“Questo è un volume che raccoglie un quadro complessivo attendibile e significativo della giustizia penale italiana. Si parla della riforma Cartabia. Da parte dei cittadini c’è una sensibilità nei confronti della giustizia penale percepita sempre più distante e ciò allontana il cittadino da uno dei poteri dello Stato. Occorre trovare soluzioni perché il vero significato della giustizia penale è la risoluzione del conflitto”. La professoressa Serena Quattrocolo, ordinario di Diritto processuale penale e direttore del Dipartimento di Giurisprudenza, Scienze Politiche, Economiche e Sociali dell’Università del Piemonte Orientale, ha introdotto così la serata che ha preso spunto da Giustizia per nessuno. L’inefficienza del sistema penale italiano tra crisi cronica e riforma Cartabia, scritto da Mitja Gialuz e Jacopo Della Torre, rispettivamente professore ordinario e ricercatore di Diritto processuale penale presso l’Università di Genova. Insieme a loro, sono intervenuti anche Giulia Boccassi, avvocato del Foro di Alessandria, e Alessandro Provera, ricercatore di Diritto penale presso l’Università del Piemonte Orientale.

Quattrocolo e Gialuz sono stati tra i componenti della Commissione Lattanzi, nata per elaborare proposte di riforma in materia di processo e sistema sanzionatorio penale, in materia di prescrizione del reato, attraverso la formulazione di emendamenti al Disegno di legge recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le corti d’appello.

“Stavamo studiando questi temi da diversi anni e abbiamo cercato di rispondere ad alcune domande: da quando la giustizia penale è in crisi, perché e come cercare di rimediare. La terza risposta è arrivata dal legislatore” ha spiegato Jacopo Della Torre. La giustizia penale è in crisi da sempre, già Guicciardini (1483 – 1540) scriveva della crisi della giustizia e sempre più di frequente se ne parlava nell’800. Appena dopo l’unità d’Italia, nel 1865, il codice di procedura penale fu criticato per la sua inefficienza. Iniziò subito una riforma che porto ad un nuovo codice nel 1913 ma anche anche dopo questo codice le critiche rimasero. Anche il fascismo lo criticò. Gli stessi problemi si manifestarono con il Codice Rocco. Il nostro codice di procedura penale è del 1988, nato con l’idea di attuazione della carta costituzionale e la carta dei diritti umani e per ridare efficienza ad un sistema entrato in crisi. Era iniziato un percorso di certificazione europea della crisi con le condanne della Corte dei diritti del uomo per la lunghezza dei processi. Si evidenziava la necessità di uomini e mezzi. Nel corso degli anni 90 è venuto meno lo strumento clemenziale. Prima il sistema funzionava anche per una serie di amnistie e indulti (l’ultimo nel 2006). Si voleva fare ricorso a riti alternativi senza la concorrenza sleale delle amnistie, ma poi la prescrizione ha avuto un boom ed è un’altra forma di concorrenza. La Cassazione ha creato l’inammissibilità dei ricorsi e ha gestito la propria efficienza, ma nel primo e secondo grado rimane il problema. Ci sono anche molte assoluzioni. Il problema principale è la mancanza di persone, sia tra i giudicanti sia nel pubblico ministero, specialmente con l’obbligatorietà dell’azione penale. Anche le sedi giudiziarie sono spesso in pessime condizioni.

“La giustizia penale è anzitutto un servizio pubblico, il Ministero della Giustizia in collaborazione con il Consiglio superiore della magistratura deve garantire efficienza servizi della giustizia – ha detto Mitja Gialuz – In Italia i processi hanno durata di tre-quattro volte la media europea in primo grado, sei-otto volte in secondo grado, la lunghezza irragionevole nega tutti i diritti perché la durata è identità del giusto processo. Se la giustizia penale non funziona, non rende giustizia né all’imputato né alla vittima, né alla comunità che ha diritto di sapere”.

Lo stimolo è arrivato dall’Europa. Tra le condizioni del Pnrr (il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) c’era l’impegno a ridurre del 25 per cento il disposition time (la misura di durata utilizzata a livello europeo). La riforma Cartabia ha portato avanti l’idea di non modificare solo le norme ma di supportare le modifiche con investimenti significativi e con innovazioni strutturali e organizzative, come l’assunzione di addetti all’ufficio per il processo, la digitalizzazione, la razionalizzazione della domanda di giustizia. Secondo il professor Gialuz, con le risorse attuali non si può pensare all’attuazione rigorosa dell’obbligatorietà dell’azione penale. Serve un approccio integrato. La riforma agisce anche sulle sanzioni, la pena pecuniaria è fondamentale in alcuni ordinamenti ma in Italia è poco applicata e poco riscossa (meno del 5 per cento) ma riduce il numero di detenuti. Un elemento rivoluzionario è l’introduzione della giustizia riparativa.

“Come avvocato posso raccontare il quotidiano della giustizia – ha detto Giulia Boccassi – la ragionevole durata del processo è stata la scusa per fare riforme poco ragionevoli. Il punto cruciale della riforma Cartabia è quello di ridurre del 25 per cento la durata del processo”. Ma perché il processo dura tanto? Secondo una visione populista la giustizia è troppo lenta per l’eccesso di garanzie. Ma esistono cause fisiologiche, come l’ammissione delle prove, l’ascolto dei testi, l’udienza di discussione, e cause patologiche quali l’assenza dei testi del pm, l’omessa notifica all’imputato, l’assenza del giudice titolare. È per questi rinvii che si deve trovare una cura, non è eliminando le garanzie che il processo sarà più veloce.

Per quanto riguarda la pena del carcere, l’avvocato ha ricordato che il tasso di suicidi tra i detenuti è 18 volte superiore rispetto alla popolazione libera e il fenomeno colpisce soprattutto i giovani e le persone in custodia cautelare. “Il sistema ha preso la strada della tolleranza zero, si invoca la pena esemplare. Scommettere sul carcere ad ogni costo per la politica è uno strumento di consenso immediato, ma il carcere deve essere recupero sociale”.

Negli ultimi anni c’è una spiccata predilezione per la pena detentiva e la scomparsa della pena pecuniaria, considerata un’alternativa non credibile. Inoltre la certezza della pena non equivale alla certezza del carcere. Il processo efficiente anche nella fase esecutiva è costoso economicamente, socialmente e non riduce il rischio di recidiva. Le sanzioni sostitutive delle pene brevi sono la pena pecuniaria, la detenzione domiciliare e il lavoro di pubblica utilità. La carcerazione deve essere extrema ratio. Con la riforma la pena carceraria residuale sembra a portata di mano.

Il reato è uno strappo nel tessuto sociale. Esiste uno strumento diverso che può correre parallelo al processo? La giustizia riparativa è strumento nuovo e inatteso. Ne ha parlato Alessandro Provera: “Efficienza non vuol dire solo celerità ma rispetto dei diritti fondamentali. L’equilibrio non è impossibile. L”introduzione della giustizia riparativa nella riforma è una svolta epocale. Esistevano alcuni istituti come le condotte riparatorie e la sospensione del processo con messa alla prova. Ma non si sono avverate completamente. Non possiamo permetterci che il sistema sia carcerocentrico, la giustizia riparativa serve anche a questo”.

La giustizia riparativa può essere applicata a tutti i reati. Appare come un perdono ma non è così. È un incontro tra l’autore del reato, la vittima e la comunità di riferimento ed è da considerare come un avvicinamento tra il mondo del reo e della vittima che si può risolvere in un conflitto ricomponibile o un un dissidio non componibile. Tutte le parti cercano di eliminare le conseguenze del reato nel rapporto di relazione e con la società. Deve nascere una nuova relazione e nuova alleanza tra le due persone e la comunità con una azione formale da parte dell’autore del reato o con attività materiale volta all’eliminazione delle conseguenze dannose e pericolose.

Ci sono modelli diversi. Si può procedere per linee parallele: il processo penale fa la sua strada, e c’è un percorso volontario intrapreso tra l’autore del reato e la vittima. L’alternatività totale è modello radicale: se reo, vittima e comunità portano a termine il percorso con esito positivo, si estingue il reato. La riforma Cartabia sceglie il modello dell’emersione puntiforme nell’ambito del processo penale: la giustizia riparativa non porta mai all’estinzione dei reati a cui si applica.

La vittima e il reo possono scegliere di partecipare e non c’è nessun tipo di ammissione di responsabilità. L’incontro è garantito dal mediatore che agevola e si limita a far incontrare le persone ed è formato dal punto di vista giuridico, culturale e filosofico. Questa soluzione può portate alla remissione di querela, a volte impedita dall’acredine tra le parti, o a favorire pene sostitutive, permette di ricomporre il rapporto tra imputato e persona offesa e serve per la funzione di risocializzazione.

Il professor Gialuz ha ricordato che anche dopo la condanna rimane la necessità di capire perché una persona è stata vittima e la risposta arriva solo dall’incontro. La giustizia riparativa è diversa dalla riparazione patrimoniale per evitare che chi ha mezzi economici possa cavarsela pagando: è un incontro tra autore o presunto autore del reato e vittima che può portare ad un esito riparativo simbolico o un impegno a favore della collettività di riparare la ferita.

Qui potete rivedere l’incontro