L’Afghanistan: un Paese che ci sembra di conoscere attraverso le cronache e le notizie riportate dai media, ma che nasconde al contrario una grande complessità e una bellezza inedita. È questo lato nascosto che il giornalista Valerio Pellizzari vuole raccontare nel suo ultimo libro, In battaglia quando l’uva è matura. Quarant’anni di Afghanistan, edito da Laterza.
L’intento, ha spiegato il giornalista all’inizio della serata, era proprio quello di raccontare come sono andate le cose, ma dal punto di vista degli afghani. Se infatti le immagini di quel Paese che noi occidentali conserviamo nella mente ci riconducono alla sabbia e al deserto, è perché i media ci trasmettono sempre e solo quello stereotipo di Afghanistan. Uno stato vasto in cui vi sono foreste, laghi, fiumi e ruscelli, giardini verdi e profumati: se non conosciamo tutto ciò è semplicemente perché i giornalisti si concentrano tutti nelle zone desertiche, dove sono stanziate le basi militari straniere e dove si concentrano gli episodi di violenza.
L’Afghanistan è un Paese che ha subìto storicamente numerosissime invasioni, fin dall’antichità, da Alessandro Magno per arrivare agli inglesi nel 1800; più recentemente i sovietici e i talebani, ora gli occidentali. Tuttavia è sempre stato un vero e proprio “osso duro”, difficile da piegare e conquistare completamente. Gli inglesi lo avevano per questo ribattezzato “cimitero degli imperi”, definizione che sembra valere tutt’ora.
Spesso ci dimentichiamo che questa è forse la guerra più lunga della storia statunitense (supera in durata quella del Vietnam) e la prima guerra coloniale del terzo millennio, un’operazione che aveva l’obiettivo di esportare il modello di democrazia occidentale in quei luoghi, ma che in realtà col tempo si è piegata a interessi di natura diversa da quelli umanitari, perdendo anche legittimità. Pellizzari infatti racconta delle cifre irrisorie risarcite agli afghani in caso di perdita di famigliari o danni materiali dovuti ai combattimenti, rimborsi che tra l’altro vengono emessi non in denaro ma in merce il cui poco valore offende qualsiasi principio di dignità dell’essere umano. Un popolo che vive questo genere di situazioni e soprusi che idea può farsi della democrazia portata dagli occidentali? Saranno piuttosto portati a credere che il loro sistema non ha nulla da invidiare a quello che gli stranieri vorrebbero imporre loro. Un ministro degli Esteri afghano disse agli inglesi che avrebbero voluto conquistarli che avrebbero potuto offrire al suo popolo moschee ricoperte d’oro, ma loro avrebbero sempre preferito le loro di fango e paglia.
Insomma, la politica estera non può essere portata avanti come scarto di quella interna. Quando si decide di intraprendere un’operazione militare bisogna tenere presente i costi economici e umani richiesti, ma soprattutto bisogna conoscere profondamente il territorio sul quale si va ad operare. L’errore della scelte statunitensi verso la questione afghana è stato spesso quello di dare incarichi di responsabilità a chi in realtà non sapeva dove stava andando, rincorrendo solo la carriera e il denaro.
La verità è che appena si scende in profondità nelle dinamiche di questo conflitto, quando si vive a stretto contatto con la popolazione e con gli attori in gioco, si viene a conoscenza degli enormi flussi economici che sono in corso, della corruzione, degli interessi. Si spiega così perché una guerra ormai palesemente persa venga nonostante tutto portata avanti.
Lo scopo del libro di Pellizzari è stato dunque quello di dare un’immagine più completa dell’Afghanistan e di svelare i meccanismi che si nascondono dietro a questa guerra, di cercare di comprendere in profondità un Paese e la sua cultura allontanandosi da facili stereotipi e luoghi comuni.
Ospite della serata anche Franco Angioni, generale di Corpo d’Armata dell’Esercito Italiano. La vicenda dell’Afghanistan, ha detto, ci interessa da vicino, perché è dieci anni che operiamo là con costi economici e umani. Operazioni di questo tipo vengono effettuate in Stati deboli e non strutturati, in cui per questo motivo è difficile agire. In casi come questo, i rapporti con i rappresentanti locali si fondano su accordi di fiducia di tipo personale e non istituzionale, tramite i quali di volta in volta vengono definiti gli obiettivi.
Nel libro di Pellizzari, Angioni vede un atto di accusa verso ciò che non si sarebbe dovuto fare a livello di politica internazionale. Questa guerra poteva essere evitata. L’11 settembre 2001 ha segnato il destino di un popolo e quel tragico fatto avrebbe potuto essere bloccato alla radice con una più accurata e meno superficiale operazione di intelligence, attraverso l’analisi dei flussi di denaro che si stavano muovendo in Medio Oriente e degli spostamenti di personaggi pericolosi legati al terrorismo internazionale.
In seguito al crollo delle Torri Gemelle e sull’onda dell’indignazione e del desiderio di vendetta, è stata intrapresa poi una guerra che, per trovare pochi responsabili, ha finito per coinvolgere un popolo intero. Con questo non si giustifica, né si misconosce, l’efferatezza e l’orrore di quell’attacco terroristico, ma semplicemente a posteriori possiamo chiederci se potevano essere compiute, a livello politico, scelte diverse, più oculate e più attente alle conseguenze che si sarebbero innescate.
Il libro è solidale nei confronti degli afghani, un popolo che da più di vent’anni soffre prima per l’occupazione russa, poi per le violenze dei talebani, infine per questa guerra che sembra non risolversi. Certo in alcune zone vi sono stati dei miglioramenti, ma il territorio è vastissimo così come lo è la popolazione, in cui si riconoscono ben sette etnie con usi e costumi propri e diversi. È necessario che in questo momento l’attenzione e la sensibilità degli operatori in quel territorio siano altissime, per non assecondare circoli viziosi che rendano l’Afghanistan nuovamente una possibile base del terrorismo internazionale.
A cura di G. Guglielmi