Da almeno dieci anni si parla di transizione costituzionale. La questione può essere tematizzata almeno in due modi:

1.       La formulazione in astratto di modelli di ingegneria costituzionale, cioè la descrizione e la valutazione di possibili architetture giuridico-istituzionali alternative a quella attuale e della loro ricaduta sulla forma di governo;

2.       Lo studio delle cause della crisi del modello istituzionale proposto dal Costituente del 1948, a partire dalla ricostruzione delle origini storiche e culturali di quel modello, e l’osservazione dei mutamenti espliciti o nascosti oggi in atto.

 

Nella presente relazione adotterò la seconda delle prospettive di analisi appena enunciate, con un breve salto all’indietro – alle radici del costituzionalismo moderno – che ci permetterà di comprendere alcuni elementi significativi di quel modello e alcune ragioni della sua attuale crisi.

 

 

Breve excursus sugli antecedenti storici

 

 

Riandiamo alla fine del secolo XVIII. Lo spirito del costituzionalismo moderno è ben riassunto da una frase di Thomas Paine, il quale definiva la costituzione come l’atto giuridico di un popolo che si dà un governo. Poco tempo dopo Alexis de Toqueville (che in realtà riprende e fa sua un’affermazione da attribuire a uno dei padri costituenti della Costituzione americana) scrive che le costituzioni sono gli strumenti che un popolo si dà nel momento della saggezza per poterne far uso nei momenti della follia. Le due frasi richiamate attestano una concezione allo stesso tempo totale e consensuale della costituzione, come atto di tutto il popolo unito. La sua legittimazione deriva dal fatto che il popolo si riconosce nel testo costituzionale. Per questo, nei momenti conflittuali la costituzione resta il faro, il punto di riferimento indiscusso.

La costituzione è il prodotto della sovranità popolare costituente, e al tempo stesso è l’atto che disciplina tale sovranità, ponendo le regole al termine del processo rivoluzionario. Ogni popolo ha diritto di darsi le sue regole, ma poi la costituzione a sua volta regola e delimita la sovranità del popolo costituente, che si fa altrimenti potere incontrollato e minacciosamente onnipotente.

Nel secolo XIX le costituzioni si inaridiscono, riducono fortemente il loro carattere di norma fondamentale contenente tutti i principi fondativi dell’ordine sociale e politico, tendono a diventare semplici atti ricognitivi del patto tra le monarchie e le classi egemoni, contenenti la disciplina dei rapporti tra gli organi politici supremi. Le costituzioni dell’800, ad esempio, non contengono in genere le dichiarazioni dei diritti. I principi dominanti della società liberal-borghese dell’Ottocento sono piuttosto contenuti nel codice civile, dove si sancisce e si realizza un’idea di libertà essenzialmente come assenza di vincoli all’iniziativa economica e come garanzia dei rapporti patrimoniali.

Nel XX secolo torna in auge il concetto di Costituzione come atto del popolo sovrano. Il concetto di popolo sovrano è peraltro rivisitato alla luce di una società che è diventata pluralistica. La costituzione deve tessere la trama che regola i rapporti tra classi sociali potenzialmente in conflitto perché portatrici di interessi e valori non coincidenti o addirittura contrapposti. Ma torna a riproporsi la dialettica tra sovranità del popolo e sovranità della legge fondamentale (cfr. l’art. 1 della nostra costituzione, che bene esprime il tentativo di tenere in equilibrio i due elementi in tensione). Sono intanto nati i partiti politici di massa. Le costituzioni dell’800 erano oligarchiche, nel 900 la costituzione intende rappresentare le masse, attraverso la mediazione dei partiti. Il parlamento è lo strumento di regolazione della dialettica dei partiti, che impedisce la dittatura rivoluzionaria del popolo sovrano.

Si capisce così la scelta dei nostri costituenti di limitare l’uso del referendum, così come la scelta di una democrazia parlamentare, anziché di una repubblica presidenziale, che limita l’autonomia del governo.

Questo sistema costituzionale implica il riconoscimento, da parte dei partiti, del valore della Costituzione come atto ricognitivo di principi su cui tutte le forze politiche, in rappresentanza di tutti i settori della società, hanno trovato un comune terreno di compromesso.

 

 

Gli ultimi vent’anni: l’inizio della crisi

 

 

La crisi della costituzione non a caso comincia con la crisi dei partiti. Nei cinquant’anni di vita della costituzione c’è stato un atteggiamento collettivo di supporto alla Costituzione, ancorché non completamente attuata. A metà degli anni ottanta la costituzione ha però smesso di essere il punto di riferimento, e il parlamento a sua volta ha perso riconoscimento e legittimazione.

La costituzione è diventata oggetto di discussione (interpretazione) e di lotta politica in vista della sua riforma.

La crisi dei partiti è insieme ideale, funzionale, strutturale. Ideale, in quanto effetto della crisi delle ideologie. Funzionale, perché è sempre più difficile per i partiti esercitare il ruolo di mediazione nei confronti di una società sempre più complessa. Strutturale, nel senso che declina il carattere di massa, diminuiscono gli iscritti e i militanti, cresce l’influenza degli apparati di funzionari. La crisi dei partiti ha lasciato un vuoto politico, che fino ad oggi non è stato colmato.

Analizziamo il problema dal punto di vista della forma di governo, pur consapevoli che si tratta di una prospettiva parziale. In un sistema in cui i partiti sono forti, il governo può anche non essere forte, in quanto sostituito nel ruolo di elaborazione e attuazione dell’indirizzo politico dal Parlamento, organo che assume centralità nel sistema. Negli anni ’80, parallelamente alla crisi del sistema dei partiti, si assiste a un progressivo indebolimento del ruolo parlamentare, mentre silenziosamente si ha un rafforzamento del governo. Cresce il potere normativo del governo, viene riorganizzata e potenziata la presidenza del consiglio, si adottano regolamenti parlamentari che riconoscono corsie preferenziali alle iniziative legislative governative. Il passaggio dalla prima alla cosiddetta seconda repubblica si attua nella crescente rilevanza del governo a fronte della crescente inconsistenza del sistema dei partiti. Da qui il paradosso delle riforme: le riforme costituzionali – che inevitabilmente si fanno in parlamento – sono sempre più necessarie ma è sempre più difficile farle per la sempre più accentuata debolezza dell’organo che dovrebbe realizzarle. La strada della riforma del sistema elettorale si rivela una scorciatoia deludente. Il sistema maggioritario promette soluzioni taumaturgiche che si rivelano illusorie.

 

 

La transizione silenziosa

 

 

M. Calise nel suo libro ?La costituzione silenziosa? sostiene che, mentre l’attenzione era tutta concentrata sul dibattito concernente grandi riforme che nessuno era in grado di portare a compimento, vi è stato un cambiamento silenzioso e rilevante dell’assetto costituzionale materiale, senza che ciò sia stato formalmente sanzionato. In assenza di una riforma complessiva si accreditano mutamenti settoriali, talora di fatto, silenziosi, perloppiù inosservati, fondativi di quel nuovo assetto che ci stiamo abituando a chiamare ?seconda repubblica?. Ho usato l’aggettivo ?fondativi?, perché si tratta di regole che riguardano assetti di potere rilevanti e duraturi, tali da determinare una significativa riorganizzazione del potere pubblico nella tormentata transizione dal vecchio al nuovo sistema politico.

Propongo tre esempi.

 

?       Esempio 1: le autorità amministrative indipendenti. Le authorities controllano le più rilevanti attività economiche e molti altri settori della vita collettiva, incidendo profondamente sui diritti individuali. Esse tendono a sottrarre silenziosamente tali settori al controllo delle istituzioni politiche rappresentative. Mentre da un lato muta profondamente il confine pubblico-privato, dall’altro lato cade il principio sostanzialmente monista dell’indirizzo politico nelle mani esclusive dell’asse parlamento/governo, e si afferma una prassi di sempre maggiore concentrazione, nelle mani di soggetti alternativi, di poteri che sono insieme legislativi, amministrativi e giurisdizionali. Si erode così anche il concetto tradizionale di separazione dei poteri.

 

?       Esempio 2: le leggi elettorali, che promettevano la costruzione del cosiddetto bipolarismo. In realtà la legge di riforma del ’93 non manda in Parlamento uomini selezionati in base a una logica bipolare. Non serve a eleggere direttamente il governo. Ma soprattutto non serve a scegliere i candidati migliori, più rappresentativi e più vicini ai cittadini. Il sistema di selezione delle candidature non ha funzionato: la maggior parte delle candidature nei collegi elettorali è selezionata sulla base di accordi di coalizione assunti tra esponenti delle segreterie nazionali dei partiti. Nei collegi incerti si candidano le ?seconde linee?, che poi saranno quelle che faranno spostare l’ago della bilancia in parlamento verso una o l’altra coalizione, entrambe poco coese e poco omogenee.

 

?       Esempio 3: secondo il ?modello Westminster?, ovvero la forma di governo realizzatasi in Gran Bretagna, il leader del partito vincitore delle elezioni è il capo del governo, e gode in Parlamento di una maggioranza politica a lui fedele. Alcuni sostengono non solo la bontà di tale sistema, ma la sua realizzazione di fatto nel sistema politico italiano attuale. La realtà è assai diversa. Stiamo piuttosto andando verso un modello sostanzialmente presidenziale, con personalizzazione della leadership e conferimento al presidente del consiglio di poteri sempre più ampi e sganciati dal rapporto con la propria maggioranza parlamentare; il tutto nel silenzio della Costituzione. Lo staff del Presidente del Consiglio è sempre più ampio, autonomo, autonomo rispetto al circuito politico ufficiale. Il governo fa politica indipendentemente dalla sua maggioranza, che è totalmente asservita alla volontà del premier.

 

 

Verso un presidenzialismo di fatto

 

 

Nel vuoto lasciato dall’inconsistenza dei partiti, il premier è spinto a cercare fuori dal Parlamento la fonte della propria legittimazione; da un lato, sul fronte della comunicazione, accentuando i canali diretti di accesso al pubblico dei cittadini, con conseguente personalizzazione della leadership; dall’altro, sul fronte degli specifici poteri di governo, che ? nel silenzio della costituzione ? sono stati attribuiti alla Presidenza del Consiglio.

In trent’anni il personale dipendente della Presidenza del Consiglio è passato da 50 a 4500 persone (a Londra sono 300!). Si sono moltiplicati i dipartimenti, sottraendo sempre maggiori competenze ai singoli ministeri. Nel reclutamento dello staff l’autonomia del Presidente è tale che di fatto si può parlare di un ?partito del premier?.

La costituzione, in tutto ciò, pare impotente: del resto sembra difficile che uno strumento come quello costituzionale possa tenere dietro con efficienza ai mutamenti in atto. Anche ai tempi della c.d. prima repubblica i partiti sono poco regolamentati dalla Costituzione che li considera semplici associazioni. Altrettanto sta avvenendo con il governo. La Commissione bicamerale ha finto di ispirarsi a un modello istituzionale ?tipo Westminster?, mentre nei fatti si attuava una transizione silenziosa al presidenzialismo.

 

 

 

Un’altra chiave di lettura: la Costituzione come garanzia dei diritti

 

 

La costituzione può essere intesa anche come limite al governo (inteso nel senso generico di ?potere pubblico?) e garanzia dei diritti. Questa concezione della costituzione è soprattutto da far risalire alle teorie del costituzionalismo americano, che vede nel governo il pericolo all’autonomo sviluppo dei diritti individuali e nella costituzione lo strumento di limitazione di tale pericolo. Anche agli albori del costituzionalismo francese si rintraccia tale radice: l’art. 16 della dichiarazione dei diritti dell’89 recita infatti: ?Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata (e la separazione dei poteri determinata) non ha costituzione?. Le vicende successive del costituzionalismo francese hanno in parte messo in ombra tale aspetto, mentre al contrario si è sempre più esaltata la supremazia del Parlamento, e in generale dei poteri pubblici rappresentativi, rispetto alla garanzia costituzionale dei diritti. Anche la nostra costituzione, nell’interpretazione che ha dominato nei primi cinquant’anni di storia repubblicana, ha funzionato – come si è visto – più come indirizzo nei confronti dei pubblici poteri che come limitazione alla loro azione in funzione della difesa dei diritti individuali. Si noti che la concezione della Costituzione come garanzia dei diritti è antitetica, o quanto meno non complementare, rispetto alla concezione della Costituzione come indirizzo. L’attuale crisi della Costituzione come strumento di indirizzo può spingere a esaltare la dimensione garantistica della legge fondamentale.

La perdita di credibilità delle forze politiche tende a conferire maggiore autorevolezza al potere giurisdizionale, in particolare ai giudici costituzionali. La Costituzione sembra essere destinata, negli anni avvenire, ad essere interpretata più dalle Corti che dalle Camere.

 

 

Verso una Costituzione europea?

 

 

Le Corti tendono a superare l’orizzonte statale per parlare un linguaggio costituzionale sovranazionale. L’emancipazione della Costituzione dalla politica può essere letta come emancipazione dallo Stato, in funzione della costruzione, appunto per via giurisprudenziale, di un diritto pubblico comune a tutta l’Europa, benché esso difficilmente sarà il frutto, come invece è avvenuto in passato in occasione della redazione delle costituzioni nazionali, del consapevole esercizio di un potere costituente, da parte di un ipotetico ?popolo europeo? sovrano.

Possiamo chiederci in conclusione: c’è dunque bisogno di una nuova Costituzione? La risposta è sì, a condizione che sia di respiro europeo, e non scritta da un’assemblea costituente rappresentativa di un popolo sovrano (che non c’è), bensì frutto dell’integrazione tra le diverse esperienze culturali e giuridiche degli Stati europei, mediate dal costante intervento delle Corti nazionali e di quelle sovranazionali.

 

 

 

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