Premesso che la conferenza è stata particolarmente intensa e contenutisticamente ricca, in questa sede, per ragioni di spazio, cercheremo di richiamare gli aspetti  più rilevanti e significativi trattati dal relatore.

 

1.      Conseguenze internazionali dei fatti dell’11 settembre 2001

 

1.1 Una nuova era delle relazioni internazionali: l’epoca ?post-postbipolare?

È opinione comune che la storia, dopo l’11 settembre 2001, abbia per così dire voltato pagina, decretando la fine dell’era geopolitica iniziata il 9 novembre 1989 con il crollo del muro di Berlino e la fine della guerra fredda e del bipolarismo. La fase storica che stiamo vivendo è stata denominata da molti osservatori ?post-postbipolare?; è una definizione di sicuro insoddisfacente, cui si ricorre non sapendo come meglio individuare il nuovo scenario internazionale delineatosi dopo i fatti dell’11 settembre se non affermando che si tratta di qualche cosa di diverso da ciò che conoscevamo.

 

1.2 La redistribuzione della vulnerabilità e l’ubiquità della minaccia

L’11 settembre, come appena precisato, ha drammaticamente aperto un capitolo nuovo della storia. La novità non è tuttavia rappresentata, malgrado le spaventose proporzioni dell’attacco terroristico, dalla violenza e dall’efferatezza intrinseche in quell’atto: basti ricordare, a supporto di quest’affermazione, che nell’ultimo decennio del xx secolo si sono consumate sette guerre internazionali e novantacinque guerre civili, che sono costate circa cinque milioni di morti. L’elemento di novità consiste piuttosto nell’ubiquità della minaccia, costituita da un terrorismo internazionale in grado di delocalizzarsi e di assumere inedite capacità di destabilizzazione globale. Se prima dell’11 settembre si pensava al mondo diviso in due zone, una zona di pace coincidente con la comunità euro-atlantica caratterizzata da sviluppo economico, stabilità politica, democrazia e pace, e una zona di disordine, coincidente con il resto del mondo, caratterizzata da sottosviluppo, instabilità politica, autoritarismi e conflitti violenti, l’attacco delle Twin Towers ha spazzato via l’illusione di poter tenere separate all’infinito queste due zone. L’aumento del senso di vulnerabilità significa, in ultima istanza, che il territorio e i cittadini americani (e i loro alleati) non si possono più sentire al sicuro e al riparo dalle conseguenze delle loro scelte.

 

1.3 Il ritorno alla guerra comporta un rafforzamento dello Stato

Benché alcuni studiosi ritengano che l’attuale fase storica rappresenti una sorta di transizione verso una nuova era (post-moderna) delle relazioni internazionali, in cui la politica si riorganizza in forme nuove, transnazionali e deterritorializzate a discapito dello Stato, in realtà, ad un’analisi più approfondita, lo Stato sembra uscire rafforzato dal ritorno alla guerra.

Sul piano interno, la lotta al terrorismo, determinando una forte espansione della spesa pubblica, accresce il peso dello Stato, senza contare che tale potere è rinvigorito dalla necessità di maggior presidio sui confini e di controllo sulla popolazione.

Sul piano internazionale, la lotta al terrorismo ha incentivato la cooperazione fra gli Stati e creato congruenza di interessi fra le maggiori potenze. Non dimentichiamo, a tal proposito, che per sconfiggere il terrorismo internazionale l’America ha dato vita alla formazione di un vasto fronte antiterrorismo allargato ai suoi tradizionali nemici della guerra fredda, consolidando una forte intesa con Russia e Cina. Un’ulteriore considerazione riguarda poi la natura stessa del terrorismo internazionale che, contrariamente a quanto si è portati a credere, non rappresenta semplicemente un prodotto transnazionale della globalizzazione, necessitando, per sopravvivere, dell’appoggio concreto di Stati compiacenti che offrano territori per basi e nascondigli, sostegno logistico, finanziamenti.

 

2.      Mutamenti della politica estera americana

 

Se gli eventi dell’11 settembre non hanno in sostanza completamente rivoluzionato schemi e concetti interpretativi ?tradizionali? di cui eravamo già in possesso per leggere la politica internazionale (ad esempio la guerra continua ad avere ripercussioni sugli interessi, sul potere e sugli allineamenti degli Stati coinvolti), non si possono ignorare elementi di novità, il più significativo dei quali può essere individuato nei mutamenti della politica estera americana.

 

2.1 La politica estera americana dell’ultimo decennio

Prima di entrare nel merito di tali mutamenti è utile accennare sinteticamente alle direttrici della politica estera americana dell’ultimo decennio del xx secolo. Tale compito è reso arduo da due aspetti: il primo riguarda il  fatto che essa è stata storicamente connotata da un duplice dilemma: da un lato quello tra isolazionismo (ideologia nazionalista che sostiene il non coinvolgimento negli affari internazionali) e interventismo (ideologia internazionalista che è favorevole a una presenza attiva in campo internazionale); dall’altro quello tra unilateralismo (la tendenza a enfatizzare tendenze imperialiste ed egemoniche) e multilateralismo (la propensione a un atteggiamento cooperativo e collaborazionistico con gli alleati).

Il secondo motivo di difficoltà è dato dal fatto che, dal periodo compreso tra la caduta del muro di Berlino e l’11 settembre 2001, si sono già succedute quattro diverse fasi.

i) Euforia della pace, ovvero il dopo-guerra fredda vissuto con l’illusione di una pacificazione definitiva del mondo (la ben nota ideologia della ?fine della storia?).

ii) Guerra del golfo  (gennaio-febbraio 1991), ovvero la fiducia in nuovo ordine mondiale garantito dalla leadership degli  usa, sola superpotenza rimasta in grado di esercitare una funzione egemonica a livello planetario (passaggio dal bipolarismo a un assetto unipolare).

iii) Conflitto nella ex Jugoslavia e fallimento dell’intervento onu in Somalia, ovvero la riluttanza degli Stati Uniti ad assumere fino in fondo le responsabilità connesse al loro ruolo egemonico.

iv) Intervento unilaterale in Bosnia e guerra del Kosovo, ovvero l’emergere di un carattere storico della politica estera americana, la tendenza all’unilateralismo, la volontà cioè di intervenire solo nei casi che toccano interessi vitali (strategici, politici, economici) americani o occidentali (egemonia selettiva).

 

2.2 L’amministrazione Bush

L’amministrazione Bush si è mostrata poco attiva prima dell’11 settembre in politica estera; in particolare, l’atteggiamento del presidente, che sembrava denunciare sostanziale disinteresse nei confronti degli affari internazionali, spingeva il Paese verso un possibile isolazionismo, mettendo in discussione gli assunti generali dell’era Clinton, caratterizzata da un crescente impegno globale e ubiquitario. D’altro canto, il progetto di difesa missilistica, pietra miliare della strategia dell’amministrazione Bush (realizzato contro il parere degli alleati europei), si è rivelato totalmente inadeguato di fronte a una minaccia terroristica diffusa e quasi inafferrabile. Ne è derivata la necessità di una nuova, profonda innovazione di linea strategica.

 

2.3 La politica estera americana dopo l’11 settembre

Il presidente Bush ha usato toni da mobilitazione generale, parlando di un atto di guerra, fin dalle primissime ore dopo gli attentati e formulando l’obiettivo di guidare il mondo alla vittoria contro il terrorismo internazionale. Il governo americano ha da subito chiaramente identificato il nemico: una propaggine terroristica dell’integralismo islamico che non va né confusa né assimilata tout court al mondo arabo, con una pericolosa equazione terrorismo = Islam (sia detto per inciso, ma la portata dell’affermazione è tutt’altro che irrilevante: l’obiettivo ultimo dell’attacco dell’11 settembre resta legato a un conflitto interno al mondo islamico, ovvero il rovesciamento dei regimi moderati dei Paesi arabi. La tesi dello scontro fra civiltà, pur mediaticamente sensazionale, non deve distogliere dai veri motivi che hanno portato all’attentato).

 

2.4 Le strategie messe in atto

i fase. Cooperativismo. In un primo momento gli Stati Uniti si sono posti in un atteggiamento collaborazionistico nei confronti degli alleati europei. L’applicazione dell’articolo 5 (ovvero il principio fondatore della mutua difesa territoriale esteso ai casi di minaccia terroristica) al caso usa, decretata dai membri del Consiglio Atlantico, sembrava una significativa premessa di reciproco supporto e collaborazione a livello politico e strategico. Purtroppo l’occasione è andata persa e gli Stati Uniti, dopo aver incassato la solidarietà della nato, non solo non hanno sottoposto agli alleati le loro scelte strategiche (vedi il mancato coinvolgimento nella guerra in Afghanistan), ma hanno anche politicamente accelerato il processo di avvicinamento fra la stessa Alleanza Atlantica e la Russia, con la quale è evidente una convergenza di interessi da parte del governo di Washington (conflitto in Cecenia visto come elemento pericoloso di infiltrazione di terroristi islamici).

ii fase. Unilateralismo e  ?vuoto? delle istituzioni internazionali.  La nuova strategia americana ha evidenziato dunque una pericolosa tendenza unilateralista, che relega le istituzioni internazionali a un ruolo assolutamente comprimario e formale: la nato, in primis, esclusa dal conflitto afghano, marginalizzata e politicamente indebolita (e lo sarà ancora di più quanto più sarà coinvolta la Russia), l’onu, da un lato motivata ad agire, a livello internazionale, solo in spazi interstiziali, ovvero dove non sussistono interessi vitali degli usa e, dall’altro, contaminata al suo interno dalla presenza di molti Paesi guidati da governi non democratici (talvolta legittimati dagli stessi usa, come controparte per accordi vantaggiosi), e infine l’ue, colpevolmente latitante sulla scena internazionale e incapace di contribuire alla definizione di linee politiche riguardanti l’intera comunità occidentale.

Gli Stati Uniti, per perseguire il terrorismo globale, hanno dunque finito per creare coalizioni ad hoc, comprendenti anche le potenze nemiche o neutrali nella guerra fredda (ad esempio Russia, Cina e India), mantenendo all’interno di tali coalizioni una leadership riconosciuta e indiscussa. Superfluo aggiungere che l’appoggio e il consenso di tali Stati nasce dal riconoscimento di una chiara convenienza economica o strategica.

La guerra preventiva. La nuova dottrina strategica è incentrata sul concetto di guerra preventiva nei confronti di Stati ritenuti responsabili di perseguire politiche di riarmo (o di potenziamento degli arsenali esistenti) con armi di distruzione di massa e di connivenza con i terroristi o che, più semplicemente, ledono interessi vitali degli usa (o dei loro alleati). Tali Stati vengono ormai abitualmente denominati ?Stati canaglia? (etichetta coniata all’epoca dell’amministrazione Clinton). I Paesi sulla lista più recente sono sette: Cuba, Iran, Iraq, Libia, Corea del Sud, Sudan e Siria. Considerando che Iran, Iraq e Libia assicurano l’11% della produzione mondiale di petrolio e che un Paese sponsor del terrorismo internazionale come l’Arabia Saudita (principale produttore di petrolio mondiale e maggior serbatoio di risorse di petrolio non sfruttate) non è mai comparso nella lista, è evidente, da un lato, come sussista spesso un inquinamento ideologico (guerra contro il terrorismo =  guerra contro il male) di interessi puramente economici e materiali (il petrolio, principalmente) e, dall’altro, come i criteri per cui uno Stato venga iscritto tra i promotori del terrorismo globale siano perlomeno opinabili.

Prendendo meglio in esame il concetto di guerra preventiva, essa non rappresenta una novità assoluta (si ricordi ad esempio la Guerra dei sei giorni del 1967 di Israele), anche se inedite e pericolose risultano modalità e conseguenze. Innanzitutto, agire in assenza di avvertimenti tattici significa svolgere un’azione preventiva contro un pericolo virtuale (gli errori del caso non sono escludibili a priori). In secondo luogo, il diritto preteso dagli Stati Uniti di monopolio decisionista nell’applicazione della guerra preventiva può rappresentare un precedente pericoloso, cui si potrebbero appellare, in seguito, altri Paesi. Infine, una guerra preventiva, se innescata, può portare a un’escalation devastante di violenza, considerando che la controparte è rappresentata da attori assolutamente non razionali e dunque disposti a tutto, anche al ricorso all’arma nucleare.

 

3.      Conclusioni

 

Gli Stati Uniti, dopo l’11 settembre, hanno perso un’occasione storica, tradendo le aspettative di coloro che speravano in un abbandono dell’unilateralismo e in un crescente consolidamento di un orientamento cooperativo. La selettività dell’interventismo americano, attuato attraverso coalizioni strumentali pagate cash, sostanzialmente in difesa dei propri interessi e con una marginalizzazione quasi totale delle istituzioni internazionali, denuncia un atteggiamento miope e arrogante, non più sostenibile in un mondo globalizzato.

 

 

Approfondimenti del dibattito

 

Numerosi e interessanti sono stati gli spunti offerti dalla discussione; dovendo necessariamente privilegiarne alcuni, si propongono di seguito alcune riflessioni ritenute particolarmente significative.

 

1.      Il relatore, approfondendo il concetto di ?Stati canaglia? (in particolare con alcune puntualizzazioni relative a Iran e Sudan), ha ribadito la compresenza e ineludibilità di aspetti pratico-economici e aspetti ideologici su scala planetaria, sottolineando il ruolo giocato dal petrolio nella costituzione di alleanze e schieramenti strategici.

2.      Benché molte scelte della politica estera americana risultino fortemente discutibili (come messo in luce nel corso della conferenza), viene individuato un chiaro elemento di fiducia nell’assetto democratico della società americana, la quale, nel corso della storia, ha prodotto e sviluppato sufficienti anticorpi per ovviare a possibili involuzioni autoritarie.

3.       Evidenziato con un certo rammarico il ruolo marginale delle istituzioni internazionali, si accenna a una proposta di riforma dell’onu, il quale potrebbe in futuro diventare un consiglio aperto soltanto ai governi di Paesi democratici, in base a criteri condivisi di ammissibilità.

   

 

 

 

           

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