A partire dall’affermazione della irreversibile fine della Democrazia Cristiana ma dall’altrettanto convinta affermazione che la fine di un partito come la D.C. non abbia segnato affatto la fine di una tradizione di cultura politica, la relazione muove prendendo in esame innanzitutto il motivo di tale perdurare della tradizione politico-culturale democristiana individuato principalmente nel fatto che, a differenza per esempio dei partiti marxisti-comunisti, la D.C. e tutto il cattolicesimo democratico non sono mai stati «chiesa in se stessa», nel senso che, da un punto di vista ideologico-valoriale, i valori di riferimento erano e rimangono attinti da un ambito esterno: quello della Chiesa e della sua dottrina sociale. Non solo, ma la cultura di riferi-mento del cattolicesimo democratico, ben più che un’ideologia, si presenta come una «sollecitazione etica» storicamente incarnata (o, in altri termini, una riflessione storica eticamente ispirata).

In questo senso, risulta «naturale» la consapevolezza della distinzione tra tradizione culturale e declinazione della stessa in una specifica forma-partito ? quest’ultima, di per sé, espressione mutevole della storia: una consapevolezza che in De Gasperi era assai forte e che consente di vedere con facilità l’origine del cattolicesimo democratico già nell’Ottocento risalendo fino alla lezione di Toqueville.

D’altra parte, il succedersi dei nomi conferma la distinzione tra «tradizione» e «partito» e lo storico di domani farà senz’altro fatica ad orientarsi nella selva di sigle cui ha dato vita, negli Anni Novanta, la crisi della D.C.: Ccd, Cdu, Cristiano sociali, Popolari, Popolari per la riforma, Udr ecc., per non dire del frequente e talvolta fantasioso richiamo al cattolicesimo democratico e al cattolicesimo liberale. Anche nel solco principale del cattolicesimo politico in Italia vi è una singolare alternanza di nomi; all’inizio del xx secolo si parla appunto di «democrazia cristiana» e Romolo Murri, Filippo Meda e Luigi Sturzo si definiscono e sono demo-cratici cristiani. Ma nel primo dopoguerra, quando Sturzo dà vita al suo partito, lascia quel nome compromesso con la crisi modernista e approda al nuovo nome di «partito popolare»; De Gasperi, a sua volta, abbandona il nome nuovo e torna a quello antico non già per accentuare il carattere confessionale del partito rispetto al-l’esperienza sturziana bensì sotto la pressione dei «giovani» che non volevano un semplice ritorno al popo-larismo. E infine, la crisi della D.C. degli Anni Novanta spinge ancora una volta, con Martinazzoli, al recupero della formula di «partito popolare» quasi a sottolineare un distacco dalla D.C..

Ma cosa significa esattamente il termine «cattolico-democratico»? In cosa credono i cattolico-democra-tici? Questa pare essere una questione fondamentale nell’economia della presente analisi e vale la pena richia-mare da subito come i cattolici democratici siano quei cattolici che intuiscono il valore e le potenzialità evangeliche della democrazia e che reagiscono ? per dirla con Toqueville ? «a quello strano concorso di circostanze per cui la Chiesa si trova in Europa fra le forze che la democrazia travolge». Da questo punto di vista, i cattolici democratici non sono in antitesi ma assolutamente in continuità con i cattolici liberali ed è un limite frequente di chi si definisce cattolico-democratico sottolineare il distacco dal cattolicesimo liberale otto-centesco, quello vero, assai diverso dai presunti cattolici liberali di oggi.

I cattolici liberali e democratici hanno infatti contribuito notevolmente all’evoluzione del magistero della Chiesa: dalla condanna della libertà di coscienza definita un delirio dalla «Mirari vos» di Gregorio xvi alla «Dignitatis humanae» del Vaticano ii; dalla condanna della democrazia nel Sillabo, alla accettazione della democrazia come una delle forme legittime di governo con Leone xiii e poi come forma «privilegiata» di governo sul piano dei valori nei messaggi di Pio xii negli anni della guerra, sino alla valorizzazione della democrazia nei documenti del Concilio Vaticano ii. Ed hanno contribuito a questa evoluzione non con un’ac-cettazione acritica della modernità ma con una capacità critica di discernimento che ha portato a dissociare la libertà di coscienza dalle premesse dell’indifferentismo religioso; a dissociare la democrazia dal mito di una sovranità popolare senza limiti, concepita come fondamento stesso di un patto di convi-venza.

Fra le acquisizioni più significative e durature di questa riflessione vi è, già agli inizi del secolo xix, nel crogiuolo culturale degli anni della Restaurazione, l’intuizione di una società civile prodotta dalla storia nella quale l’esperienza religiosa trova il suo spazio naturale che non può e non deve essere reso subal-terno al potere politico. Di qui la distinzione fra l’ambito del «religioso» e quello del «politico», il rifiuto da un lato di ogni utilizzazione politica della religione e, dall’altro lato, di ogni assorbimento della dimensione religiosa nella politica ? ed è su questa premessa che i cattolici democratici, come Sturzo stesso li definisce ne-gli anni critici del primo dopoguerra, potranno opporsi al compromesso fra Chiesa e fascismo e poi ad ogni forma di «religione secolare». A questa intuizione è poi collegata un’altra che porta al rifiuto del mito del-la rivoluzione come strumento di modernizzazione e di progresso. La cultura della rivoluzione nasce, come è noto, dall’idea di Rousseau, ripresa e approfondita da Marx, che il male abbia origine dalla società sicché si possa, attraverso un cambiamento radicale della società stessa, accedere una volta per tutte al regno della libertà e della giustizia. L’idea di rivoluzione è infatti legata alla pretesa delle ideologie di essere portatrici di una risposta globale ed esaustiva e implica, pur nella varietà delle sue manifestazioni, la costrizione e la forza per la realizzazione del suo obiettivo: giacobinismo e dittatura del proletariato o, sul versante opposto, la nazionalizzazione delle masse imposta dal fascismo e dal nazismo sono frutti organici appunto della cultura della rivoluzione.

La tradizione liberal-democratica nella quale, da questo punto di vista, il cattolicesimo democratico si colloca è al contrario radicata nella concezione ebraico-cristiana del male che nasce dalla coscienza stessa dell’uomo come «rischio della libertà», un male che proprio nell’esercizio del potere ha un suo campo privilegiato di espressione: di qui la necessità di definire i diritti civili come «garanzia» contro il potere politico (fosse anche quello espresso da una maggioranza) e la necessità della divisione, del controllo e del ricambio nell’esercizio del potere al fine di garantirlo dalla degenerazioni alle quali spontaneamente è esposto. Il superamento della cultura della rivoluzione rappresenta pertanto un tratto fondamentale della tradizione culturale cattolico-democratica: ma superare tale mito non significa adattarsi passivamente alla realtà ma al contrario aprirsi alla logica di un permanente impegno riformatore, in base ad un principio di costante «non appagamento».

Altra intuizione fondamentale dei cattolici democratici è poi quella della dimensione necessariamente «politica» di un’efficace azione per la giustizia sociale: all’idea di una «azione benefica in favore del popolo» su cui si era attestato l’insegnamento di Leone xiii, già i cattolici democratici dei primi del Novecento si opposero riprendendo una formula degli «abbés démocrates» francesi in base alla quale l’idea di azione si declinava «pour le peuple et par le peuple».

Infine, il cattolicesimo democratico crede fortemente nell’idea di «partito», nel quadro della dialettica parlamentare. Tuttavia, la maturazione di questa idea nella cultura politica dei cattolici non appartiene esclu-sivamente al cattolicesimo democratico in quanto tale: essa ha in Italia un sicuro punto di riferimento in Cesare Balbo e si sviluppa nelle iniziative dei cattolici conciliatoristi di fine Ottocento in collaborazione con i liberali moderati. Matura come idea di un partito «conservatore» capace di rappresentare negli anni dell’incipiente industrializzazione gli interessi e i valori del mondo contadino in contrapposizione al blocco sociale e di potere creato dalla sinistra liberale che si esprime nel cosiddetto trasformismo parlamentare. Vi è in quel tentativo la prima intuizione di un partito capace di raccogliere diverse tradizioni culturali, la cattolica appunto e la libe-rale, sulla base di un programma comune con l’esplicito rifiuto di ogni formula di partito «cattolico». Il tenta-tivo, come è noto, fallisce per il permanere del «non expedit» e il suo fallimento è all’origine della mancanza in Italia di un’autentica tradizione conservatrice di tipo europeo della quale avvertiamo oggi tutte le conse-guenze. L’idea di partito viene poi ripresa su nuove basi da Sturzo agli inizi del xix secolo e poi nell’esperienza popolare: Sturzo supera l’intransigenza temporalista per delineare un partito veramente «nazionale». L’idea di partito è riproposta vigorosamente dal dossettismo nella stagione dei partiti di massa, ma il partito rimane sempre «strumento» rispetto ad un mondo di valori e non assurge mai a fonte dei valori stessi.

Il cattolicesimo politico non ha dunque alle spalle una filosofia della storia ed un’ideologia, una chiave di lettura della storia che pretenda di proporsi ? come per il caso delle ideologie ? come sicuro e univoco criterio di orientamento per il futuro. Nasce da un’esperienza di fede, dal tentativo di rendere presente nella vita associata un annuncio evangelico che non si esaurisce in nessuna teoria politica o sociale; nasce da espe-rienze spirituali, culturali e sociali, da esigenze di tipo etico. Per questo non si può essere politicamente «cattolici senza aggettivi» ? come pretendeva quella famosa «Dichiarazione di intransigenza» letta per la prima volta dal barone D’Ondes Reggio al congresso di Venezia del 1874: quei cattolici avevano in realtà i loro aggettivi ed erano intransigenti, papali o temporalisti, con i loro pregi di coerenza e onestà e, al tempo stesso, con le loro grandi chiusure mentali. Per altro verso, il cattolicesimo sociale che teorizzava, specie in Francia all’inizio dello scorso secolo, una sua diretta, necessaria e univoca discendenza dal cristianesimo si è fatalmente frammentato in scuole e correnti e la stessa dottrina sociale della Chiesa ? che ha coltivato in sé e in molti cattolici l’idea «impropria» di essere un compiuto e autosufficiente programma sociale ? è approdata saggiamente dopo il Concilio Vaticano ii, per particolare merito di Paolo vi e poi per esplicito riconoscimento di Giovanni Paolo ii, alla coscienza critica di essere solo un «capitolo» della teologia morale. Tutto questo per sottolineare quanto vi sia nell’esperienza politica di ispirazione cristiana un fondamentale dualismo, un con-flitto fecondo, che la cultura cattolica ha cercato di definire, razionalizzare e comporre, a differenza della cul-tura legata alla tradizione protestante che lo ha invece esaltato e talvolta esasperato facendone in qualche mi-sura il fondamento stesso della democrazia.

Alla luce di questa premessa si può dunque analizzare con maggiore consapevolezza il ruolo «storico» della D.C. in Italia e, non ultimo, il motivo della sua crisi negli Anni Novanta e non può non essere da subito sottolineato il contributo decisivo che questo partito ha fornito per la rinascita della democrazia dopo gli anni bui del fascismo e della guerra. In effetti, non era affatto scontata dopo la caduta del fascismo la piena accettazione da parte della Chiesa italiana di un sistema democratico: fu merito precipuo dell’i-niziativa politica di De Gasperi operare in questa direzione, piegando a questo obiettivo la tanto discussa «unità politica dei cattolici»; come fu merito precipuo dei cosiddetti «professorini» (La Pira, Dossetti ecc.) alla Costituente tradurre principi e valori di chiara ispirazione cristiana in termini «laici» condivisibili da altre forze politiche. Più in generale, merita essere richiamato il senso della scelta del «centrismo» della D.C.: una formula politica, certo, di contenimento del comunismo, ma nello stesso tempo consa-pevole della piena legittimità del partito comunista nel quadro costituzionale ed espressiva di un orien-tamento che comunque, pur essendo di centro, «cammina verso sinistra» tanto da porsi contro ogni ipotesi del cosiddetto «partito romano» favorevole, al contrario, ad uno schieramento di destra aperto ai nostalgici della monarchia e del fascismo. Altre intuizioni tipiche di una sensibilità cattolico democratica si ritrovano poi nei successivi sviluppi della democrazia italiana, dal «centro-sinistra» alla riflessione di Aldo Moro sulla cosiddetta «terza fase»: si pensi ad esempio all’ampliamento della base del consenso popolare (e dei partiti che lo interpretano) all’azione di governo e all’idea di una guida «politica» dello sviluppo; si pensi, in generale, al processo che porterà al definitivo superamento della «conventio ad excludendum» nei confronti del partito comunista. Tuttavia, va notato come questa linea politica, tendenzialmente «progressista» a livello di leadership, abbia sempre coinvolto un elettorato in larga misura non partecipe delle motivazioni pro-gressiste più profonde, ma semplicemente moderato o conservatore, di un moderatismo che trovava casa nella D.C. prevalentemente solo in funzione (e a garanzia presunta) dell’anticomunismo. E quando gli eventi, da un lato, dell’esito del referendum sul divorzio nel 1974 ? esito che, a causa dei processi rilevanti della secolarizzazione della società italiana, vide la centralità D.C. uscire particolarmente e irreversibilmente ferita ? e, dall’altro lato, delle iniziative referendarie del 1991 e 1993 (unitamente alle inchieste su Tangen-topoli) dimostrano che il ventennio di crisi della D.C. è giunto al suo culmine, vi è da chiedersi il ruolo giocato dall’atteggiamento anticomunista e il senso politico del rapporto tra questo e le dinamiche del consenso elet-torale, concludendo che, con gli Anni Novanta, la paura del comunismo è stata raccolta ed elaborata elet-toralmente dai nuovi partiti di Forza Italia e Ccd-Cdu, mentre ad esprimere un atteggiamento meno pregiudiziale (e assai più in linea con i valori fondanti del cattolicesimo democratico) è rimasto il partito Popolare e la sua leadership.

La fine della D.C. come partito «centrale» del sistema politico italiano, come si è detto, non è il mo-mento conclusivo della storia del «partito»: segna il passaggio a un nuovo sistema politico e anche a un nuovo modello di rapporti fra il «religioso» e il «politico». Si passa infatti dal modello continentale che viene dalla tradizione francese (nel cui ambito è nato il «partito cattolico») al modello anglosassone in cui l’ispirazione religiosa è elemento animatore della vita civile e della stessa democrazia. In questo senso, l’in-tuizione di Gramsci di una Chiesa che diventa «parte» dopo la rivoluzione francese si riferisce a un ciclo storico in cui lo Stato borghese interpreta le ragioni della laicità, ma questo ciclo, con la crisi attuale delle ideo-logie e delle religioni secolari, tende a concludersi. La Chiesa infatti non appare più come «parte separata» in una società dalle identità collettive fragili e rivendicare, da parte del cattolicesimo democratico, un’i-spirazione etica e religiosa per la democrazia (che ne è carente) non significa riproporre modelli confes-sionali o «nostalgie di cristianità» grazie all’attività di un partito cattolico di forma tradizionale, bensì ride-finire la laicità al di fuori dello schema di uno Stato «laico» in quanto «portatore di una sua autonoma ideologia» da proporre/imporre alla società civile. In questo senso, diventa necessaria non già la «sepa-razione» ma una stretta «collaborazione» tra laici e cattolici: una collaborazione che, in un sistema bipolare quale il nostro, si basi sul presupposto, da parte laica, di cessare di vedere l’esperienza religiosa come un «residuato storico» e, da parte cattolica, di percepire che il diritto/dovere di proporre e diffondere i propri valori non significhi il diritto/dovere di «imporre» questi stessi agli altri, recuperando in questo modo un senso pieno di cittadinanza basato sul confronto costruttivo. In questo senso, ancora, vi è oggi una maggiore possi-bilità rispetto al passato che il cattolicesimo democratico incida anche al di fuori dei vecchi contenitori di partito e l’Ulivo, a tale riguardo, è risultato un esperimento politico non solo altamente significativo ma anche perfettamente coerente con la tradizione cattolico-liberale-democratica. Purtroppo, la logica ulivista  ha finito per entrare in conflitto con quella della rivendicazione e della difesa delle identità di partito che lo componevano e proprio la crisi dell’Ulivo ? alla quale tutti i partiti del centro-sinistra hanno ampiamente contribuito ?  è all’origine degli insuccessi elettorali più recenti. Ciò non toglie che la prospettiva di un «nuo-vo» Ulivo si propone come unica risposta possibile e il ruolo del cattolicesimo democratico è fondamen-tale per rilanciare l’Ulivo: infatti, il nuovo Ulivo si presenta come ipotesi di soggetto politico ben diversa da quella della «confluenza» dello stesso nella famiglia socialdemocratica, non solo in Italia ma anche in Europa.

In particolare, va notata la rilevanza dell’esperimento della «Margherita» che raccoglie i partiti di «centro» nel centro-sinistra/Ulivo: una formazione dove i Popolari ? all’interno di una logica che accetti e valorizzi il sistema bipolare e coerentemente ai valori del cattolicesimo democratico ? possono concor-rere notevolmente nel rendere più incisiva la tradizione politica di cui sono fra i legittimi eredi.

Il richiamo all’esigenza di una forte, maggiore «ispirazione etica» non è infatti secondario e mentre compito della sinistra parrebbe proprio essere quello di «andare oltre» la conservazione dell’esistente recuperando una tensione vera verso la solidarietà  sociale, ai cattolici democratici di oggi, in particolare, si richiede di non considerare l’esperienza politica in una forma-partito (antica o nuova che sia) come semplice strumento di rap-presentanza e di mediazione di interessi bensì di alimentare la propria ispirazione etica della politica attraverso un’esperienza religiosa coerentemente vissuta. Più in generale, oggi si avverte la necessità di una spiritualità  nuova «dell’essere» e «per l’essere» cristiani in politica: una spiritualità alimentata dall’apertura verso l’altro, verso il diverso, una spiritualità che si traduca in coraggio e tensione culturale, una spiritualità che sostenga con rinnovato slancio una tradizione ? quella del cattolicesimo democratico ? che, nata originariamente per comporre il conflitto fra Chiesa e democrazia, fra tradizione cattolica e modernità, ha oggi il compito pri-mario di ridefinire in termini nuovi il rapporto «politica/religione».




 

PRINCIPALI APPROFONDIMENTI DEL DIBATTITO

 

 

 

Il dibattito si è articolato su diversi punti tra i quali possono essere richiamati in particolare i seguenti.

 

a)      Riflettendo sull’atteggiamento della gerarchia cattolica italiana per le ultime elezioni politiche del 13 maggio pare evidente come essa abbia di fatto appoggiato prevalentemente la Casa delle Libertà e il pro-gramma Berlusconi rispetto a quello dell’Ulivo. La ragione di questo atteggiamento va ricercata senz’altro nella presenza di alcuni fattori e promesse di tipo elettorale, prima fra tutte quella relativa al finanziamento della scuola cattolica. A questo riguardo, rispetto all’ipotesi berlusconiana dei «buoni-scuola» (che porte-ranno inevitabilmente a una «mercificazione» generalizzata dell’offerta formativa) i cattolici democratici e l’Ulivo nel suo insieme propongono una soluzione alternativa che prevede un «sistema pubblico integrato» che riconosca cioè una funzione «pubblica» della scuola, sancita da particolari, severe e periodiche veri-fiche da parte del ministero e degli uffici competenti, lasciando invece la gestione dell’intera offerta forma-tiva in mano indifferentemente al pubblico o al privato, purché la qualità dell’offerta sia il più possibile mantenuta e continuamente monitorata.

b)      È parso importante il richiamo alla necessità di animare eticamente la democrazia e la società italiana da parte dei cattolici democratici di oggi e, a questo riguardo, va sottolineato come su certi temi ? quali bioeti-ca ed eutanasia ? i cattolici abbiano sì il diritto di difendere le proprie idee ma non possano pretendere che le leggi dello Stato automaticamente si pieghino ai loro valori. Semmai, la strategia consigliabile è quella, da un lato, di fare fronte comune con tutte le forze dell’arco parlamentare «ideologicamente vicine» e, dal-l’altro lato, scegliere la via del dialogo con forze diverse ma comunque «sensibili» (si pensi, su questi temi, ai Verdi o alla componente cattolica di Forza Italia).

c)      Riflettendo sul pontificato di Giovanni Paolo ii non si possono che rimarcare grandi positività ma al con-tempo una scarsa linea di governo sulla Chiesa e una scarsa sensibilità ai temi della secolarizzazione occi-dentale e agli atteggianti più idonei per rilanciare il messaggio evangelico con un linguaggio «compren-sibile» all’uomo occidentale. Tale scarsa sensibilità è forse causata dall’eccessivo riferimento ai Paesi del Terzo Mondo visti come il «futuro della Chiesa» e il limite di questo orientamento sta proprio nel fatto che il futuro di questi Paesi non è altro ? purtroppo ? che l’occidente secolarizzato e quindi la sfida alla secola-rizzazione, evitata per il momento, finirà probabilmente di riproporsi in futuro.

d)      È stato notato infine con rammarico quanto in campagna elettorale Berlusconi si sia proposto (strumen-talmente?) come «erede» di De Gasperi ? in funzione anti-Ulivo e soprattutto anti-comunista ? quando ciò non solo è ridicolo, ma soprattutto storicamente fuorviante, dato l’orientamento di De Gasperi per un par-tito di «centro» quale la D.C. che comunque guarda e «cammina verso sinistra».

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