Nel corso dell’incontro, introdotto dalla professoressa Simona Forti [docente di Filosofia politica presso l’Università del Piemonte Orientale], Carlo Galli ha ricostruito con precisione e profondità analitica la storia del concetto di democrazia.

Democrazia significa letteralmente ?potere del popolo?; di essa si parla fin dal quinto secolo a.C., e il termine percorre tutta la storia dell’Occidente, intersecandone molte delle esperienze e delle forme politiche concrete. Anche oggi è in pratica l’unico principio di legittimità politica. Non si tratta, tuttavia, di un concetto unitario; anzi, esso assume significati profondamente diversi nell’antichità, nella modernità e nell’età globale.

È nel mondo greco, instabile e frammentato, che nasce, per un fortunato concorso di cause storiche e geografiche,  il regime democratico, forma di governo per lo più aspramente criticata: il popolo può esercitare soltanto un potere disorganico, violento. In realtà, la democrazia degli antichi è definita dai suoi pochi estimatori, e in particolare nella forma che ha assunto con Pericle, come un governo dei molti (non di tutti), temperato e omogeneo ma non alieno dal riconoscere l’eccellenza, un governo della tolleranza dei costumi, dell’equilibrio senza reciproca esclusione fra privato (leggi scritte) e pubblico (leggi non scritte), della trasparenza (non c’è segreto militare) e dell’uguaglianza (isonomia) contro i privilegi e gli specialismi. Dai suoi detrattori, invece, la democrazia è definita come il governo dei malvagi, dei mal nati, dell’incompetenza, dei poveri che lavorano e che sono animati dal desiderio di arricchirsi a danno di chi ricco lo è già. Nella Repubblica, Platone definisce la democrazia come il governo delle opinioni e della demagogia, non della verità; ma la conoscenza del vero, egli sostiene, è sempre necessaria perché vi sia ?eunomia‘, buon ordine. Per Aristotele, essa è il governo dei liberi opposto al governo dei ricchi; il suo rischio è la demagogia, ma può essere anche il governo della legge; sociologicamente, rappresenta il governo della medietà economica.

Più in generale, la democrazia antica si iscrive nel rapporto polemico con l’aristocrazia: il popolo è solo una parte della città (i molti contro i pochi); e il governo nella polis è diretto, non rappresentativo, organizzato per rotazione, sorteggio o scelta. Nonostante le molte assonanze, la democrazia moderna è profondamente diversa: nella modernità, il popolo non è solo una parte, ma è la totalità degli individui, ed è la fonte della sovranità. La democrazia moderna non è una forma di governo (che è solo potere esecutivo), ma una forma di Stato, è la sovranità formale e rappresentativa; essa si ha quando il potere è il potere di tutti, quando il potere unitario rappresenta la totalità dei cittadini. Si può parlare di democrazia, osserva il relatore, quando non si obbedisce a nessuno, o meglio quando si obbedisce a una legge che non è riconducibile a nessuno in particolare, ma a tutti i cittadini. Se il potere è un potere personale, parziale, si parlerà propriamente di regime autoritario. Nello Stato di diritto, come si venuto configurando soprattutto a seguito della Rivoluzione francese, l’esecutivo è inferiore rispetto al potere legislativo; esegue, appunto, mentre a legiferare è la collettività tutta, attraverso i suoi rappresentanti. Per il razionalismo politico moderno la democrazia degli antichi è dispotismo,  perché unisce legislativo ed esecutivo e perché non è rappresentativa, cioè non ha una volontà comune universale e unitaria. Nei regimi democratici il popolo ha un enorme potere nella fase costituente, conclusa la quale, esso riconosce la validità delle leggi, a prescindere dai partiti che le promulgano. Dinnanzi al potere costituito il popolo non ha diritto di resistenza; non si può, infatti, resistere a un potere legittimato a priori.

La storia pratica della democrazia moderna nasce con la Rivoluzione francese. A suo fondamento vi sono i valori di libertà ed eguaglianza di fronte alla legge, l’idea di una volontà unitaria e l’istanza rappresentativa. Ma fondamentale è anche il ruolo delle nuove dinamiche economiche. Il capitalismo smuove profondamente la società, avendo inscritto nella propria logica di espansione l’inclusione di strati sempre più ampi della società. Da subito, tuttavia, si palesano profonde criticità. Nella Questione ebraica, ad esempio, Marx afferma che la democrazia dello Stato borghese non è una democrazia autentica; essa si fonda sull’uguaglianza astratta e formale di tutti di fronte alla legge, ma non si pone in alcun modo il problema della disuguaglianza sostanziale delle condizioni di vita; ciascuno è abbandonato a se stesso, in una società disgregata e atomizzata. L’autentica emancipazione dell’uomo presuppone la fine della statualità borghese. Evidentemente, l’obiettivo che si pone Marx, e che poi si porrà anche Lenin, con la sua ambizione di dare il potere al popolo senza alcuna mediazione, è quello di risolvere tutte le contraddizioni sociali, mentre i regimi democratici si proporranno in termini più concreti di neutralizzarle, di depotenziare il conflitto che esse possono generare.

La disparità delle condizioni sociali è, in effetti, un problema fondamentale nelle democrazie moderne, che hanno risposto con la mediazione partitica e con il graduale ingresso delle masse nello spazio politico. Ma questo aspetto, unitamente alla progressiva centralità del lavoro e all’espansione prodigiosa della tecnica, ha posto altre rilevanti questioni, come la progressiva riduzione dei margini di autonomia individuale, una crescente instabilità e una conflittualità diffusa. Questioni che, condotte fino alle estreme conseguenze, sono a fondamento delle derive totalitarie, nelle quali la critica della democrazia come unità formale si rovescia nella pratica in politiche iperpolemiche (contro il nemico interno) e infine disumane, e che sono comunque rimaste costantemente al centro delle preoccupazioni delle liberaldemocrazie e delle socialdemocrazie del XX secolo.

Se la classe sociale, da un lato, e il popolo-nazione, dall’altro, sono stati i due principali miti che hanno messo profondamente in discussione il formalismo del modello democratico, il trionfo di questa forma di governo si è avuto, secondo il relatore, con il compromesso socialdemocratico, che ha reso effettiva la democrazia, rendendola ?sociale’ e integrando il lavoro e le masse (precedenti fattori di crisi) nell’unità politica. Il prezzo che si è dovuto pagare, però, è stata una radicale neutralizzazione: la politica si è posta al seguito della tecnica e soprattutto dell’economia della produzione  e del consumo, e i regimi democratici hanno fondato la loro legittimazione non solo sul voto dei cittadini, ma anche sul benessere diffuso e sui consumi standardizzati e massificati, con esiti anche molto negativi (apatia,  anonimato, anomia). Per questo, nella concezione attuale della democrazia il fatto che i cittadini abbiano un ruolo attivo è un fattore prioritario; essa presuppone una vita associata consapevole e partecipata; ed era questa, del resto, l’aspirazione che si è incarnata nella nostra Costituzione, costretta oggi a subire pericolose mutilazioni e impropri stravolgimenti.

La riflessione conclusiva del relatore è dedicata al riepilogo delle principali criticità della democrazia contemporanea, che soffre della profonda crisi dei suoi stessi presupposti: lo Stato nazionale ha subìto, in conseguenza dell’incontenibile processo di globalizzazione, un forte ridimensionamento della sua sovranità; i margini della libertà individuale si restringono sempre più e il senso critico è abbattuto; il capitalismo esaspera le sue contraddizioni, massimizzando le disuguaglianze e determinando sempre nuove servitù. Nel complesso, oggi la democrazia è messa a rischio come costruzione e controllo dell’ordine politico da parte del soggetto e del popolo. Si è sempre più spesso governati da forze personali ed impersonali non-democratiche: aumentano il dominio, l’alienazione, la marginalità, la casualità della vita. La questione principale consiste, allora, nel comprendere se l’attuale crisi della democrazia sia espressione della sua consueta capacità di espansione, di integrazione, di autocorrezione; o se invece non lo sia più, e sia invece in atto un cambiamento irreversibile. Quel che è certo che i molteplici fattori di instabilità, sia a livello interno, sia nella politica internazionale (con i miopi tentativi di esportare la democrazia con le armi), rendono necessaria una profonda ridefinizione di tutte le tradizionali categorie politiche e rendono sempre più urgente il progetto di una democrazia postmoderna, che non sia anche postdemocratica, ma che sappia al contrario porre le condizioni ottimali perché ciascun individuo fiorisca e realizzi le sue potenzialità. Il fatto che il paradigma moderno della democrazia sia in crisi non significa affatto che non possano esistere alternative credibili; la nostra capacità di inventare non può essersi ancora esaurita.

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