La riflessione proposta dal relatore è relativa alle problematiche correlate al crescere tra due culture diverse, condizione tipica di coloro che vivono l’esperienza della migrazione e che, quindi, si trovano in bilico tra differenti dinamiche sociali, culturali, economiche e politiche, spesso tra loro contrastanti.

Le questioni sollevate da questa peculiare condizione sono talmente complesse da richiedere, per la loro risoluzione, l’intervento di diverse figure professionali, oppure il ricorso a discipline che, come l’etnopsichiatria, intrecciano diversi approcci consentendo una più articolata comprensione dei problemi.     

Per dare maggiore organicità all’esposizione di una questione così ampia e complessa il relatore ha suddiviso la tematica in due punti principali.

Il primo riguarda la definizione di cultura, suscettibile di molti malintesi. In generale, si può affermare che cultura è ciò che ci differenzia o ci accomuna con l’altro, permettendoci di orientare i nostri comportamenti ed atteggiamenti sulla base di una serie di aspettative socialmente condivise.

Il dato oggettivo relativo all’appartenenza ad una cultura piuttosto che ad un’altra non deve, però, condurci a adottare stereotipi, più o meno stigmatizzanti, frutto di processi di banalizzazione e semplificazione di situazioni in realtà molto complesse.

È sicuramente vero che l’appartenenza ad una cultura e ad una società influiscono notevolmente su com-portamenti, atteggiamenti, credenze, usanze e stili di vita; ma non dobbiamo dimenticare le possibilità di autode-terminazione e l’unicità di ogni persona.

L’impossibilità di considerare una persona completamente distaccata dalla cultura d’appartenenza si lega in etnopsichiatria, così come in altri ambiti disciplinari, all’ingiustizia di attribuire a priori determinati tratti, ritenuti tipici, unicamente sulla base di tale appartenenza.

Si avverte, quindi, la necessità di una continua oscillazione tra ?universalismo? e ?particolarismo?, fonda-mentale per una vera comprensione delle problematiche sollevate da condizioni così peculiari.

Per chiarire maggiormente la necessità di questo duplice approccio a tematiche così spinose il relatore ha fornito all’auditorio una serie di esempi concreti. Ha richiamato all’attenzione il problema delle mutilazioni sessuali, pratica purtroppo abbastanza diffusa in Africa e in Asia, equiparato nella legislazione belga a qualsiasi altro abuso sessuale compiuto sui minori.

Ebbene, secondo il relatore un approccio del genere è errato poiché si propone una risoluzione ?all’oc-cidentale? di una questione che, non essendo tipica della nostra cultura, non può essere affrontata con strumenti per noi usuali; così come non è corretto l’atteggiamento di coloro che giustificano tali pratiche in virtù di consolidate tradizioni.

Un’altra scottante questione sollevata è quella relativa alla prevalenza di stranieri reclusi nelle carceri minorili del nostro paese. Il relatore denuncia il fatto che la nostra società, invece d’interrogarsi sulle concrete ragioni di una realtà così drammatica, preferisce procedere per automatismi criminalizzando le persone in base alla loro etnia o alla loro provenienza.    

Ciò si collega al secondo argomento della riflessione, relativo all’iniziazione dei bambini stranieri. Per comprendere meglio tale tematica è opportuno chiarire il concetto stesso d’iniziazione e i rituali che spesso accompagnano tale processo.

L’iniziazione, semplificando, è la cerimonia più o meno formale attraverso la quale, in molte società e civiltà, si compie il passaggio dall’infanzia all’età adulta e prevede il superamento di una serie di prove spesso dolorose e difficili.

I sentimenti che tali rituali, oggetto privilegiato di molti documentari etnografici, provocano in noi occidentali oscillano dall’orrore al ?divertimento? e, al tempo stesso, marcano una netta differenza tra ?noi? e ?loro?.

Numerosi rituali di passaggio tipici di molte tribù africane sono ormai decaduti perché le dinamiche culturali in atto li hanno sostituiti con altri riti e cerimonie. Tra i nuovi rituali si segnala, ad esempio, l’esperienza della migrazione che per molti giovani africani, e non solo, rappresenta il passaporto per il mondo degli adulti.

I primi giorni di vita lontani dalla comunità d’appartenenza, dalla famiglia d’origine, in un paese diverso per lingua, tradizioni, religione e cultura, ciò che Roland Barthes definisce come ?totale incertezza dei segni?, possono costituire una prova ben più ardua di qualsiasi altra che i coetanei dovranno affrontare al cospetto degli anziani del villaggio.

Coloro che fanno ritorno al villaggio d’origine nutrono la fantasia delle giovani generazioni con racconti dell’esperienza migratoria che spesso non corrispondono al reale stato delle cose. Descrivono i paesi occidentali come luoghi in cui tutto è possibile, dove si lavora, si vive nell’agio e senza troppi problemi; trascurano, ovviamente, i particolari più problematici delle loro esperienze, mai racconteranno che in occidente vivevano d’espedienti e in condizioni di spaventoso degrado, a contatto con società che spesso li rifiutano. 

     Quali sono i motivi che portano molti giovani immigrati a compiere atti violenti? Perché intraprendono un cammino così stridente con il loro reale progetto di vita?

Da queste domande il relatore ha sollevato questioni spinose, riguardanti soggettività che, spesso rinchiuse nel silenzio, vogliono imporsi alla nostra attenzione e uscire da quella marginalità in cui noi le abbiamo relegate.

La scuola, è vero, sta facendo molto per una maggiore coscienza e conoscenza di tematiche relative alla multiculturalità e all’interculturalità ma la nostra società non è così aperta e continua a procedere nella rego-lazione dei rapporti tra culture diverse secondo logiche di sopraffazione e violenza, adottando automatismi ormai divenuti inaccettabili.

Purtroppo, però, anche molti operatori all’interno della scuola non sono capaci di affrontare i disagi derivanti dall’appartenenza a mondi culturali diversi.

Di fronte a manifestazioni di sofferenza dell’alunno immigrato molti insegnanti credono di poter risolvere la questione ricorrendo all’aiuto di esperti. Spesso, però, lo stesso personale esperto non possiede le competenze e la sensibilità adeguate alla reale risoluzione del problema.

Riguardo a tale questione il relatore ha fornito un altro esempio molto significativo derivante dalla personale esperienza professionale.

È la storia di due giovani fratelli africani, entrambi studenti, che mostravano chiari segni di disagio e disadattamento all’ambiente scolastico: l’uno con atteggiamenti aggressivi, l’altro con disattenzione unita a demotivazione. Si ricorse all’intervento di un neuropsichiatra, ma, anche dopo diverse sedute, la situazione rimase immutata. Fu allora che si decise di ricorrere all’aiuto offerto dal Centro ?Frantz Fanon?, di cui il Professore, come già precedentemente ricordato, è direttore.

L’approccio alla questione fu il seguente: non si analizzò unicamente il comportamento dei due fratelli, ma si tentò di risalire alle profonde radici del disagio, dapprima valutando la situazione familiare, che mostrò subito alcuni tratti problematici, in seguito sottoponendo la madre dei due ragazzi ad alcune sedute terapeutiche.

Da ciò emerse che i comportamenti dei due ragazzi erano le proiezioni di disagi ed ansie della donna, che non riusciva a vivere serenamente in una cultura differente da quella di provenienza e temeva che i figli fossero sotto l’influsso di qualche sortilegio. Tali ansie e paure si riflettevano anche nell’attività onirica di uno dei due ragazzini il quale, sovente, sognava un capretto sgozzato. La famiglia presentava, inoltre, problemi economici, legati alla situazione lavorativa precaria della donna ed era assente una figura maschile che potesse aiutare la madre nell’educazione dei figli.

    Da quanto detto sopra possiamo ricavare ulteriori considerazioni relative alle difficoltà che incontrano le famiglie che sperimentano l’esperienza della migrazione, esperienza che, inoltre, scardina le strutture sociali tipiche innescando dinamiche molto complesse.

Nel caso in cui, ad esempio, solo uno dei due coniugi decida di emigrare in un altro paese i problemi più frequenti sono correlati alla difficoltà di mantenere unito il nucleo familiare. Se, invece, le famiglie si muovono unite verso altri paesi e culture le questioni spinose più frequenti riguardano l’innescarsi di conflitti inter-generazionali tra genitori e figli.

Questi ultimi, infatti, riescono ad integrarsi maggiormente nel nuovo paese, anche grazie alla funzione socializzatrice svolta dalla scuola; i genitori, invece, desiderando mantenere viva la cultura tipica del paese di provenienza, propongono modelli culturali e educativi dissimili e, a volte, contrastanti da quelli sperimentati quotidianamente dai figli.

La relazione ha certamente offerto numerosi spunti di riflessione a tutti coloro che erano presenti in sala, sia per il racconto di alcune particolari esperienze di lavoro ?sul campo?, sia per la sensibilità e l’umanità con cui tali vicende sono state narrate.

Da ogni storia raccontata si possono dedurre la reale drammaticità e problematicità di vite oscillanti tra diverse appartenenze culturali, le difficoltà che possono incontrare tutti coloro che decidono di dedicarsi con impegno e serietà all’aiuto di queste persone, l’impossibilità di avere metodi di supporto e conoscenze certe e stabili che dicano come operare in particolari situazioni.

C’è la persona con la sua particolare esperienza, la sua vita, la sua provenienza, la sua cultura, insomma il suo mondo personale, accanto ad un’altra persona con le sue conoscenze, il suo sapere e i suoi strumenti professionali che, però, sono di poco aiuto se non supportate da una grande sensibilità e dalla consapevolezza della loro limitatezza e finitudine.

È questo il modo di operare dell’etnopsichiatria: non si possono prescrivere ricette preconfezionate, l’azione si costruisce in ogni singolo momento dell’incontro con l’altro, si procede con incertezza metodologica perché l’unico metodo valido è quello di aprirsi ad una dimensione dell’ascolto empatico che nessuna conoscenza disciplinare può fornire.

 

 

 

 




 

PRINCIPALI APPROFONDIMENTI DEL DIBATTITO

 

 

 

 

 

 

 

Il dibattito si è articolato su diversi punti tra i quali possono essere richiamati in particolare i seguenti.

 

a)      L’incertezza è condizione comune a tutte le persone, non solo per coloro che vivono in un paese diverso da quello di provenienza. E’ un’esperienza che può condurre a vivere le relazioni con gli altri in modo problematico, proprio perché ci sono questioni irrisolte a livello del proprio sé. Le categorie concettuali ?noi? e ?loro? sono poco utili in tali frangenti perché non permettono un approccio valido al problema, si limitano a proporre visioni stigmatizzanti.   

b)      Essere aperti alla diversità non dovrebbe ridursi ad incontri sporadici e limitati (es: mangiare cous-cous, ballare la salsa piuttosto che il merengue?) che rappresentano unicamente frammenti di una cultura. Per avvicinarci veramente ad un’altra persona occorre una grande umanità, unita alla consapevolezza che l’appartenenza ad una determinata cultura ci racconta poco o nulla.

c)      Sono state richieste delucidazioni sul funzionamento del Centro ?Frantz Fanon? e sul ruolo dei mediatori culturali. Il Centro è stato fondato sette anni fa all’interno dell’ASL di Torino per fare fronte ai numerosi problemi presentati dalla popolazione immigrata. Il ruolo dei mediatori è di agevolare l’incontro con una cultura diversa, spesso incomprensibile, in un modo il più possibile personalizzato ma, al tempo stesso, utilizzando adeguate competenze che derivano da una formazione specifica.                                                                                                                               

Scarica File