Il professor Galli ha iniziato la sua riflessione definendo la guerra globale come una modalità eminente della politica globale. Per comprendere le caratteristiche dell’una occorre dunque capire le caratteristiche dell’altra, e ancor prima valutare complessivamente che cosa sia stata la politica nelle età pre-globali. Nell’età moderna, l’ambito del politico consisteva essenzialmente nel tracciar confini e nel distinguere con precisione l’interno dall’esterno: l’interno è dove c’è la pace, e la pace ci può essere, e ci deve essere, solo all’interno; l’esterno, invece, è dove c’è, o dove ci può essere, la guerra, e la guerra, assioma assoluto della politica moderna, può essere solo all’esterno. Lo Stato moderno nasce proprio perché non ci sia guerra all’interno. Questa distinzione traccia anche la differenza fra nemico e criminale. La guerra moderna è un atto di sovranità dello Stato; fare una guerra d’aggressione non è un reato, non è un crimine; e viceversa, non esiste un crimine che possa definirsi, o essere definito, un atto di guerra. Il crimine è una ribellione contro il potere costituito, un mancato riconoscimento del monopolio statale della violenza legittima.

Ad un certo punto, grosso modo a partire dalla Rivoluzione francese, il ?tracciar confini?, che come detto è la definizione stessa della politica moderna, si è modificato nella pretesa da parte dell’istituzione statale di ritrovare i confini naturali della nazione. Gli Stati moderni sono stati certamente rinvigoriti, e potentemente legittimati, dall’idea di nazione, ma al tempo stesso da essa condotti a morire. L’idea di  nazione, infatti, non è soltanto un principio d’ordine; è anche un principio conflittuale. Nella Prima Guerra Mondiale, il principio della nazione e il conseguente nazionalismo hanno condotto lo Stato a porre in essere tutte le sue potenzialità di comando, e poi a portare al fronte praticamente tutto il popolo, sacrificandone una buona parte sui campi di battaglia. Da questa situazione, che può essere descritta come quella di un serpente che ha mangiato una preda più grossa di lui, da quest’immane mobilitazione del sostrato naturale, la struttura statale è uscita distrutta. Al suo posto si presentano sulla scena della politica i totalitarismi, che dello Stato sono l’esatto contrario, perché rifiutano il principio fondamentale secondo cui dentro non c’è conflitto armato, violento. Questo è il punto decisivo. L’incapacità di controllare la mobilitazione della massa e la contestuale introduzione di un’altra categoria determinante, quella di classe sociale, hanno portato il conflitto all’interno dello Stato. Nella prima metà del Novecento, dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, ci si accorge che in realtà la guerra non è mai finita: la sua prosecuzione dentro la pace è un fatto universalmente riconosciuto. Il totalitarismo, infatti, continua a fare guerra contro qualcuno, anche, e forse soprattutto all’interno del suo spazio politico. Si combatte contro il nemico oggettivo, cioè contro chi è nemico indipendentemente dalla sua volontà, ma solo in ragione della sua natura, della sua origine o della sua posizione sociale; si combatte all’esterno contro un criminale che deve essere annientato e può essere sottoposto ad ogni tipo di vessazione, senza alcun limite.

I totalitarismi hanno dunque portato alla prima grande confusione degli apparati politici moderni, perché, come detto, in essi lo spazio politico si è trovato ad essere percorso all’interno dal conflitto, il che era sempre stato ritenuto inconcepibile. Infatti il totalitarismo è un fenomeno di difficile comprensione, ed è stato del resto destinato a breve e tragica fine. Tuttavia, nella Storia non si torna mai indietro. Certamente i totalitarismi di destra sono stati sconfitti, mentre quello di sinistra, con la morte di Stalin e con il Congresso del Pcus del 1956, si è trasformato in un regime autoritario con caratteristiche diverse, complessivamente più solido e più stabile. Certamente, nel mondo della seconda metà del Ventesimo secolo, gli Stati erano apparentemente restaurati, ma la differenza fra interno ed esterno funzionava ormai solamente entro certi limiti. Ad esempio, dopo l’avventura di Suez, di fatto, non vi era praticamente più alcuno Stato titolare dello “ius ad bellum”. Da allora in poi, il diritto a fare la guerra è stato riservato solamente alle superpotenze, ciascuna delle quali manteneva al proprio interno una pluralità di Stati soltanto semi-sovrani. Dopo la Seconda Guerra mondiale è nato un mondo duale, giocato cioè sulla logica del due, sulla semplificazione del principio “cuius regio, eius religio”, che era il principio classico della modernità politica, trasformatosi nel principio “cuius regio, eius oeconomia“; da una parte, i Paesi ad economia capitalistica e dall’altra i Paesi ad economia di comando amministrata. Ma la complicazione nasce dal fatto che questo ?due? era la costituzione in senso materiale delle relazioni internazionali, mentre la costituzione formale di quelle stesse relazioni era l’uno, rappresentato dall’universalismo dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, che si è da subito configurato come una sorta di club con una tassa di accesso. I “soci” di questo club sono evidentemente gli Stati, e la tassa d’accesso loro richiesta è la rinuncia allo “ius ad bellum”. Tra i diritti riservati ad un Paese c’è quello di batter moneta, di statuire la Legge, di regolare il servizio militare, e c’è anche il diritto di dichiarare la guerra. Questo diritto sovrano, che fa parte proprio dell’essenza dello Stato moderno, è ciò che sovranamente, liberamente, gli Stati lasciano cadere quando entrano nelle Nazioni Unite. Tutto quello che non è immediata autodifesa, è riservato all’ONU, unico detentore della violenza legittima. Com’è evidente a tutti, ciò di fatto non è mai accaduto. Finché è esistito il mondo duale, era proprio quel due che manteneva un po’ di ordine a livello globale. Certamente vi potevano essere problemi nei punti di frizione fra i due mondi, come nel Vietnam, ma dentro di essi ciascuna superpotenza regolava l’ordine, con i mezzi che desiderava.

La logica duale, tuttavia, appartiene inesorabilmente al mondo passato. Il comunismo, infatti, almeno nella sua realizzazione storica, è stato sconfitto e schiacciato; del resto, se la gara è produrre, il modello capitalista risulta vincente, e il comunismo è destinato a perdere. Ora questa sconfitta ha prodotto un passaggio epocale. L’età della guerra fredda, l’età del due, definita come tarda modernità, si è conclusa, e nasce un’età nuova, che non è l’età dell’uno, ovviamente, ma è appunto l’età globale. Il mondo è unico, ma non è né unito né unitario. Nell’età globale non esiste più il confine, non esistono più le differenze, al contrario di quanto solitamente si ritiene. Dire che noi siamo diversi da loro, che l’Occidente è diverso dai “maledetti” fondamentalisti, e che coloro che dissentono da questa tesi sono nemici interni, è una palese falsità. Questa, sostiene Galli, è una proiezione paranoide. Se l’età globale è la fine della politica intesa come tracciar confini, non c’è più modo di distinguere fra interno ed esterno, non c’è più modo di distinguere fra nemico e criminale, non c’è neppure modo di distinguere tra un noi e un loro.

L’età globale è caratterizzata da un forte impulso economico. I grandi vettori universalistici che erano nati all’interno delle statualità moderne, cioè la morale, la tecnica e l’economia, che erano tendenzialmente universali, e rispetto alle quali lo Stato aveva una posizione di confinamento, sono evidentemente esplosi e “comandano” in tutto il mondo (invero con l’eccezione della morale, che ha seguito un percorso differente). Ciò non vuol dire che il mondo sia stato unificato; questo lo si credeva quando la globalizzazione comparve sulla scena, e le Business schools americane incominciarono ad insegnare che il globo era ormai diventato uno e uguale, senza confini e senza contraddizioni. Non è così; l’età globale è l’età in cui non ci sono effettivamente più confini, ma in cui le contraddizioni permangono e anzi si moltiplicano. La prima di esse è costituita dalla presenza di uno spazio che ha soltanto un interno e non un esterno. La violenza, dunque, è necessariamente dentro, con tutta la sua potenza omnipervasiva. Il marxismo individuava la contraddizione del mondo borghese in un’unica linea strategica, cioè nel rapporto capitale-lavoro, ma ciò non è più vero; su questo rapporto si inseriscono tutta un’altra serie di complicate relazioni dialettiche, come ad esempio il rapporto Nord-Sud, o il rapporto identità-differenza. In realtà, i vettori della violenza sono oggi tendenzialmente infiniti.

Il vero problema è che nell’età globale la violenza e la guerra non hanno una causa. La guerra diviene semplicemente il modo d’essere dello spazio politico. Non ci sono più i confini, ma non c’è ancora, posto che mai ci possa essere, l’unità del mondo. In una situazione in cui la violenza vaga e appare qua e là in modo imprevedibile, viene meno l’assunto fondamentale della politica moderna e tardo moderna, cioè quella capacità della sintesi sovrana, sia essa lo Stato o la superpotenza, di dire “qui dentro non può succedere di tutto; ci sono delle classi di azioni, di eventi, che qui dentro non succedono”. Oggi sembra che in nessun punto del pianeta vi sia una qualche istituzione sovrana che possa credibilmente affermarlo. L’età globale, pertanto, è l’età in cui tutto può succedere ovunque in ogni momento.

Le crisi si dispiegano lungo linee di contraddizione non concepibili, che si manifestano non come linee ma come punti diffusi, eruzioni, in modo simile alla sintomatologia dell’acne. L’economia tradizionalmente definita capitalistica ha come caratteristica fondamentale quella di essere un sistema che si auto-riproduce. Il capitale vaga ciecamente finché non trova quel luogo in cui riesce a massimizzare se stesso; e siccome le condizioni della sua implementazione variano di minuto in minuto, il capitale vagante ora si insedia in un punto, ora in un altro, facendo e disfacendo le fortune dei vari paesi, in modo sostanzialmente accidentale, cioè non guidato da logiche umane, ma da logiche del tutto immanenti. L’idea infantile che antropomorfizza l’età globale come l’età in cui hanno vinto i signori del mondo è priva di fondamento; in realtà si è “insignorito” un modo di produzione, che non è né governato né governabile. Vi sono certamente delle forme di dominio subìto molto evidenti, ma i dominatori sono appendici della macchina del dominio. In questa descrizione, il Professor Galli richiama più volte l’analisi profetica di Ernst Jünger; la mobilitazione totale descritta in Der Arbeiter, pur tenendo conto dei differenti contesti e delle diverse valutazioni specifiche, ha diversi elementi di interesse per comprendere l’età della mobilitazione globale. Quest’ultima, però, a differenza del modello jungeriano, non riesce neppure a produrre una nuova Gestalt, una figura dominante in grado di sintetizzare in qualche modo il nuovo paradigma. La mobilitazione globale non è portatrice di nessuna figura specifica; essa produce soltanto delle identità fantasmatiche, a partire dalla contrapposizione Noi-loro. Produce identità del tipo Occidente-terroristi, mondo libero-fondamentalismi. In realtà, il fondamentalismo è una semplice reazione di un mondo sconfitto; pensare che esso sia la causa esclusiva dei conflitti attuali, è come pensare che la teologia cristiana sia stata la causa diretta delle crociate. È ovvio che il linguaggio dell’identità religiosa era ed è ancora per i fondamentalisti l’unico strumento e veicolo attraverso il quale si esprime l’antagonismo. E’ il modo più ovvio, più semplice, per reagire ad una violenza. Il linguaggio teologico è il linguaggio più immediato attraverso il quale si esprime un’altra conflittualità, che ha altre infinite cause. Quelli che noi chiamiamo fondamentalisti, osserva Galli, non agiscono certo per aggredire i “valori” dell’Occidente; semmai spesso reagiscono al fatto che l’Occidente sia andato a casa loro. Il problema non sono i nostri valori, ma piuttosto il modo attraverso cui noi facciamo funzionare questi stessi valori. 

La confusione esasperata tra i vari piani e i vari livelli e la produzione di fantasmi privi di ogni fondamento è proprio la caratteristica peculiare della guerra globale oggi. Diventa sempre più difficile distinguere tra nemico e criminale, tra civile e militare, tra interno ed esterno, e la guerra può essere concretamente ovunque. La guerra in Iraq, sostiene il relatore, non è altro che un tentativo patetico di ri-territorializzare la guerra globale; gli Stati Uniti, guidati da un pugno di persone che hanno letto male i libri classici della Storia del Pensiero politico occidentale, si sono illusi che sia sempre valido il principio secondo cui per ottenere un po’ di ordine al mondo è necessario operare sul territorio, spazializzare il conflitto. Ma tentare di sconfiggere la guerra globale costruendo delle muraglie o aprendo sempre nuovi fronti è esattamente come svuotare l’oceano con il cucchiaino, secondo la celebre immagine di Sant’Agostino.

Oggi occorre invece cercare di comprendere anzitutto le nuove dinamiche politiche, e fare poi un ulteriore sforzo elaborativo che consenta finalmente di affrancarsi dall’uso di vecchie categorie inadatte a descrivere un mondo tragicamente cambiato. Il problema non è più quello di costruire nuovi ordini; è necessario invece ridare nuovo spazio alla relazione e al dialogo, e soprattutto porre al centro dell’attenzione il valore della libertà. La vera questione è quella di trovare il modo grazie al quale la nostra innegabile, e probabilmente immortale, capacità di avere qualcosa da dire non venga oscenamente mutilata dai cascami del vecchio mondo che ancora ci circonda. La ?pianta? uomo non è morta, è semplicemente molto mal coltivata. Occorre pertanto pensare concretamente ad una svolta radicale, che riconosca la centralità della Giustizia e che preveda finalmente la repulsione della violenza nelle sue varie forme. Basterebbe per un attimo trovare la lucidità necessaria a dire che morte, fame, angoscia, miseria, disperazione, noncuranza, sfruttamento, bestialità sono assolutamente intollerabili, da chiunque siano subiti. L’infelicità di ciascuno vale la nostra. L’assunto fondamentale da cui partire per pensare ad un nuovo mondo possibile è l’assenza di dominio: “Non voglio né dominare, né essere dominato”. Questo dovrebbe essere l’emblema di ogni uomo libero e di ogni donna libera. In tal senso, si può sostenere che il bieco realismo è solo paranoia cimiteriale. Se quella attuale fosse la modalità normale di vita, allora tutto sarebbe soltanto una farsa; al contrario, si deve continuare a credere che un altro modo di vita sia effettivamente possibile, ed avere sempre dentro di sé l’energia per immaginarsi liberi, senza trascurare l’importanza decisiva di trovare insieme sistemi di regole condivise, magari dentro lo spazio europeo, che sappiano rispettare e valorizzare l’umanità, senza condizioni e senza eccezione.

 

 

Scarica File