L’intervento introduttivo del professor Franco Livorsi (docente di Storia delle dottrine politiche presso l’Università degli Studi di Milano) muove da una riflessione sul titolo del libro di Valerio Pellizzari, presentato nel corso della serata. La stanza di Ali Baba è, infatti, il nome con cui gli iracheni denominano i rifugi in cui si riparavano durante i bombardamenti aerei. Lì il nostro ospite ha raccolto alcune delle testimonianze che costituiscono la materia del suo saggio. La scelta di questo titolo sta a significare qual è il punto di vista dal quale l’autore guarda all’Iraq sconvolto dalla guerra, ossia quello dei cittadini iracheni comuni, le prime e vere vittime del conflitto e della situazione di sconvolgente disordine provocata dall’occupazione militare statunitense. È infatti convinzione dell’autore che solo in questo modo sia possibile comprendere realmente quanto sta accadendo oggi e quanto accadrà in futuro in quel disgraziato paese.

Dal libro emerge un giudizio molto duro sul regime dittatoriale e totalitario di Saddam Hussein e una grande simpatia per gli iracheni, popolo di antica civiltà, portatore di una cultura raffinata e straordinariamente complessa. Lucidamente, in base alla sua esperienza di osservatore diretto, Pellizzari denuncia l’illegittimità della guerra e l’evidente incapacità degli statunitensi, soprattutto per la loro inadeguatezza culturale, a trovare una soluzione politica alla difficile situazione irachena. Il professor Livorsi ha concluso il suo intervento formulando due domande al relatore: quali saranno le conseguenze della rielezione di George W. Bush e quale il ruolo del nostro paese? È giusto e/o utile rimanere in Iraq?

 

Valerio Pellizzari ha introdotto il suo intervento attraverso la proiezione in sala di una fotografia inedita dei bombardamenti cui era sottoposta la popolazione irachena. Scattata dal cuore stesso di Baghdad, l’immagine, al contrario di quelle normalmente offerte dai mass media occidentali, restituisce il punto di vista di chi è oggetto dei bombardamenti e non di chi li osserva da lontano come si trattasse di uno spettacolo pirotecnico. Essa permette facilmente di immaginare gli effetti delle bombe e dei missili intelligenti statunitensi. Effetti, al contrario di quanto spesso propagandisticamente sostenuto in Occidente, in realtà devastanti, tali secondo Pellizzari da rendere impossibile un paragone fra quanto accadeva in quei momenti a Baghdad e altre situazioni analoghe del passato di cui egli, nella sua lunga carriera di giornalista di guerra, ha avuto esperienza. A causa della frequenza delle bombe e dei missili, seppure lanciati contro obiettivi preselezionati, e della violenza inusitata delle loro esplosioni, sembrava infatti di vivere in un interminabile terremoto. Chi vanta, cinicamente, il conto assai contenuto di vittime civili provocato dalla guerra dovrebbe ricordare i danni permanenti all’equilibrio psichico degli iracheni procurati dal terrore cui essi erano esposti o le migliaia di aborti spontanei verificatisi in quello stesso periodo a Baghdad. È la storia delle vittime innocenti di questo conflitto, dell’iracheno comune, quella che occorre conoscere per capire che cosa sia l’Iraq sotto occupazione statunitense. Per esempio, la storia di una famiglia di iracheni uccisa per ?errore?a un posto di blocco, a cui parenti è stato corrisposto un ?risarcimento danni? di 2500 dollari a famigliare, la stessa cifra guadagnata in un giorno da un contractor, i soldati privati, veri e propri mercenari delle guerre moderne, addetti alla  sicurezza delle grandi corporation occidentali.

Un simile episodio, più di tante interviste a personaggi della politica, spiega quale sia l’insofferenza che sta alla base della resistenza irachena all’occupazione statunitense. Quando fu abbattuta la statua di Saddam, nella centrale piazza di Baghdad, gli unici iracheni presenti erano gli interpreti dei giornalisti occidentali e gruppi di ragazzini attirati più dalla curiosità che dal desiderio di manifestare la propria riconoscenza alle truppe occupanti. Nessuna folla plaudente quindi, come è invece è stato affermato dalle televisioni occidentali, che nell’occasione hanno, non a caso, fatto attenzione a non effettuare riprese in campo lungo della piazza. Del resto, ad abbattere il simbolo della dittatura di Saddam,  per quanto essa non fosse certamente amata dalla maggioranza degli iracheni, fu un carro armato statunitense, non un moto spontaneo della popolazione civile.

Oltre che dai danni materiali e dai lutti causati dalla guerra, l’insofferenza della popolazione irachena verso l’occupazione militare alleata è poi aggravata dalla totale inadeguatezza culturale con cui gli statunitensi pretendono di esportare la democrazia in Iraq. È a questa inadeguatezza, all’incapacità e all’indisponibilità degli statunitensi a cercare di comprendere la complessità religiosa, etnica e sociale dell’antica Mesopotamia, che deve essere ascritto il fallimento della politica statunitense in Iraq.

Di questa inadeguatezza culturale si potrebbero fare molti esempi. Basti ricordare il più noto ed eclatante, quello del famoso mazzo di carte su cui venivano rappresentati i principali esponenti del regime bahatista ricercati dagli statunitensi. Ebbene, si tratta di un errore clamoroso: il gioco delle carte è infatti sconosciuto nel mondo arabo. L’episodio dà la misura dell’ignoranza delle autorità militari americane circa la cultura del paese in cui si trovano. Un’ignoranza che riguarda innanzitutto la lingua araba, ignota non solo ai soldati ma anche agli ufficiali, con l’effetto, prevedibile, di moltiplicare le occasioni di pericolosi equivoci.

La totale incapacità di comunicare con la società irachena, di individuare, non avendone gli strumenti culturali necessari, degli interlocutori validi al suo interno, è alla base della guerra civile in cui il paese è precipitato a causa dell’occupazione. Si pensi al caso degli sciiti, che costituiscono il 60% della popolazione irachena, verso i quali l’amministrazione americana lancia da sempre segnali contraddittori, temendo un allineamento dell’Iraq alle posizioni dell’Iran. In questo modo, paradossalmente, con le sue oscillazioni, l’amministrazione repubblicana ottiene come risultato il rafforzamento proprio della corrente più radicale; è il caso del giovane Moqtada Al-Sadr, un personaggio politico che per più di un motivo, al di là del nome illustre che porta, deve la sua ascesa proprio alla miopia americana, che lo ha eletto a proprio principale avversario.

L’intervento americano non ha dunque portato affatto alla messa in sicurezza dell’Iraq, anzi oggi la situazione pare ancor più gravemente compromessa. In virtù della disastrosa politica statunitense un paese che non aveva mai sperimentato il terrorismo suicida, ha conosciuto 92 attentati kamikaze in meno di tre mesi, mentre nel solo mese di settembre si sono avuti ben 2000 attacchi da parte della guerriglia. Del resto, una guerra giustificata attraverso una campagna propagandistica basata su asserzioni palesemente false non poteva che avere questo risultato. Come era già noto alla stessa amministrazione statunitense da informazioni di intelligence, l’Iraq di Saddam Hussein non aveva più armi di distruzioni di massa né aveva rapporto alcuno con il terrorismo internazionale jihadista. Tra i 660 detenuti di Guantanamo, imprigionati al di fuori del territorio statunitense, contro il diritto internazionale, tutti accusati di terrorismo, non vi era un solo iracheno.

La situazione in Iraq è dunque ancora fortemente instabile e confusa; è difficile ipotizzare quale strategia politica andrebbe adottata per giungere a un ritiro in tempi rapidi delle truppe occidentali che non significhi abbandonare il paese a una sanguinosa guerra civile. Sulla exit strategy dall’Iraq è però altrettanto difficile pensare che possano esistere delle reali differenze fra l’orientamento che sarà seguito dal presidente Bush e quello che avrebbe potuto seguire, se eletto, il candidato democratico John Kerry. Essa necessariamente passa per un maggior coinvolgimento dei paesi dell’area mediorientale nella difficile transizione irachena che, è opinione di Valerio Pellizzari, si concluderà non con l’avvento della democrazia, ma con l’instaurazione di un regime certo formalmente democratico, ma in realtà nuovamente autoritario. Ad imitazione cioè dei regimi arabi cosiddetti moderati, politicamente allineati all’Occidente, istituzionalmente più o meno formalmente presentabili, ma di fatto illiberali; o di quanto sta accadendo in Afghanistan. L’unica certezza ravvisabile in questo drammatico processo rimarrà così solo l’incertezza e la precarietà in cui ancora per molti anni sarà costretto a vivere il popolo iracheno

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