Il secondo appuntamento nell’ambito del ciclo giuridico, sul tema specifico della legalità e della sicurezza, è stato introdotto e moderato dall’avvocato Mario Boccassi, il quale ha sottolineato quanto l’argomento sia fortemente sentito dalla collettività e anche particolarmente attuale, collocandosi a una settimana di distanza dall’approvazione di una nuova legge di modifica del codice penale sulla legittima difesa (art. 52).

Mauro Anetrini ha preso la parola per primo e ha subito evidenziato come legalità e sicurezza rappresentino un tema quanto mai abusato, che si è trasformato in una sorta di slogan politico, utilizzato da entrambi gli schieramenti politici con significati diversi se non addirittura contrapposti. Un esempio classico dell’utilizzazione talvolta impropria delle parole è proprio da rinvenirsi nel caso del cittadino che si fa giustizia da solo. Questo atto, oggi pienamente legittimato dalla normativa, non può essere considerato ?fare giustizia?, o perlomeno non come lo intendono i giuristi e come lo intende la nostra Costituzione. Quando si parla di giustizia dobbiamo inevitabilmente riferirci all’ordine giudiziario e ai sistemi di accertamento e di repressione delle manifestazioni illecite che si realizzano nella vita quotidiana. In base a questa interpretazione non è sicuramente accettabile una soluzione rapida delle controversie attraverso iniziative del tutto personali, le quali, in uno stato con un assetto costituzionale rigido ma evoluto – quanto meno nella sua prima parte – come il nostro, sono del tutto inammissibili. Se si intende affrontare la questione della legalità e della sicurezza è quindi fondamentale chiarirsi innanzitutto sul significato di questi due concetti, accogliendo l’accezione più neutra possibile.

La legalità è una condizione nella quale esiste prima di tutto una legge, che deve essere applicata, fatta rispettare, secondo i principi generali di un sistema. Si tratta di un concetto che non ha nessun contenuto etico o politico: si può parlare di legalità soltanto in un sistema nel quale la produzione normativa sia conforme ai principi del sistema stesso, ovvero a quei principi fondamentali sanciti dalla Carta costituzionale, la quale ci accomuna tutti, ci rende tutti cittadini all’interno dello stesso Stato e ci rende tutti titolari degli stessi diritti e rispettosi tutti dei medesimi doveri. Il concetto di sicurezza è invece un concetto metagiuridico, non trova cioè una sua espressione giuridica, ma deriva da un lato dalla sensazione diffusa che la gente prova e, dall’altro, dall’efficacia nell’applicazione delle leggi e quindi, sul versante penale, nella repressione dei reati e nell’accertamento secondo le regole che sono stabilite dal sistema.

Una discussione seria sulla legalità deve prendere le mosse dai principi contenuti nella nostra Costituzione e non ha nulla a che vedere con la sicurezza (prova ne sia il fatto che esistono regimi totalitari nei quali la legalità di fatto non esiste, ma in cui la sicurezza è assolutamente garantita). La nostra Carta costituzionale afferma come inviolabili una serie di diritti che non possiamo dimenticare, dal rispetto della vita e dell’uguaglianza, al diritto di libertà, di domicilio, di manifestazione del pensiero, di difesa, di nullum crimen sine lege. Ogni cittadino, sempre secondo la Costituzione, ha diritto alla legalità e a vivere in una condizione di rispetto della legge, con il conseguente diritto a un tasso di sicurezza ragionevolmente accettabile in un regime democratico. È altresì fisiologico che in uno Stato moderno esista un tasso di illegalità, che vi sia cioè devianza nel comportamento degli esseri umani. Quello che non è fisiologico – e che ha portato alla ribalta oggi l’argomento – è l’eccesso di questo tasso di illegalità. Nella ricerca di una perimetrazione del concetto di legalità è indispensabile definire quali siano le forme di illegalità per così dire ?plausibili? e possibili in un sistema come il nostro, non riferendosi tuttavia in maniera esclusiva a quelle ?spicciole?, quelle, per intenderci, di chi viola un precetto del codice penale (illegalità, anche gravissime, che trovano tuttavia un’immediata risposta nell’ordinamento medesimo). Il primo discorso sulla necessità di ristabilire la legalità va fatto con riguardo all’ordinamento in sé, a quello che l’ordinamento è in grado di fornire in termini di legalità ai cittadini. La prima questione è dunque se la produzione normativa sia in grado di assicurare quel tanto di legalità che è esigito dalla Carta costituzionale a coloro che saranno poi tenuti a rispettarla. Pur esistendo principi assolutamente apprezzabili come quelli della nostra Costituzione, è possibile che, chi detiene il potere, possa farsi latore e poi vero e proprio produttore di una serie di norme che sono esse stesse fonte di illegalità. Si giunge al paradosso che il tasso di illegalità non più tollerabile all’interno di un sistema democratico proviene dalla stessa fonte che dovrebbe produrre legalità. Questa è una constatazione grave; è una delle situazioni con le quali il mondo moderno è chiamato a confrontarsi. Un sistema, per definirsi pienamente democratico, deve essere esso stesso garanzia di legalità e, oltre a rispettare il criterio di formazione delle leggi, deve farsi produttivo di leggi che rispondano agli articoli fondamentali della Carta costituzionale, i quali assicurano innanzitutto il rispetto delle persone e il principio di uguaglianza. La violazione del principio di uguaglianza è una forma di illegalità, perché introduce l’irragionevolezza nella produzione normativa, ed è inaccettabile in un sistema democratico.

Un secondo livello di illegalità, quella che segue la produzione normativa, risiede nella amministrazione. Si può vivere al di fuori di uno Stato di legalità producendo norme, ma si può anche vivere al di fuori della legalità amministrando male, amministrando in maniera non conforme a ciò che la legge prevede. Un’esigenza di legalità, ossia di regole chiare e trasparenti nei confronti della pubblica amministrazione, è già di per una modalità che consentirebbe di evitare comportamenti illegali.

Un ultimo aspetto di illegalità, sicuramente il più concreto, riguarda l’applicazione della giustizia. È evidente che il termometro attraverso cui misuriamo la condizione di legalità non è l’andamento dei singoli processi, ma piuttosto la verifica dei dati statistici che ci dicono quanti e quali reati vengono commessi all’interno di una determinata realtà sociale e qual è la risposta da parte dell’ordine giudiziario e delle forze di polizia.

Questi tre parametri ? la produzione normativa, la pubblica amministrazione e l’applicazione della giustizia ? ci consentono un’analisi del concetto di legalità assolutamente priva di connotazioni di carattere etico e di valutazioni di natura politica.

La sicurezza è un concetto ovviamente diverso, a carattere, come detto, metagiuridico: si oscilla da una condizione imposta per via autoritativa a una semplice aspetto emozionale proprio del comune cittadino. Se per sicurezza intendiamo lo stato ottimale delle cose, l’affermazione della legge, il nostro non è certo il paese in cui si vive nel modo più sicuro. Tuttavia non possiamo dimenticare che non è accettabile pagare il prezzo della rinuncia a certi diritti attraverso l’affermazione della sicurezza, intesa come fine. La sicurezza è un mezzo, da attuare nel rispetto della legge e dei principi costituzionali; se dovesse rappresentare un fine sarebbe certo molto più semplice comportarsi anche nel nostro paese come ci si comporta altrove. Per esemplificare, l’allarme terrorismo succeduto alle note vicende del settembre 2001 ha indotto l’amministrazione americana ad elaborare dei testi di legge (i cosiddetti patriot act), imposti poi al parlamento, i quali prevedono una serie di misure restrittive della libertà individuale. Lo scopo, almeno così come è enunciato, è sicuramente apprezzabile, ma nella realtà il prezzo che i cittadini potrebbero essere tenuti a pagare in termini di libertà non è giustificato dalla promessa di sicurezza che viene formulata attraverso la proposizione della legge. L’invasione attraverso forme di controllo della corrispondenza, dell’utilizzazione della rete, della stessa storia individuale delle persone è una forma di ispezione che in un sistema democratico non è tollerabile.

Per venire all’attualità del nostro paese, l’articolo 52 bis di recente approvato dalla Camera, è una legge – proposta alla collettività come affermazione di legalità – sostanzialmente sbagliata o, quanto meno, si configura come uno strumento sbagliato per uno scopo eventualmente giusto, ma perseguito malamente. Non si può affermare la legalità dimenticandosi che ci sono principi costituzionali sacri come quello della vita. L’articolo 52 recitava, prima della modifica, che la legittima difesa è ammessa quando si è costretti da una minaccia grave alla propria e altrui incolumità e la reazione è proporzionale all’offesa. Questi concetti sono del tutto spariti nell’art. 52 bis che autorizza di fatto l’uso di armi per colpire una persona che stia attentando a dei beni. Esiste una scala di valori, affermata dai principi base della nostra Costituzione, alla quale si deve ispirare la legalità che ci accomuna tutti e che è essa stessa produttiva di sicurezza.

In conclusione, il cuore del problema, riguardo all’affermazione del principio di legalità e al conseguimento di un tasso di sicurezza accettabile, sta tutto in una semplice domanda: quanto siamo disposti a cedere in termini di garanzie a favore della sicurezza? Noi viviamo continuamente l’emergenza terrorismo, l’emergenza della criminalità organizzata, della criminalità ordinaria che infesta le nostre strade e che invade le nostre case: che cosa ci aspettiamo dallo Stato? Vogliamo leggi severe, vogliamo delle misure di polizia, ma soprattutto siamo poi disposti a rinunciare allo Stato di diritto e anche a quei diritti fondamentali affermati dalla Costituzione? Essere cittadini vuol dire innanzitutto avere dei diritti e rinunciare a questi diritti fondamentali significa compiere un inaccettabile e pericoloso passo indietro. 

Dovendo approfondire il tema della legalità e della sicurezza il procuratore Marcello Maddalena ha subito evidenziato come preferisca focalizzare l’attenzione sulle norme di carattere processuale piuttosto che sulle norme di carattere sostanziale. Le ragioni di tale scelta stanno nel fatto che un magistrato, quando parla dei valori che vorrebbe tutelati attraverso la normativa penale sostanziale (ovvero cos’è che costituisce un delitto, qual è la condotta che merita di essere punita con una pena) non possiede affatto una competenza tecnica specifica superiore a quella di un normale cittadino. Indicare quali reati la società intende perseguire attraverso la sanzione penale è una scelta di carattere collettivo e quindi esclusivamente politico. I magistrati hanno non solo il diritto ma anche il dovere di dire chiaramente e pubblicamente, perché fa parte del loro compito costituzionale, ciò che riguarda le normative processuali. Il processo è lo strumento che negli Stati democratici è affidato ai magistrati per cercare di scoprire, attraverso le regole prescritte dal sistema, la verità ? non la verità assoluta, ma la verità processuale ?, per verificare un’ipotesi di accusa che vede una certa persona imputata di un certo fatto e per accertare se questa persona meriti la sanzione che l’ordinamento prevede per chi tiene tale condotta. Il magistrato, a questo proposito, deve non solo dire, ma denunciare se lo strumento che lo Stato gli affida è idoneo a perseguire, entro un tempo ragionevole, il fine posto dallo stesso legislatore, ovvero incriminare il numero minore possibile di innocenti e arrivare a un certo numero di condanne giuste. Le modifiche al sistema penale sostanziale (il quale afferma che le classi di delitti consuete sono riscontrabili in pressoché tutte le culture e in tutti i tempi) sono state, nel tempo, assolutamente inferiori rispetto a quelle apportate al sistema processuale penale. Questo dipende dall’ottica con cui vengono scelte le garanzie, le quali costituiscono l’aspetto più rilevante in materia processuale. In termini esemplificativi, forse un po’ brutali, si possono scegliere delle garanzie che siano uguali sia per il colpevole sia per l’innocente (ovviamente presunti tali), ma si possono anche prevedere e strutturare delle garanzie che garantiscano preferibilmente l’impunità del colpevole o dell’innocente. Sono quindi necessarie, anzi indispensabili, delle misure di dosaggio e di equilibrio. Quando si infarciscono i processi penali di una serie infinita di ?inutilizzabilità? di cose fatte legalmente, di ?nullità? per vizi formali che non comportano pregiudizi sostanziali, quando si pongono termini assurdi per le indagini preliminari, spesso si hanno sistemi che garantiscono più il colpevole dell’innocente. La stessa durata del procedimento è un sistema che non aiuta a conseguire la ragionevole durata, principio questo entrato ormai a far parte dei principi costituzionali.

Va dunque ripensato un procedimento che, lasciando inalterate tutte le garanzie sostanziali, preveda dei filtri per quei dati che giocano più di ostacolo all’accertamento dei fatti che non di garanzia per gli individui e per il perseguimento della verità. È altresì vero che risultano sicuramente differenti, pur nel pieno riconoscimento e rispetto della funzione di entrambi, il ruolo del pubblico ministero ? che ha il compito e il dovere di accertare la verità per conto dello Stato, garantendo la parità tra i cittadini, ? e il ruolo dell’avvocato difensore, che ha il dovere della parzialità e della ricerca di garanzie per il proprio assistito. Di certo, il fatto che le indagini preliminari condotte dal pubblico ministero non contino quasi più niente ? perché si è stabilito il principio che la formazione della prova si fa al dibattimento ? e che il pm nel rito abbreviato non possa opporsi al rito scelto dal difensore ? il quale può fare entrare gli atti compiuti da lui senza che il pm abbia un diritto al contraddittorio in quell’atto ?, sono elementi che sviliscono la funzione del magistrato e non aiutano il processo. Per uno Stato che concepisca il processo come strumento per accertare la verità, la prima e fondamentale garanzia deve essere data dall’imparzialità di chi svolge le indagini, ovvero il pubblico ministero. Ecco perché, e in questo tutta la magistratura è compatta, si vuole che il pubblico ministero sia tenuto alla massima imparzialità, e che possa svolgere anche le indagini a favore dell’imputato. In questo senso è fondamentale che le carriere non solo non siano separate, ma bisognerebbe addirittura introdurre la temporaneità della carriera di pm, per il rischio implicito ed evidente di deformazione professionale. La cultura della giurisdizione, ovvero dell’imparzialità, rappresenta la prima garanzia sostanziale, la quale viene prima di tutte le garanzie processuali. Purtroppo è oggi presente in Italia una forte tendenza politica bipartisan che va in senso contrario. Il rischio è di non avere sufficientemente chiari i valori che devono presiedere un corretto processo penale, che non è il semplice mezzo per risolvere una contesa, così come lo interpreta la cultura giuridica nordamericana. Occorre invece rivendicare con forza la consapevolezza e l’orgoglio dei valori insiti nella nostra cultura, la quale vuole dal processo esiti e accertamenti che sappiano riconoscere la verità secondo regole di imparzialità e di garanzie.

Ha preso quindi la parola il senatore Gianpaolo Zancan, il quale ha subito sottolineato come la sicurezza rappresenti un desiderio legittimo di tutti i cittadini, ma occorre verificare quale sia la vera sicurezza e quali siano gli spot elettorali proposti in materia ai cittadini. Martedì 24 gennaio la Camera ha approvato la riforma dell’articolo 52 del codice penale sulla legittima difesa, la quale autorizza il ricorso alle armi non solo per tutelare la propria e altrui incolumità fisica, ma anche nel caso in cui si verifichi un’aggressione ai beni materiali all’interno di un domicilio. Secondo Zancan, la nostra civiltà giuridica ci impone di dire che nessun bene materiale può essere difeso con la vita di un ladro. Inoltre l’aggressore è solitamente più esperto nell’uso delle armi di chi si difende, per cui la mozione ?armiamoci e difendiamoci? porterà sicuramente più morti tra gli aggrediti che non tra gli aggressori. Sono due ragioni di diverso valore ma entrambe fondanti: non si può uccidere per la ?roba? e, in secondo luogo, la norma è molto pericolosa per la sicurezza. Questa legge è dunque profondamente sbagliata, un mero spot elettorale, ma non è la sola legge discutibile in materia di giustizia fatta da questa legislatura. Basti citare la cosiddetta ex Cirielli, la quale prevede un aumento considerevole di pena a prescindere dalla gravità del reato commesso in caso di recidiva; ne consegue che finisce in carcere con maggiore frequenza la marginalità sociale rispetto a chi commette reati odiosi, quali falsi in bilancio, peculato o corruzione, da incensurato.

Quali sono dunque le storture in materia di legalità e sicurezza nel nostro Paese, quali le cose serie sulle quali si dovrebbe concentrare l’azione dello Stato? La lista è lunga e il senatore Zancan si è limitato a richiamare semplicemente, ma in maniera molto efficace, alcuni casi emblematici. Innanzitutto lo Stato dovrebbe garantire i cittadini offesi da reato, non concedendo il patteggiamento se non c’è risarcimento del danno e avendo garanzie patrimoniali immediate. Per quanto riguarda poi la criminalità organizzata, è scandaloso che lo Stato abbia affidando al demanio la gestione dei beni confiscati ai mafiosi, patrimonio di altissimo valore simbolico, ma anche pratico, che poteva essere destinato a iniziative sociali. Inammissibile è poi la campagna di delegittimazione che ha subito la nostra magistratura durante questa legislatura. Che dire poi del presidente della regione Sicilia, rinviato a giudizio per favoreggiamento con l’aggravante di reato di natura mafiosa, ancora al suo posto e che si ripresenta candidato? Tutto ciò non aiuta di certo la sicurezza dello Stato. Così come non l’aiutano i condoni fiscali, veri e propri atti criminogeni o l’istituzione della polizia amministrativa regionale o ancora il fatto che sette giudici su quindici della corte costituzionale siano eletti dall’esecutivo, ovvero dal parlamento. Si vorrebbero ridurre poi le possibilità di intercettazione telefonica, confondendo il giusto e sacrosanto diritto delle parti a non vedere divulgate le intercettazioni che non riguardano i processi con la necessità fondamentale di approdare a queste informazioni per l’utilità stessa del processo. In questo caso la critica alla magistratura è aspra, in quanto sembra inammissibile che non si riesca a ottenere, nell’ambito delle intercettazioni, lo stesso rigore che compete invece gli studi professionali. L’intercettazione è uno strumento di fondamentale importanza, ma non si può tollerare che il cittadino sia sbattuto con la sua vita privata in pasto a una mediaticità sfrenata e disinvolta.

In definitiva, i cittadini devono appoggiare la magistratura perché la sua azione è fondamentale. È con la storia di magistrati esposti a rischio della vita, di magistrati uccisi e anche con il ruolo di civiltà che hanno svolto e continuano a svolgere molti avvocati difensori che il nostro Stato ha avuto una sua tenuta democratica, perché solo attraverso un contraddittorio tra un bravo pubblico ministero e un altrettanto bravo avvocato si realizza quel giusto processo che dovrebbe costituire l’aspirazione di un Paese civile.

 

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