Sintesi della relazione della prof.ssa SIMONA FORTI (Docente di Filosofia Politica presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università del Piemonte Orientale) e del prof. pier paolo portinaro (Ordinario di Filosofia Politica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino).

                                                     

Uno dei concetti più frequentemente utilizzati nella riflessione sul Novecento è senza dubbio quello di totalitarismo, al quale la prof.ssa Simona Forti, nostra ospite, ha dedicato un significativo saggio, recentemente pubblicato per i tipi di Laterza [S. Forti, Il totalitarismo, Editori Laterza, Roma-Bari 2001]. Ripercorrendo per sommi capi la struttura del libro, la relatrice ha dapprima delineato sinteticamente l’origine del concetto, ne ha analizzato il percorso storico e le diverse interpretazioni, e ha infine concluso il suo intervento ponendo alcune domande fondamentali suggerite dalla sua lettura del fenomeno totalitario, in parte riprese e sviluppate successivamente nel dibattito. È stato sottolineato in particolare come quella di totalitarismo sia stata e sia ancora una delle categorie più controverse, e con maggiore potere mobilitante, della discussione storica, filosofica e politologica sul secolo appena concluso. Tuttavia, dopo decenni di battaglie ideologiche, e dopo un periodo di relativo silenzio, è forse giunto il momento opportuno per ridefinire la «questione del totalitarismo», sottraendola alla sua continua oscillazione tra banalizzazioni e rifiuto.

Riferito soltanto ai regimi politici del Novecento, il termine designa una forma politica in cui un partito unico ha ottenuto il monopolio del potere statale e ha assoggettato la società nel suo complesso, annullando ogni spazio per un effettivo pluralismo, facendo continuo ricorso ad un uso capillare e terroristico della violenza e assegnando un ruolo centrale e decisivo ad un’ideologia. Su questa definizione minima vi è un sostanziale accordo; più problematico, invece, è stato individuare quali esperienze storiche concrete possano essere definite totalitarie, e distinguere tra il valore euristico di un concetto nuovo, in grado di definire una realtà politico-sociale peculiare al secolo appena concluso, ed il suo uso, ed in molti casi abuso, come arma del dibattito ideologico della guerra fredda, in particolare come strumento di delegittimazione del comunismo.

Il contributo decisivo nella chiarificazione del termine è senza dubbio il saggio di Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, pubblicato per la prima volta nel 1951, e da allora divenuto punto di riferimento obbligato per tutte le successive riflessioni sul fenomeno, in ogni ambito disciplinare. Nel saggio è asserita con fermezza la piena comparabilità di nazismo e stalinismo, individuati come riferimento storico obbligato della categoria di totalitarismo, di cui si ricostruisce primariamente una sorta di archeologia storica, volta a ricercarne le premesse nelle contraddizioni più evidenti dell’epoca moderna (l’Antisemitismo, l’Imperialismo), e di cui si analizzano poi i tratti strutturali. I regimi totalitari hanno delle peculiarità che li differenziano dagli altri tipi di autoritarismo. Essenzialmente, loro imperativo fondamentale, del tutto contrapposto alle istanze conservatrici o restauratrici dei tradizionali regimi autoritari, è quello di modificare radicalmente la realtà umana, di ricrearla secondo gli assunti di un’ideologia che vuole essere l’espressione delle leggi eterne della natura e della storia, di dar vita all’«uomo nuovo», e di giustificare anche l’oppressione più violenta e i crimini più efferati con l’assoluta priorità di questo scopo. Il cuore del funzionamento totalitario, sottolinea la Arendt, è il campo di sterminio, in cui si vogliono sperimentare gli assunti ideologici del regime, in cui la discrezionalità del potere si realizza incontrastata, e il dominio è in senso proprio «totale».

A partire dal lascito arendtiano, a seguito della compiuta affermazione e diffusione del concetto, è stata elaborata una tipologia politica del potere totalitario, attenta ad individuarne e ad elencarne una serie di caratteristiche peculiari: un’ideologia ufficiale, un partito unico di massa, il controllo quasi monopolistico dei mezzi di comunicazione e degli strumenti di coercizione, un terrore diffuso, la direzione centralizzata dell’economia. I modelli di volta in volta elaborati, tuttavia, hanno progressivamente piegato la loro capacità descrittiva alla necessità ideologica della condanna del comunismo. La definizione sempre più formale e imprecisa di totalitarismo, infatti, venuta meno la barbarie nazista, è stata applicata al solo regime sovietico, contrapposto in termini radicalmente negativi alle liberaldemocrazie occidentali, di cui si evidenziano acriticamente solo i meriti, e di cui si sottolinea, in maniera implicita o esplicita, la superiorità assiologica. Secondo questa lettura, ulteriormente rafforzata dal collasso dei paesi del blocco socialista, il totalitarismo sarebbe soltanto una tragica parentesi nel cammino progressivo dell’Occidente. La relatrice, tuttavia, esprime alcune riserve su questa interpretazione eccessivamente semplicistica del fenomeno totalitario, e sottolinea anzi che vi sono letture del tutto contrapposte, che individuano nello sviluppo della modernità e della razionalità occidentale le premesse implicite dell’esperienza totalitaria.

In effetti, una parte fondamentale della riflessione della prof.ssa Forti, presentata nella terza e conclusiva parte del suo libro, riguarda proprio l’approfondimento delle diverse critiche filosofiche alla categoria di totalitarismo. Nel corso del nostro incontro non è stato possibile presentare compiutamente i singoli contributi; si è però sottolineata, insieme al fondamentale apporto teorico di George Bataille, Simone Weil e Emmanuel Levinas, l’originalità dell’interpretazione di alcuni pensatori francesi di formazione marxista, i quali, già negli anni Trenta, avevano aspramente criticato «da sinistra» il regime sovietico, contestandone appunto la natura totalitaria e liberticida. Letture come quelle di Boris Souvarine o di Victor Serge, ad esempio, mostrano come accanto ad un uso «liberale», vi possa anche essere un uso «libertario» della nozione di totalitarismo, che viene ad assumere un’evidente valenza critica e decostruttiva, ma per nulla conservatrice, e viene utilizzata non solo per demonizzare la burocratizzazione e l’involuzione del bolscevismo, ma anche per criticare le patologie dei regimi liberaldemocratici e per fornire alla cultura occidentale indispensabili elementi di autocritica.

Il confronto tra democrazia e totalitarismo, sottolinea conclusivamente la prof.ssa Forti, è in effetti alquanto problematico. La storia dimostra che anche in un regime democratico possono nascere e crescere forme più o meno compiute di totalitarismo, e che spesso il consenso della maggioranza è un elemento decisivo che accompagna e sostiene le derive totalitarie. Occorre dunque non banalizzare i rischi di sempre possibili involuzioni dei nostri regimi politici, e forse la categoria di totalitarismo può essere utile per monitorare le patologie del nostro presente. Ad esempio, ci si chiede, può questa categoria essere messa in qualche modo in relazione con un’altra categoria, altrettanto onnicomprensiva e altrettanto controversa, come quella di globalizzazione? Può servire a comprendere alcuni attuali meccanismi di produzione dell’unità politica, che ancora si poggiano sull’individuazione di una minaccia esterna e sulla mobilitazione ideologica?

 

L’intervento del prof. Portinaro si è articolato in tre punti distinti, strettamente correlati ai temi sviluppati dalla precedente relazione: in primo luogo, sono stati brevemente presentati il contenuto e la struttura del libro sul totalitarismo della prof.ssa Forti, di cui si è sottolineata la precisione nella ricostruzione storico-genealogica del concetto e la ricchezza e l’originalità nell’analisi delle diverse interpretazioni; è stata poi articolata un’ulteriore riflessione sui riferimenti, invero piuttosto problematici, all’esperienza storica e sulle definizioni di totalitarismo proposte dalla scienza politica; infine, è stato proposto un bilancio sulla categoria, mettendo in relazione le diverse interpretazioni politologiche, storiche e filosofiche del fenomeno così come si è presentato nel passato, con una possibile utilizzazione del concetto per comprendere alcune dinamiche politiche del nostro presente e del nostro prossimo futuro.

Dapprima, il relatore ha ricordato come il termine «totalitarismo» sia nato in Italia nei primi anni Venti tra gli oppositori del regime fascista, che quasi subito se ne è entusiasticamente appropriato per dare espressione al volontarismo onnipotente e all’enfasi rivoluzionaria propri della sua ideologia. È stata poi ribadita la centralità del contributo teorico di Hannah Arendt, vero e proprio spartiacque tra il precedente dibattito, svoltosi in particolare in Germania e in Francia tra gli anni Trenta e gli anni Quaranta, e le successive analisi della scienza politica, finalizzate alla costruzione di modelli e tipologie descrittive. Le origini del totalitarismo, che nelle sue prime due parti sviluppa i temi dell’antisemitismo e dell’imperialismo, senza alcun dubbio due pagine nere dell’Occidente, mostra come il fenomeno totalitario non sia da ricondurre alla barbarie asiatica, ma sia figlio delle nostre tradizioni culturali e della vita delle nostre democrazie. Ad essere tematizzata nelle pagine della Arendt è la questione decisiva del Male nella storia, e a connotare la modernità in una delle sue dimensioni più evidenti è proprio il tentativo, anzi, l’illusione di poter superare il male; il totalitarismo è forse l’illusione più radicale, ma anche la più compiuta ed evidente riaffermazione dell’impossibilità del superamento.

Dopo aver messo in guardia dal rischio concreto, a partire dalle conclusioni appena analizzate, di demonizzare arbitrariamente la tradizione culturale dell’occidente, trascurandone gli innegabili meriti, il relatore ha individuato e analizzato tre ragioni essenziali che hanno indotto molti studiosi a rifiutare il concetto di totalitarismo: anzitutto, il termine è stato guardato con sospetto per le sue evidenti compromissioni ideologiche, per essere stato cioè, come detto in precedenza, un’arma di delegittimazione del comunismo nel periodo della guerra fredda; ma è stato sottolineato come in realtà tutti i concetti politici abbiano di fatto un’origine polemica, problematica, e in qualche modo, per una loro più ampia utilizzazione, debbano essere «depurati».

Al concetto di totalitarismo, poi, è stata rimproverata un’eccessiva rigidità, ma al di là delle schematizzazioni più superficiali, vi sono aspetti e peculiarità che meritano di essere sottolineate: il totalitarismo, figlio della mobilitazione totale della prima guerra mondiale, si differenzia da ogni altro tipo di autoritarismo, dispotismo o cesarismo; l’obiettivo dei regimi totalitari, come già in precedenza sottolineato, è quello di una radicale trasformazione della realtà umana; ogni mezzo diventa lecito, anche il sistematico ricorso al terrore. Nuovi attori rivoluzionari conquistano il potere, mettono al loro servizio il guscio vuoto dello stato sovrano tradizionale, si avvalgono dell’enorme potenziale mobilitante e manipolante della tecnica ed eliminano ogni pluralismo, fino a riuscire ad avere un controllo totale della società.

Si osserva, infine, come il totalitarismo possa apparire un fenomeno storico chiuso, e pertanto non più utile ad interpretare il presente. Ma questa affermazione è problematica da diversi punti di vista. Anzitutto, per limitarsi ad un bilancio storico, resta da vedere quanti e quali siano stati i regimi totalitari propriamente detti, e se sia possibile un confronto fra realtà anche molto diverse. Ad esempio, è stata sottolineata da alcuni la specificità di Auschwitz, ma è opinione del relatore che al di là delle semplificazione interpretative, come ad esempio la lettura per molti aspetti impropria dello storico revisionista tedesco Ernst Nolte, sia pienamente legittima la comparazione tra nazismo e stalinismo. Anche relativamente ad una supposta chiusura del fenomeno storico, si avanza qualche riserva. Se, come ha sottolineato Hannah Arendt, condizione fondamentale dell’affermazione del totalitarismo è stata la produzione nell’Europa di inizio Novecento di masse di individui superflui, di apolidi, di individui senza appartenenza ricondotti al loro essere solo «nudi uomini», nel nostro tempo, in cui sempre più evidente e sempre più consistente è la sovrabbondanza e la superfluità di una grande quantità di esseri umani ai margini del mercato globale, la tragica possibilità di nuove esperienze totalitarie non è affatto da escludere

 




 

PRINCIPALI APPROFONDIMENTI DEL DIBATTITO

 

 

 

Il dibattito si è articolato su diversi punti tra i quali possono essere richiamati in particolare i seguenti.

 

 

a)      Ci si è interrogati sul nesso problematico tra il fenomeno della globalizzazione e il possibile riproporsi di dinamiche totalitarie, anche alla luce di un ruolo sempre crescente assunto dalla tecnica e dall’affermazione di un modo sostanzialmente omogeneo di interpretare il mondo contemporaneo. Si tratta tuttavia di fenomeni distinti, come ben sottolinea una metafora che è stata proposta all’attenzione dei relatori; dietro alla globalizzazione non si vedono le ambizioni di un profeta e la volontà di un capo; si intravede piuttosto la mano di un’apprendista stregone, incapace di controllare i fenomeni che ha messo in atto.

b)      Si è sottolineato come un aspetto determinante per l’affermazione dei regimi totalitari sia la risposta che essi in determinate circostanze hanno saputo dare al bisogno di sicurezza e protezione della maggioranza della popolazione, assumendo le caratteristiche di vere e proprie «religioni secolarizzate». Da un lato la ricerca continua di un sentire comune, dall’altro le istanze palingenetiche sono caratteristiche costanti di tutti i regimi totalitari.

c)      Ci si è domandati poi se il totalitarismo sia un fenomeno endemico dell’Occidente, se sia peculiare della nostra tradizione culturale, se abbia un legame inscindibile con la razionalità moderna e lo sviluppo della tecnica, o se sia invece applicabile in altri contesti e utile a spiegare realtà anche lontane. Ad esempio, pur ammettendo che integralismo e totalitarismo sono concetti con genealogie del tutto distinte e con caratteristiche peculiari, non è del tutto infondato definire alcuni regimi del fondamentalismo islamico come «totalitari». Sembra quindi che pratiche totalitarie siano state esportate e siano oggi presenti al di fuori delle democrazie occidentali, che tuttavia non sembrano essere del tutto immuni dal rischio di pericolose ricadute.

d)      Alla domanda specifica sulle possibilità di una riproposizione di pericoli di totalitarismo nell’ambito dei regimi politici liberaldemocratici contemporanei, si osserva che in diverse realtà si fa strada una nuova forma di populismo, in cui prevale un modello di democrazia di tipo plebiscitario. Tuttavia, non si può parlare, almeno per ora, di concreti rischi totalitari. La minaccia più seria sembra essere costituita da grandi crisi sistemiche, da grandi terremoti globali che possono aggravare le derive populistiche in atto e ricreare le premesse di un ritorno di forme più o meno compiute di totalitarismo.

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