Il conflitto è un elemento costante e naturale della socialità umana, nonostante una certa tradizione abbia voluto rifuggire e negare questo dato di fatto. L’obiettivo per gli anni a venire, spiega Novara all’inizio del suo intervento, è quello di fornire alle persone strumenti e competenze sempre più affinate per gestire questa situazione.

Il vero problema non è ammettere come normale il conflitto nelle relazioni quotidiane fra individui ma il fatto che, storicamente, questa esperienza è sempre stata fatta coincidere con la mera violenza. Basti pensare che il diritto di farsi giustizia da sé attraverso il duello è stato abolito in Italia solo nel 1932 (peraltro negli anni di un regime che non era proprio estraneo alla violenza). Questo dato fa riflettere sulla brevità del nostro periodo di alfabetizzazione alle pratiche di gestione dei conflitti.

A pensarci bene, da un punto di vista scientifico, i mammiferi non dovrebbero porsi tale problema, dal momento che priorità naturale è la conservazione della specie. Il mors tua, vita mea umano rappresenta un comportamento completamente antibiologico, in contrapposizione ad un più logico vita tua, vita mea. Ormai gli studi più recenti confermano che l’istinto primario è quello cooperativo, non quello conflittuale e che spontaneamente gli individui possono collaborare nell’autoregolare le situazioni di scontro. Questa ipotesi viene perfettamente confermata osservando l’agire dei bambini. Essi hanno una predisposizione innata nel gestire le controversie, superate attraverso accordi spontanei oppure con quella che viene chiamata “rinuncia attiva”. Quest’ultima consiste in una rinuncia all’oggetto del contendere, spostando creativamente il proprio interesse altrove e sviluppando in questo modo la fantasia e il cosiddetto pensiero divergente, che mira a trovare soluzioni alternative ma altrettanto soddisfacenti.

Spesso questo processo naturale e spontaneo di autoregolazione viene ostacolato dall’intervento degli adulti, che tendono a ridurre la contesa nei termini delle categorie di colpa e giudizio (si pensi ad esempio alla domanda che viene fatta in molti casi: “chi ha iniziato per primo?”). I litigi invece sono molto utili per costruire un senso del limite delle proprie forze, per accrescere la propria sensibilità e potenzialità ed entrare in relazione con l’altro. Insomma non c’è motivo per pensare che i bambini, litigando, facciano qualcosa di sbagliato.

Viviamo tuttavia in una cultura mediatica estremamente confusiva, dove appunto i concetti di conflitto e guerra/violenza vengono indebitamente sovrapposti. Un’operazione estremamente pericolosa dal punto di vista emotivo e del senso: quello che si crea è un’alienazione semantica, che porta a una sorta di corto circuito concettuale. Il primo passo è dunque capire che conflitto e violenza non sono la stessa cosa.

In quanto essere intelligenti possiamo ricorrere a risorse molto più avanzate ed efficaci rispetto alla violenza. Il conflitto è una forma di autoregolazione che mette in moto la possibilità di valutare le cose da punti di vista differenti, soprattutto quando ci si allontana dai quei fantasmi della colpevolizzazione che ci sono stati imposti molte volte nel corso della nostra infanzia.

In numerosi individui infatti alcune strutture educative diventano, con la crescita e il passaggio all’età adulta, strutture psicologiche. Proprio queste si impongono nel momento del litigio, sfociando in rabbia e violenza: in quei casi è il bambino ferito che parla, non l’adulto che mette al vaglio soluzioni differenti lasciandosi il passato alle spalle.

La prima regola per gestire i conflitti dunque è quella di non affrontarli a livello emotivo: un conflitto gestito emotivamente non è in realtà nemmeno gestito. Bisogna cercare di far decantare le proprie emozioni, altrimenti ne andrà sicuramente di mezzo la buona riuscita dell’atto comunicativo. Risulterà utile mettere una distanza rispetto alle emozioni, senza per questo limitare la fuoriuscita della conflittualità.

Un secondo consiglio è quello di porre domande maieutiche, sforzarsi a capire l’altro invece che attaccare senza pensarci. Il dialogo è uno strumento utilissimo per gettare ponti e costruire soluzioni condivise. Solo in questo modo può esserci un’accensione di contenuti che positivamente può dare ad ognuno la possibilità di esprimere se stesso. Tecniche simili vengono già utilizzate sperimentalmente in scuole di diverso grado, ad esempio predisponendo dei fogli che gli insegnanti consegnano agli studenti e sui quali quest’ultimi possono scrivere per far sentire la propria voce.

La violenza è violenza e come tale potremo limitarla ed evitarla aumentando e migliorando la nostra competenza nella gestione del conflitto. La violenza infatti si allontana nel momento in cui impariamo ad affrontare adeguatamente le contrarietà, attraverso il dialogo e la comunicazione. Molte persone non sono in grado di fare tutto ciò semplicemente perché non sono state educate in maniera opportuna. Tuttavia il fatto che oggi comunque ci poniamo questi problemi e cerchiamo delle modalità per superarli e risolverli è molto positivo e importante. C’è la speranza che si continui su questo percorso, che questo processo di ricerca di autoconsapevolezza continui portando allo sviluppo di una vera e propria cultura della mediazione, del dialogo e della misura.

A cura di G. Guglielmi