitari. Come dimostra il revolving door, ovvero il passaggio di uomini-chiave delle istituzioni politiche al mondo degli interessi privati, con il conseguente trasferimento di esperienza acquisita, un fenomeno ormai molto diffuso nell’Unione Europea.

Se in passato la forza trainante degli interessi economici ha funzionato per sveltire l’unificazione, oggi, a processo ormai compiuto, è impossibile non interrogarsi sulla pericolosità che a presidiare i processi decisionali europei siano pochi gruppi di interesse che agiscono come soggetti politici veri e propri senza tuttavia una reale assunzione di responsabilità nei confronti della società nella quale operano e in un contesto di preoccupante deficit democratico (ad esempio la mancanza di legittimazione politica diretta della Commissione o la quasi totale assenza di contropoteri, come testimonia la cronica debolezza delle organizzazioni sindacali europee).

La parola chiave a livello europeo è oggi la competitività, la quale è stata fortemente promossa dall’ERT, soprattutto in chiave di flessibilità e derugulation, assurgendo a principale obiettivo istituzionale dell’azione comunitaria. Ma l’ERT si è spinta oltre e con un documento del 1998 ha anche anticipato le conclusioni del vertice di Lisbona del 2000, introducendo il tema dell’innovazione e della flessibilità, e concentrandosi, in particolare, sulla riforma dell’educazione, in modo da avvicinare quest’ultima al mondo del lavoro e dell’impresa, privatizzando il sistema educativo dei singoli Stati e assoggettandolo alle regole del libero mercato, ovvero ai criteri di produttività e profitto. L’obiettivo finale è quello di rendere l’UE la società economica più competitiva al mondo entro il 2010.

Il panorama non è dunque in conclusione confortante. A fronte di interessi economici sempre più privatistici non emergono in ambito comunitario sufficienti tutele per aspetti di natura culturale, sociale, civile, ambientale. L’aspetto forse più critico, sul quale è bene interrogarsi, è la mancata assunzione da parte dei gruppi industriali dominanti di responsabilità sociali.

A tal proposito l’intervento del professor Gianni Vattimo, già europarlamentare durante la precedente legislatura, ha fortemente sottolineato la necessità, sentita e ripresa in fase di dibattito, di andare oltre l’unità economica e doganale e di pensare e lavorare per un nuovo ordine politico, legittimato e condiviso da tutti i membri della società europea. I problemi principali che oggi l’Unione Europea deve affrontare sono di natura politica ed è indispensabile che vengano non solo recepiti ma possibilmente anche risolti perché l’UE stessa si possa presentare a livello mondiale con una credibilità e una legittimità adeguate, svolgendo un ruolo politico non comprimario o fittizio. Considerando che l’attività delle multinazionali in ambito europeo si va sempre più estendendo dalla difesa di interessi economici privatistici  all’intero dominio delle politiche pubbliche, come ben documentato da Cedrini, il rischio di una predominanza assoluta dell’economia sulla politica, e quindi di interessi privati su quello generale è ormai cosa certa.

A fronte di un certo pessimismo, che deriva dall’analisi dei dati e della situazione attuale, rimane inalterata la volontà di non cedere e di credere ancora nella possibilità che l’indignazione dei cittadini si possa tramutare in mobilitazione sociale, arrivando ad esercitare pressioni significative sulle istituzioni europee. Questo sarà possibile nella misura in cui attorno all’Europa nascano a tutti i livelli forti passioni politiche. A partire innanzitutto dal Parlamento europeo che, secondo Vattimo, dovrebbe, per il bene stesso delle istituzioni comunitarie, divenire finalmente un luogo di discussione politica, in cui alla ricerca dell’unanimità a ogni costo si sostituisca finalmente una vivace dialettica democratica, non timorosa del confronto, anche aspro, fra posizioni e schieramenti politici differenti.

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