Nel corso dell’incontro è stato presentato e discusso il volume di Giorgio Barberis e Marco Revelli Sulla fine della politica. Tracce di un altro mondo possibile, appena edito da Guerini. Tale pubblicazione prende spunto da una precedente esperienza, ovvero il sesto Quaderno dell’Associazione Cultura & Sviluppo, curato dagli stessi autori e presentato in Associazione nel mese di marzo di quest’anno.

 

Giorgio Barberis, che ha preso la parola per primo, ha ricordato anzitutto come il volume rappresenti, appunto, una significativa ripresa e rielaborazione dei contenuti dell’ultimo Quaderno dell’Associazione, con uno sforzo di concretizzazione del discorso più evidente e circostanziato, palese soprattutto nel capitolo conclusivo. A ciò si aggiunge una volontà precisa di raccogliere e sistematizzare sia le sollecitazioni provenienti dai precedenti contributi di relatori ospiti dell’Associazione – sintetizzati e presenti nel Quaderno – sia le numerose testimonianze, anche critiche, giunte da parte di chi ha letto la prima pubblicazione.

Il tema portante del primo capitolo – ?La politica alla fine della politica? – è lo stesso del saggio introduttivo del Quaderno, sottolineato e ribadito con maggior forza e intensità, ovvero la crisi profonda e irreversibile attraversata oggi dalla politica, perlomeno nella sua accezione tradizionale. Il paradigma politico della modernità, basato sul monopolio statale della forza e sull’uso legittimo della violenza per garantire l’ordine sociale, è definitivamente e storicamente superato, come testimoniano le cronache quotidiane di violenza e di orrore caratterizzanti questo inizio di millennio. Che fare allora di fronte a un mondo in cui instabilità, paura e disordine sembrano moltiplicarsi su scala planetaria? Come contrapporsi a questo sfacelo? Innanzitutto bisogna sforzarsi di comprendere ciò che sta accadendo.

A tal proposito, Barberis introduce alcune parole-chiave che possono favorire questo percorso di comprensione. La prima di tali parole è crisi, una crisi evidente e profonda in tutti i diversi ambiti sociali: dal collasso delle forme tradizionali della politica – che non solo non assolve più il suo compito, ma è stata prepotentemente ridimensionata e marginalizzata dall’economia e dalla finanza – alla perdita di legittimità e di credibilità dei partiti politici, dalla crisi dell’attuale modello di sviluppo – fondato su una distribuzione delle risorse iniqua e inaccettabile – alla profonda trasformazione del mondo del lavoro (con la fine del modello fordista e un processo di crescente frammentazione e precarizzazione), dalla crisi del legame sociale alla complessa ridefinizione delle identità individuali e collettive, dall’emergenza ambientale-ecologica all’inadeguatezza delle istituzioni formative.

Una seconda parola-chiave che descrive bene la realtà che stiamo vivendo è contraddizione. Il Novecento è stato il secolo delle contraddizioni e la nostra epoca reca ancora con sé molte di queste ambivalenze (dal riconoscimento dei diritti umani all’affermazione dei totalitarismi, dal benessere di una parte del mondo alla fame e a una profonda disuguaglianza dell’altra parte, da uno sviluppo tecnologico senza precedenti alla potenziale distruttività delle sue applicazioni).

Tutte queste negatività, tuttavia, sembrano preparare un mutamento epocale, un vero e proprio ?salto antropologico?, ovvero un cambiamento radicale dei rapporti tra gli uomini, fondato non più sulla violenza e sulla prevaricazione, ma sulla solidarietà e sulla condivisione. L’ultima parola-chiave introdotta è dunque possibilità: un altro mondo è possibile; non si può più accettare passivamente e legittimare il perdurare di situazioni drammatiche e devastanti.

La pre-condizione indispensabile per tale mutamento è l’abdicazione consapevole e risoluta dell’uso della violenza, dell’esercizio del potere e delle logiche di potenza, caratterizzanti il paradigma politico della modernità (nato con la riflessione hobbessiana), ormai definitivamente tramontato. Solo attraverso la rinuncia esplicita alla violenza si può guardare con una qualche fiducia al futuro e tentare di costruire un mondo diverso, più giusto e più libero.

Se questa analisi di instabilità e di crisi a livello globale è generalmente condivisa – sia dall’uditorio presente in sala sia in altri contesti in cui le tesi del libro sono state presentate e discusse – alcune perplessità generano e hanno generato le proposte e le modalità per arrivare alla definizione di quell’altro mondo possibile di cui si è detto sopra.

A tal proposito, il terzo capitolo del volume, scritto da Giorgio Barberis, tenta di entrare nel merito delle soluzioni praticabili, premettendo come le argomentazioni di fondo si basino sia su un’evidenza empirica, ovvero su un’analisi e uno studio dei fatti sotto gli occhi di tutti, sia su opzioni di natura valoriale. In tal senso sarebbe perlomeno riduttivo pensare al nostro mondo come al migliore dei mondi possibili, senza sforzarci di considerare, per esempio, la cooperazione come alternativa alla competizione, oppure forme di partecipazione democratica più efficaci dei sistemi rappresentativi liberali. Come ha scritto Balzac nelle Illusions perdues, «la rassegnazione è un suicidio quotidiano». Che fare allora per tentare di reagire? Le strade sono diverse e, malgrado la loro incompletezza e parzialità, esistono già molte proposte concrete, alcune praticate con successo. Ad esempio, l’annullamento o la riduzione del debito dei Paesi in via di sviluppo, accompagnato da una progressiva estensione in loco degli investimenti economici da parte dei Paesi industrializzati, la tassazione dei capitali finanziari e delle rendite immobiliari, l’introduzione del reddito minimo di cittadinanza, le esperienze di democrazia partecipativa, la tutela e lo sviluppo del commercio equo-solidale, della finanza etica, del microcredito, il sostegno a politiche ambientali innovative, il rifiuto della tutela rigida del diritto di proprietà intellettuale e, di contro, la possibilità di favorire il libero accesso alla conoscenza. Ovviamente ogni proposta ha dei limiti, tutto è discutibile e non esistono ricette preconfezionate; tuttavia è fondamentale continuare a cercare, esercitando, ogni qualvolta sia possibile, un pensiero critico e non rassegnandosi mai ad accettare una realtà che ci disgusta.

 In conclusione Barberis, in termini puramente esemplificativi, ha esplicitato il suo ideale di approdo futuro – una società più giusta e solidale, liberata dal bisogno, dalla scarsità e dal conflitto, coincidente con l’idea marxiana di un regno post-storico delle libertà: ?Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni? (K. Marx, Critica al programma di Gotha). 

 

Ha preso quindi la parola Maurilio Guasco, introducendo alcune considerazioni preliminari. Innanzitutto ha osservato come sia andato mutando nel tempo il concetto di sviluppo economico. L’economia dello sviluppo è un settore di ricerca nato quando il tramonto del colonialismo impose all’attenzione dei politici e degli studiosi l’enorme dislivello esistente tra il reddito degli abitanti di una piccola parte del mondo e quello di tutti gli altri. All’inizio, subito dopo la decolonizzazione, la teoria dello sviluppo sosteneva ottimisticamente che lo sviluppo dei Paesi occidentali ricchi avrebbe in qualche misura trainato anche i Paesi sottosviluppati. Quando risultò chiaro, già a partire dagli anni Sessanta, che la prospettiva di un imminente decollo del terzo mondo si allontanava sempre più e che il modello occidentale di sviluppo non era applicabile automaticamente, il pessimismo dello sviluppo venne raccolto da molti teorici che lo sistematizzarono nell’approccio della dipendenza. La tesi centrale della teoria della dipendenza è che sviluppo e sottosviluppo sono fenomeni strettamente connessi fra loro, aspetti del medesimo processo storico. Lo sviluppo è alimentato dal sottosviluppo, e il sottosviluppo è indispensabile allo sviluppo degli altri, cioè i Paesi ricchi.  Finalmente, negli anni Novanta, le Nazioni Unite hanno ufficializzato un nuovo approccio ai problemi dello sviluppo, abbandonando la visione riduzionista-economicista dell’aumento del reddito pro-capite, e sottolineando la necessità della misurazione di variabili quali istruzione, sanità, diritti civili e politici. Si è aperta dunque la strada al riconoscimento di diritti realmente universali, anche se rimane un grosso interrogativo: come garantirli a livello internazionale?

Entrando più nel merito delle molte questioni sollevate dal libro, Guasco ha ribadito come la tesi di fondo sia sostanzialmente la seguente: un altro mondo è possibile e può essere realizzato. Ma in che modo?

Tre sono i punti presi in esame: la ribellione e la disubbidienza; la proposta di modalità di pensiero alternative; la riflessione su alcune realizzazioni già avvenute. Se si legittima il rifiuto totale della violenza, come più volte ribadito dagli autori, la ribellione non può che essere pacifica. A questo proposito Guasco esprime, con malcelata ironia, qualche perplessità su alcuni gruppi no-global e sull’abdicazione convinta ed estesa della violenza come strumento di protesta.

Relativamente alle ultime due questioni, esistono effettivamente tentativi più o meno riusciti di dare vita a qualcosa di diverso. Basti pensare a Porto Alegre e all’esperienza del suo bilancio partecipativo – citato nel volume a p. 125 -, introdotto nel 1989 a seguito della vittoria del Partito  dos Trabalhadores per cercare di risolvere i problemi di corruzione e di clientelismo. Secondo Guasco, la posizione attuale del presidente Lula, indagato per corruzione, i suoi legami con i liberali inseriti nel governo e il recente incontro con Bush, gettano molte ombre su questa esperienza. Molti movimenti di opinione, finché non ricevono un imprimatur istituzionale, sembrano mancare di forza operativa, ma spesso,  se mutano natura e vengono ufficialmente riconosciuti e imbrigliati dal potere, rischiano di essere sopraffati dal potere stesso.

Se questa rimane comunque la strada, i problemi di carattere internazionale sono i più rilevanti e la scommessa determinante per il futuro riguarda proprio la capacità di gestire a livello globale la complessità di singole esperienze.

 

Marco Revelli ha esordito riprendendo alcune riflessioni introdotte da Giorgio Barberis. Non c’è dubbio che ci troviamo di fronte un mondo caratterizzato da profonda iniquità e ingiustizia. Le piaghe del nostro pianeta sono purtroppo assai note (mortalità infantile, fame nel mondo) e i numeri parlano da sé. Il sistema per ovviare  a tutto ciò non sarebbe di per sé proibitivo. Un prelievo fiscale del 4% sul reddito dei 350 uomini più ricchi del mondo (1000 miliardi di dollari complessivamente) sarebbe sufficiente per liberare il mondo da questo orrore, più volte richiamato. Stupisce che nessun politico abbia mai considerato un’operazione del genere o abbia mai pensato di inserire nella propria agenda la possibilità di una microdistribuzione del reddito.

In effetti la politica oggi tace. Si è parlato a tal proposito di una fine della politica, intendendo per fine non una scomparsa della politica stessa, quanto piuttosto una sua delegittimazione e una perdita degli elementi di valore che l’hanno contraddistinta in passato. Analoga osservazione può essere estesa al lavoro. Lavoro e politica hanno smarrito quegli elementi salvifici che avevano legittimato entrambe le sfere nel corso del Novecento. Il lavoro, vero protagonista in passato della vita pubblica, elemento reale di socializzazione e di dialettica, è finito.

Come il lavoro non promette più socialità ed emancipazione, riducendosi a spazio della competitività, così la politica non garantisce ordine sociale e sicurezza. La politica, come detto, nata per porre fine alla violenza e autolegittimatasi quale luogo di pacificazione, è tristemente diventata un moltiplicatore dell’odio, del disordine, della guerra. Ci troviamo a vivere una fase storica di profonda trasformazione della nostra cultura, di vera e propria ? dice Revelli ? Apocalissi culturale, in cui le categorie interpretative del passato non solo perdono di senso, ma diventano contraddittorie, assumono quasi il carattere dell’ossimoro. La guerra, ad esempio, è lo spettacolo vergognoso che la democrazia occidentale mette in scena, formalmente autogiustificandosi, ma realmente finendo per negare se stessa. Gli esempi sono tanti. Revelli ha ricordato un fatto di attualità molto discusso, il dibattito pubblico intorno alla tav, sottolineando come, aldilà delle opinioni individuali, sarebbero necessarie risposte tecnicamente più convincenti alle osservazioni critiche sollevate (impatto ambientale, strumenti legislativi che si pensa di introdurre per assicurare che una volta compiuta l’opera ? tra quindici, vent’anni ? il traffico merci si sposti realmente dalla strada alla rotaia,  analisi economiche di comparazione costi-benefici, ecc.). In realtà il dato che sembra emergere con più evidenza è che i politici decisori – gestori ormai di flussi finanziari a breve termine che non conoscono e non governano, slegati dal proprio territorio in evidente rottura con il principio di rappresentanza – sono sostanzialmente poco interessati a logiche che rimandano al futuro, incapaci di guardare lontano, oltre il raggio del proprio mandato. Anche in questo fatto si può rilevare il segno della fine della politica, intesa nella sua accezione più nobile. Se tuttavia la sensazione è che dall’interno della sfera politica non arrivino segnali promettenti, si impone lo sforzo di uscire da una logica autoreferenziale e di guardare al problema da un’altra prospettiva.  In questo senso la cultura può rappresentare un valore liberatorio, può aiutarci a uscire dal cerchio chiuso che la politica in crisi ha stretto intorno a noi. Lo spazio globale, che la tecnologia ha configurato, va riempito di contenuti etici, morali. La sfida che ci attende consiste principalmente nella volontà di costruire un modo nuovo di fare politica, che rinunci innanzitutto all’uso della violenza e che si fondi non più sulla verticalità del potere, ma sulla relazionalità, sulla socialità, sulla cooperazione.

 

A questi interventi, sono seguite altre riflessioni e numerose richieste di chiarimenti da parte del pubblico. Purtroppo il tempo a disposizione non è stato sufficiente ai relatori per rispondere in maniera completa e circostanziata a tutte le domande. Riassumiamo comunque qui di seguito le questioni più significative emerse durante la seconda parte della serata.

 

Rapporto etica/politica

La politica non deve identificarsi con l’etica – su questo aspetto si fondano i totalitarismi e i fondamentalismi -, ma deve comunque fare i conti con le categorie etiche non come inveramento del processo storico, ma come principio di responsabilità. Oggi il politico si misura solo sui risultati di successo economico, rinunciando alla propria autonomia e in chiara rottura con il principio di rappresentanza, ovvero di tutela e di rispondenza ai propri territori.

 

Fine della politica, fine del lavoro, ovvero fine della modernità

Marco Revelli ha richiamato a tal proposito le tesi del sociologo Ulrich Beck. Ci troviamo oggi a vivere una  ?seconda modernità?: ciò indica non soltanto un cambiamento strutturale – una crisi del ?moderno? -, ma rappresenta un cambiamento radicale, il tentativo di sviluppare un nuovo quadro di riferimento concettuale. In sociologia dobbiamo abbandonare vecchie ?categorie? – come la famiglia nucleare, oppure la classe sociale, la società industriale, il mercato del lavoro salariato, di massa – e fare i conti con le conseguenze di questo abbandono. Viviamo in un mondo di rischi creati da noi stessi e spesso non ne siamo affatto consapevoli.

 

Rapporto politica/istituzioni

I relatori hanno sottolineato come la critica violenta alla politica attuale, non si ponga in contrapposizione all’importanza e alla difesa delle istituzioni, malgrado sia evidente la constatazione dell’incapacità delle istituzioni vigenti a gestire la complessità attuale. Sicuramente la statualità moderna ha prodotto cose buone, i diritti, le Costituzioni, il cui valore è indiscutibile; tuttavia, oggi, quel modello non funziona più;  c’è la necessità di andare oltre, di dare vita a un altro mondo possibile.

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