In apertura di serata il professor Portinaro ha dapprima sottolineato la rilevanza del tema giuridico in questione, al centro del dibattito politico contemporaneo, e ha subito esplicitato il suo approccio a tale problematica, partendo, coerentemente con la propria formazione culturale, da presupposti storico-politici piuttosto che tecnico-giuridici, e affidandosi a considerazioni di ampio respiro in grado di inquadrare efficacemente il tema complesso e variegato del diritto e della giustizia internazionale.

Il diritto internazionale si sviluppa in un arco di tempo che va dagli albori della modernità (1500-1600) agli inizi del xx secolo. In questo periodo vengono definite e codificate una serie di regole, con il contributo di autori quali Alberigo Gentili o l’olandese Ugo Grozio. Quest’ultimo, in particolare, sosteneva che il diritto naturale, in quanto universale, non può mai venire meno, neppure in caso di guerra, ed esso è l’unica autorità a cui ci si può rimettere nei rapporti tra Stati sovrani. Quindi pacta sunt servanda: è d’obbligo mantenere fede ai patti, perché questo obbligo deriva direttamente dal diritto naturale su cui si deve fondare la civile convivenza tra Stati (questa regola elementare può essere considerata una codifica embrionale di diritto internazionale).

Attualmente ci troviamo in una fase molto delicata, forse di transizione verso un nuovo assetto del diritto internazionale. Possiamo affermare che oggi convivono due forme di diritto internazionale e che questa duplicità produce una sorta di ambiguità sia a livello di comportamenti, ovvero di scelte politiche, sia in termini di giudizi dell’opinione pubblica. I due sistemi che convivono sono quello del cosiddetto diritto internazionale classico, fondato essenzialmente sul principio della sovranità degli Stati e sul loro potere ultimo di decisione, ad esempio in caso di conflitto armato e, dall’altra parte, il cosiddetto diritto internazionale umanitario, fondato invece sull’esercizio da parte di organismi internazionali (ad esempio le Nazioni Unite) della giustizia penale internazionale.

La contaminazione e compenetrazione dei due modelli e delle due logiche, e la conseguente confusione che ne deriva, è particolarmente evidente se ripercorriamo la storia degli ultimi quindici anni, quando, archiviata a fine anni Ottanta la fase della Guerra Fredda, le istituzioni internazionali hanno acquisito via via maggior dinamismo e maggiori valenze politiche, ma, nel contempo, il principio cardine del diritto internazionale classico, ovvero la sovranità degli Stati, si è imposta ancora prepotentemente all’attenzione generale con il ritorno di nuove guerre. I conflitti più tristemente noti dell’ultimo decennio del Novecento e dell’inizio del xxi secolo sono tre e sono caratterizzati da logiche differenti, in cui nuovo e vecchio continuano a interagire.

La prima Guerra del Golfo avviene sotto l’egida delle Nazioni Unite. La guerra è vista come extrema ratio cui ricorrere nel caso di una gravissima violazione del diritto internazionale (vedi invasione del Kuwait da parte dell’Iraq).

La Guerra del Kossovo è caratterizzata da una forte presenza politica della nato, che ha utilizzato la categoria dell’intervento umanitario a tutela e salvaguardia dei diritti dell’uomo per giustificare il conflitto armato. Risulta tuttavia difficoltoso stabilire se quella guerra fosse «legittima», e in che misura; anche all’epoca, il dibattito politico fu molto acceso e lo stesso fronte pacifista ne uscì spaccato.

L’ultimo intervento armato contro l’Iraq non solo non ha ricevuto la legittimazione delle Nazioni Unite, ma non può neppure essere ragionevolmente considerato un conflitto motivato da un’emergenza di carattere umanitario. 

Come è dunque facile constatare, gli scenari di riferimento risultano quanto mai ambigui; per cercare di fare chiarezza il relatore ha ripercorso efficacemente la lunga storia costitutiva della giustizia penale internazionale. L’idea di ricorrere a istituzioni giurisdizionali internazionali per giudicare i più gravi crimini commessi da individui risale nei secoli, seppure con fondamenti di legittimità e legalità evidentemente del tutto diversi da quelli moderni.

A partire dalla metà dell’Ottocento, con la nascita della Croce Rossa, l’internazionalismo giudiziario comincia a maturare. All’epoca il principio di sovranità degli Stati vigeva ancora sovrano e ciò significava principalmente la possibilità di esercitare legittimamente lo ius ad bellum, ossia il diritto di muovere guerra. Le modalità di esecuzione delle azioni militari, ovvero le regole dello ius in bellum, erano codificate nell’ambito del diritto internazionale. Malgrado questa regolamentazione, tuttavia, tali regole erano spesso violate dagli stessi Stati e, in particolare, la nascita, a seguito di grandi rivoluzioni, di eserciti rivoluzionari e l’innovazione tecnologica applicata alle armi da fuoco hanno fatto sì che le violazioni risultassero sempre più frequenti e violente. La necessità di una stabilizzazione delle regole del diritto di guerra, soprattutto dopo conflitti particolarmente cruenti, quali la Guerra di Crimea e la Seconda Guerra di Indipendenza Italiana (con le battaglie di Solferino e San Martino), ha condotto alla Convenzione di Ginevra del 1864. All’epoca i crimini di guerra venivano giudicati sulla base delle convenzioni e delle consuetudini attinenti alla guerra e i giudizi sulle responsabilità individuali risentivano della formulazione di convenzioni che riguardavano perlopiù gli obblighi degli Stati contendenti. Ancora un articolo del Trattato di Versailles, rimasto poi inapplicato, prevedeva la punizione dell’ex imperatore Guglielmo ii di Germania «per offesa suprema contro la morale internazionale e la sacra autorità dei trattati».

Il lento ma progressivo processo di istituzionalizzazione delle regole, finalizzato al depotenziamento dei conflitti armati e alla salvaguardia dei civili non partecipanti alle ostilità e alla protezione dei militari al di fuori dei combattimenti, genera il diritto internazionale umanitario, caratterizzato da due filoni fondamentali, ovvero il Diritto dell’Aja (relativo alla disciplina dell’uso della violenza tra belligeranti e Stati neutrali, 1899-1907) e il Diritto di Ginevra (riguardante la protezione delle vittime dei conflitti armati. Inizia con la Convenzione del 1864, cui fanno seguito quelle del 1906, 1929, 1949).

Dopo la prima Guerra Mondiale si pone insistentemente il problema della regolamentazione e della messa al bando della guerra. La Società delle Nazioni (ideata da T. W. Wilson nel 1919 nel clima pacifista seguito alla guerra mondiale) fu il primo organismo internazionale creato per il mantenimento della pace e della sicurezza, la soluzione delle controversie internazionali, la cooperazione tra gli Stati membri. I suoi fini di stabilizzazione e regolazione internazionale fallirono tuttavia in più occasioni, dal conflitto cino-giapponese (1931), all’impresa etiopica italiana (1935) fino ad arrivare all’aggressione nazista della Cecoslovacchia (1938) e all’espansione tedesca all’origine della Seconda Guerra Mondiale. Nel 1946 venne sciolta e il suo posto fu preso dall’onu.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’istituzione  dei Tribunali di Norimberga e di Tokio – aventi competenza sui crimini contro l’umanità, i crimini contro la pace (tra i quali il principale è lo scatenamento di guerre di aggressione) e i crimini di guerra (corrispondenti a quelli che un tempo erano chiamati nei vari codici nazionali, soprattutto nei codici militari, «reati contro le leggi e gli usi della guerra») – rappresenta una vera e propria pietra miliare nell’affermazione di alcuni fondamentali principi di giustizia penale internazionale. Malgrado si trattasse di tribunali dei vincitori, rappresentativi di una parte minoritaria anche se politicamente predominante della comunità internazionale, strumenti di una giustizia politica dei vincitori sui vinti, furono svolti su standard di giurisdizione internazionale, ovvero cercando le basi dei propri giudizi nel diritto internazionale, richiamando puntigliosamente i vari trattati violati e sottolineando, in particolare attraverso le requisitorie dei pubblici ministeri, l’obbligo di fare giustizia assunto in rappresentanza di tutti i popoli e dell’intera comunità umana.

Tra i crimini contro l’umanità sopra menzionati una riflessione a parte merita il genocidio. Purtroppo il Novecento è stato, secondo una definizione da molti condivisa, «il secolo dei genocidi». I primi nascono a ridosso dei conflitti coloniali; basti ricordare il massacro degli Herero compiuto dalle truppe tedesche nel 1904 nella colonia dell’Africa sud-orientale e l’istituzione dei campi di concentramento durante la guerra anglo-boera. Il primo genocidio, in senso moderno, ossia il primo progetto di sterminio, di epurazione etnica concepito a tavolino è quello perpetrato dal governo turco contro gli Armeni alla fine della Prima Guerra Mondiale, con la disgregazione dell’Impero Ottomano. Quello più noto rimane tuttavia quello degli Ebrei (la Shoah), che contribuì, con tutto il suo orrore, a far sì che negli Statuti di riferimento dei Tribunali di Norimberga e Tokio si codificasse tra i crimini contro l’umanità il genocidio (in precedenza, il genocidio degli Armeni fu definito crime against humanity). Le prime accuse di genocidio rivolte ai tedeschi (e anche la stessa creazione del termine) furono formulate dall’ebreo polacco Rafael Lemkin nel suo libro Axis Rule in Occupied Europe (Il dominio dell’Asse nell’Europa Occupata), pubblicato a New York nel 1943. Lemkin fu incaricato più tardi di redigere la cosiddetta Convenzione di New York (9 dicembre 1948) volta specificamente alla prevenzione e repressione del delitto di genocidio, adottata sulla base di una risoluzione onu e sottoscritta, sia pure con alcune riserve, da circa cento Stati. La Russia, in particolare, insistette sulla connotazione razziale, etnica del genocidio, per cautelarsi nei confronti della pratica di sterminio degli avversari politici (Gulag) ampiamente perpetrata. Si è così coniato un nuovo termine, «democidio», per indicare il massacro di popolazioni civili per ragioni ideologico-politiche e non razziali. Il confine tuttavia non è sempre facilmente individuabile e, oggi, si tende a parlare in generale di politiche genocidarie. È forse opportuno ricordare un dato sconcertante richiamato dal relatore: uno studioso americano, Rudolph J. Rummel, ha dimostrato che nel corso del Novecento la più grande ecatombe di vite umane non è stata prodotta dalle guerre (40 milioni di vittime), ma da genocidi che regimi totalitari hanno perpetrato sulle popolazioni civili inermi (170 milioni di morti!).

Dopo quarant’anni di quiescenza, in attesa che prendessero corpo le iniziative di sviluppo e codificazione del diritto internazionale per l’istituzione di una giurisdizione penale a carattere permanente, il radicalizzarsi delle crisi umanitarie dei primi anni Novanta ha portato la comunità politica a istituire – non già, come in precedenza su base pattizia, bensì tramite una risoluzione delle Nazioni Unite – i Tribunali penali internazionali ad hoc per i crimini commessi nei territori della ex Jugoslavia (1993) e in quelli del Ruanda (1994). In quelle circostanze i giudici internazionali sono stati, in certa misura e per la prima volta, legislatori di se stessi, in quanto si rendeva necessario costruire le norme su cui lavorare svolgendo poi parallelamente un’intensa attività politico-diplomatica per ottenere collaborazione dagli Stati (ad esempio per la cattura di criminali di guerra).

Sulla scorta di tali precedenti storici e attraverso il fondamentale e innovativo principio della responsabilità penale internazionale radicata anche in capo agli individui, intesi come persone fisiche e non solo come organi statali, il primo luglio 2002 è entrato in vigore lo Statuto della Corte Penale Internazionale, approvato nel 1998 e firmato da 80 Stati (ma non dagli Stati Uniti!).

È evidente come l’istituzione di un organo giurisdizionale permanente dotato di una giurisdizione universale costituisca un fondamentale passo avanti verso una compiuta legalità, realizzando una delle precondizioni fondamentali per la pace fra i popoli.

Il fatto che un organismo internazionale abbia la possibilità di sostituirsi sistematicamente e automaticamente ai giudici nazionali nella giurisdizione penale, materia espressione della sovranità nazionale per eccellenza, è dunque un fatto rivoluzionario. Tuttavia permangono molti problemi: i tentativi di fondare un sistema di legalità internazionale devono fare i conti con i rapporti di forza tra gli attori coinvolti e il pericolo di condizionamento politico dell’azione della Corte è forte (si pensi ad esempio al tentativo degli usa di imporre l’impunità dei militari americani che abbiano commesso dei crimini di competenza della Corte sul territorio di uno Stato che ha ratificato lo Statuto). Gli stessi usa, come già detto, non sono tra i firmatari dello Statuto in quanto preferiscono non porre limiti alla loro possibilità di intervento nel mondo, riconoscendosi maggiormente nel ruolo di poliziotti che non in quello di giudici. Infine, permane la difficoltà di adattamento degli ordinamenti interni dei singoli Stati e di uniformità nell’applicazione del diritto internazionale (si pensi ad esempio all’eterogeneità dei sistemi vigenti nei Paesi di Common Law e nei Paesi di tradizione romanistica). Non dimentichiamo, poi, che esiste un evidente paradosso in Occidente: da un lato le democrazie credono sempre meno nello strumento penale a livello interno, dall’altro potenziano e scommettono sulla giustizia penale internazionale. Tuttavia, l’unica alternativa seria alla guerra attualmente disponibile è proprio la giustizia su un piano globale; bisogna forse solo attendere che il processo di codificazione, lungo ma progressivo, giunga a compimento, cosicché la giustizia eserciti un ruolo chiaro e riconosciuto di stabilizzazione e legittimazione delle istituzioni.

A livello organizzativo, in campo processuale internazionale, esistono due modelli contrapposti. Il primo è la cosiddetta esecuzione diretta: i giudici non devono raccogliere prove o acciuffare criminali. Esemplare in tal senso il caso di Norimberga o Tokio, in cui le quattro potenze occupanti offrivano l’infrastruttura giudiziaria perché il processo potesse svolgersi. Il secondo modello è quello dell’esecuzione indiretta: i giudici non hanno potere autoritativo e coercitivo, ma devono fare affidamento sulla collaborazione degli Stati, attraverso la mediazione dell’onu, per poter procedere.

Il modello dell’esecuzione indiretta, a sua volta, prevede due soluzioni diverse. La prima, applicabile in condizioni eccezionali, come nel caso dei Tribunali di Jugoslavia e Ruanda, si basa sul principio di complementarietà, ovvero, una volta appurata l’avvenuta  dissoluzione del sistema giudiziario nazionale, si procede con l’istanza internazionale. Il tribunale assume in prima persona l’intero ambito delle inchieste e procede direttamente, trattandosi di realtà limitate e territorialmente circoscritte. La seconda soluzione si applica in casi di normalità e si fonda sul principio di sussidiarietà, ossia si ritiene che in prima istanza debbano provvedere i tribunali nazionali e che si ricorra a quelli internazionali solo in caso di palese inefficienza o mancanza di volontà a procedere dei primi. È chiaro che in tal modo aumenta la selettività e la discrezionalità di intervento del giudice, essendo scelti spesso come perseguibili solo alcuni casi, in genere quelli più significativi.

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