Alcune brevi riflessioni sul nome della rivista che Terreri dirige possono aiutare ad introdurre efficacemente la riflessione sul tema della serata, per il quale ? non a caso ? si è scelto un titolo che mette bene in evidenza il rapporto tra promozione dei diritti umani e le scelte politiche e sociali delle società occidentali. Innanzitutto, il termine “AltrEconomia” evoca un significato non tanto riferibile a concetti economici elaborati in sede teorico-scientifica, quanto ad un’esperienza molto concreta che analizza i fatti economici e sociali in modo diverso dall’economia “classica” e perciò viene a vario titolo chiamata economia sociale, economia solidale o terzo settore.

Il professor Zamagni, a tale riguardo definisce questa realtà nuova col termine di “economia civile” poiché è caratterizzata da una società civile che si organizza al fine di potersi “imporre”, in campo economico, secondo criteri e regole particolari.

Ed è così che si affacciano, sullo scenario del mondo, cooperative di solidarietà sociale, o cooperative per il commercio equo e solidale con i Paesi in via di sviluppo o addirittura istituzioni bancarie che fanno credito alle fasce più deboli della popolazione (l’esperienza più clamorosa è accaduta in Bangladesh, uno dei Paesi più poveri del mondo, ad opera del professor Jumus).

Quest’economia civile propone nuovi criteri nella pratica delle relazioni economico-sociali anche a livello internazionale: si tratta di attività pur sempre economiche e commerciali ma svolte secondo regole che, pur non seguendo i principi del libero mercato, non sono tuttavia neanche qualificabili come “semplice” beneficenza e che potrebbero, in un certo senso, costituire la via per un riconoscimento concreto dei diritti umani nelle zone più sottosviluppate del mondo.

Il 10 dicembre 1948, come si ricorderà, gli Stati sottoscrivevano la “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” con la quale venivano riconosciuti, in capo ai singoli individui, tutta una serie di diritti di cui gli Stati si sarebbero fatti promotori e tutori.

Tuttavia, a cinquant’anni di distanza si può constatare che questa dichiarazione è stata presa sul serio soprattutto da soggetti e da ambiti che non sono statuali: in quest’ultimo decennio, infatti, il portavoce più significativo dei diritti umani sono state le società civili. Ed il 1989, sotto questo aspetto, è stato un anno importante e non solo per la caduta fisica del muro di Berlino: si sono infatti sottovalutati fenomeni assai rilevanti, quali i movimenti di società civili di molti Paesi del Terzo mondo le quali, rivendicando i contenuti della dichiarazione dei diritti umani, hanno cominciato a reclamarli anche contro l’opinione dei propri Stati o, addirittura, contro i propri blocchi politici militari di appartenenza. Tali movimenti sono iniziati in Asia (Tien Ammen, Corea del Sud e Birmania) e situazioni altrettanto simili si sono verificate in Africa, (anche se parrebbe che il resto del mondo non se ne sia reso conto), sotto forma di movimenti civici – soprattutto urbani – che chiedevano, innanzitutto, il riconoscimento dei diritti civili (che sono, peraltro, “propedeutici” rispetto a quelli economici).

Purtroppo l’importanza di queste realtà non è stata riconosciuta, per cui le “energie inascoltate” di queste popolazioni si sono trasformate molto spesso in ben note dolorose tragedie.

Il professor Jumus, fondatore della Banca dei Poveri in Bangladesh, ha affermato che “il credito è un diritto umano” poiché anche le persone più povere hanno il diritto di poter dimostrare le loro capacità, diritto negato soltanto perché la regola è di prestare i soldi a chi già li ha.

Concedere un micro-credito ad un povero del Bangladesh, infatti, significa – per Jumus – responsabilizzarlo consentendogli di realizzare una piccola attività lavorativa che possa migliorare le condizioni della sua vita. Appare, dunque, evidente che la società civile del mondo occidentale ha delle responsabilità nei confronti dei popoli più svantaggiati, avendo anche la possibilità, contrariamente ad essi, di farsi ascoltare in campo economico ed in campo civile.        

 

 

 

Intervento del dr. GIAN GIacomo PACE

(Responsabile Amnesty International Piemonte e Valle d’Aosta, membro coordinamento nazionale Ufficio Stampa di Amnesty International)

 

Nel 1948 gli Stati che firmavano la “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” riconoscevano formalmente i diritti civili ai singoli individui senza, però, prevedere gli strumenti atti a farli valere concretamente. I singoli cittadini erano riconosciuti titolari sia dei diritti politici e civili (i cosiddetti diritti negativi) sia dei diritti economici, sociali e culturali (altresì denominati diritti positivi) ma il loro riconoscimento formale non era sufficiente a garantirne la concreta realizzazione: la tutela effettiva dei diritti umani veniva lasciata agli Stati, in veste di tutori.

Per cinquant’anni le due potenze mondiali si sono vicendevolmente accusate di non rispettare uno dei due rami dei diritti: l’Occidente sosteneva che il blocco socialista non rispettasse i diritti civili e politici (e cioè la libertà di opinione, di associazione, di sciopero…); quest’ultimo, dal canto suo, riteneva che il blocco occidentale non garantisse pienamente i diritti economici sociali e culturali (vale a dire il lavoro, la sanità, l’istruzione per tutti…).

Questo dibattito ha, tuttavia, trascurato il vero problema e cioè che un diritto può essere veramente rispettato solo se è assistito da un sistema procedurale di garanzie (da una sorta di polizia internazionale che possa arrestare e liberamente condannare chiunque violi i diritti umani).

La dichiarazione, pertanto, ha sostanzialmente consentito a coloro che nei propri Paesi non potevano esprimere la propria opinione – i dissidenti politici -, di potersi rifugiare in altri Stati; ma in realtà questo ha “distolto” l’attenzione dai diritti economici, sociali e culturali (che costituivano, invece, il punto centrale della dichiarazione universale).

Occorre, infatti, considerare che è più facile (sempre che sussista una precisa volontà in tal senso) tutelare un diritto politico e civile che non un diritto economico, sociale e culturale: riconoscere la libertà di associazione comporta una quasi immediata realizzazione del diritto di associarsi; viceversa, se in un Paese non esiste il diritto all’istruzione, quand’anche quest’ultimo venisse riconosciuto, occorrerebbero anni per una sua concreta realizzazione 

Si osservi, inoltre, che la globalizzazione non è soltanto un fenomeno economico o un fattore che garantisce la migliore divulgazione delle informazioni, ma fa sì che gli eventi, spesso tragici, accaduti in una parte del mondo, si ripercuotano inevitabilmente in altre aree del pianeta.

Parrebbe però opportuno considerare che, così come sarebbe utile l’intervento degli attori sociali affinché si ottenga il rispetto dei diritti politici e civili, si rivelerebbe altresì importante la collaborazione degli attori economici per il conseguimento dei diritti economici.

Il mondo economico globalizzato, infatti, mettendo in contatto imprenditori di vari Paesi, potrebbe validamente aiutare Amnesty International nel raggiungimento dei suoi obiettivi, (vale a dire, il riconoscimento formale e sostanziale dei diritti umani, anche se la collaborazione richiesta non deve assolutamente arrivare alla totale chiusura dei rapporti con i Paesi che non rispettano tali diritti).

Purtroppo questi cinquant’anni di generalizzata dimenticanza dei diritti economici, sociali e culturali, sono andati a svantaggio, soprattutto, delle donne che hanno subito numerose e gravi violazioni dei loro diritti. I dati, infatti, mostrano che nel mondo ci sono almeno quindici milioni di rifugiati di cui il 75% è composto da donne e bambini che gravitano su Paesi tecnologicamente incapaci di accoglierli. Occorre, pertanto, fare promozione, all’interno delle società occidentali, del diritto d’asilo che rappresenta l’ultima speranza per chi vive in un Stato che non gli concede alcun diritto ma solo la possibilità di allontanarsi.

Tuttavia il diritto d’asilo non deve costituire una sorta di immunità per gli oppositori politici che abbiano, a qualunque titolo, violato gravemente i diritti umani; la legislazione internazionale, a questo proposito, prevede una giurisdizione universale in virtù della quale ogni Stato che ospiti fisicamente chi si sia macchiato di crimini contro l’umanità potrebbe, ed anzi dovrebbe, processarlo.

Amnesty, pertanto, sostiene la via del processo garantito ed auspica l’istituzione di un tribunale penale internazionale.

 

 

 

 

Principali approfondimenti del dibattito

 

 

* A fronte di quanto si è detto ci si chiede se non sia necessario responsabilizzarsi come società civile e predisporsi ad accogliere i numerosi curdi e le torme di disperati che approdano nel nostro Paese, nella speranza di trovare condizioni di vita migliore (dr. Terreri).

* Si osserva come l’opera di Jumus dimostri che si possa tentare di contrastare una situazione di estrema povertà come quella del Bangladesh, senza l’aiuto del modello occidentale e dando anche, fatto insolito in quei luoghi, maggiore fiducia alle donne diffidando, invece, dell’aiuto troppo burocratico e facilmente corruttibile, del Fondo Monetario Internazionale (prof.ssa Martinetti).

* Si chiede se Amnesty International preveda, fra le sue attività, anche la promozione di una formazione pedagogica delle popolazioni atta a favorire la concreta realizzazione dei diritti umani, soprattutto di quelli economici, sociali e culturali che necessitano, per il loro riconoscimento sostanziale, anche di un adeguato supporto educativo-culturale (prof. Piana).

* Si chiedono chiarimenti sulla Banca dei poveri del Bangladesh, e, precisamente, come essa raccolga i fondi, quali garanzie abbia e quali risultati ottenga. Si domanda inoltre un parere circa l’efficacia della difesa d’ufficio come strumento di tutela dei diritti dell’uomo (rag. Borelli).

 

 La fiducia che Jumus dà alle donne costituisce un’innovazione clamorosa in zone come il Bangladesh dove la donna i soldi non li maneggiava per principio. La Banca di Jumus ha un attivo di circa 2000 miliardi di lire ed ha un tasso di rientro dei crediti che supera il 95% poiché non si limita soltanto a prestare denaro ma anche ad educare i propri clienti responsabilizzandoli. Il meccanismo specifico, poi, si basa anche su un processo di garanzie di tipo comunitario: il credito, infatti, non viene dato ad una sola persona ma ad un gruppo di cinque le quali hanno la responsabilità vicendevole di garantire la restituzione del prestito; quest’esperienza dimostra che un valore extraeconomico come la mutualità e la solidarietà, in certe condizioni diventa un vantaggio competitivo sul piano economico.

       Nel mondo ci sono circa quindici milioni di clienti di questo tipo di banche, presenti soprattutto in Asia, in America Latina e d in Africa – dove incontrano, però, maggiori difficoltà. (dr. Terreri)

  La convenzione di Ginevra riconosce il titolo di rifugiato politico soltanto a chi abbia subito individualmente una violazione dei diritti umani, per cui i curdi che sbarcano sulle coste italiane, a meno che non dimostrino di aver subito tale individuale violazione, non avrebbero diritto d’asilo. Amnesty, a questo esatto proposito, chiede che si proceda ad una revisione legislativa affinché si preveda anche la tutela di quelle situazioni in cui i diritti umani siano soltanto messi in pericolo. E’ stata comunque creata una forma di status diverso, quella del rifugiato per motivi umanitari che permette, attualmente anche ai curdi, di beneficiare di una linea preferenziale di fronte alla commissione che valuta le istanze dei rifugiati politici.

      Occorre, poi, osservare che la Dichiarazione dei diritti umani non nasce per regolare la vita tra gli esseri umani ma per porre un limite alla sovranità degli Stati affinché non riducano i propri cittadini in condizioni di sudditanza. Essa, dunque, non è un testo etico ma dichiara sostanzialmente che nessun uomo e nessuno Stato può arbitrariamente limitare i diritti riconosciuti ad un altro essere umano.

      La promozione di una formazione pedagogica delle popolazioni, pertanto, non rientra fra i compiti diretti di Amnesty, ma costituisce un dovere degli Stati (ed Amnesty, dal canto suo, può solo insistere affinché essi comprendano la necessità di favorire la cultura e lo sviluppo).Ed anche per quanto riguarda il problema della difesa d’ufficio, Amnesty non ha il compito di dire come tale diritto debba essere garantito ma si preoccupa dell’effettiva possibilità che si abbia un diritto alla difesa pieno, libero e imparziale (dr. Pace).

 

* Si sottolinea come i processi di tipo spontaneo, originati dalla società civile, sembrerebbero produrre “sistemi” meno duraturi e meno solidi di quelli sorti sulla base di convenzioni, evidenziando con ciò l’importanza delle strutture di diritto positivo. Si constata, inoltre, che la realizzazione dei diritti economici, sociali e culturali dipenda dalle risorse di un Paese, dalla sua organizzazione politica ma anche da un contributo responsabile dei cittadini (dr. Lenti). 

* L’economia civile parrebbe un’interpretazione più intelligente dei concetti economici “standard”, tuttavia anche piuttosto utopistica. La storia, infatti, insegna che la grande istituzione collettivistica è fallita, e pertanto quest’economia solidale dovrebbe partire dal presupposto che la creazione della ricchezza di un Paese non sia legata essenzialmente allo sfruttamento degli Stati più poveri ma soprattutto ad un fattore culturale delle popolazioni medesime (prof. Argeri).

* Ci si chiede se la promozione e la difesa concreta dei diritti umani nel mondo non si traduca, nel lungo periodo, anche in un vantaggio di tipo economico (dr. Galliani).

 

  Amnesty International lavora sul fronte della promozione affinché gli Stati si impegnino ad apprestare le strutture necessarie per una concreta tutela dei diritti umani, soprattutto di quelli economici, sociali e culturali per la cui realizzazione occorrono interventi positivi (e non la semplice astensione dall’impedimento). Gli Stati, inoltre, dovrebbero valutare che un tempestivo intervento a favore della difesa dei diritti umani nel mondo potrebbe comunque rivelarsi più conveniente anche in termini economici (considerando che le ripercussioni di certi fenomeni comportano costi ingenti) (dr. Pace).

  Nell’ambito dei diritti economici, sociali e culturali ci sarebbe un problema di diritto negativo analogo a quello dei diritti civili: l’appropriazione diseguale delle ricchezze costituisce, oltre un certo limite, un sostanziale impedimento allo sviluppo delle capacità e delle possibilità di altre popolazioni per le quali l’inserimento nel contesto dell’economia internazionale appare sempre più difficile. Infatti, un meccanismo economico che contemporaneamente genera situazioni di prosperità e situazioni di totale emarginazione fa discutere circa una possibile irresponsabilità dei Paesi avvantaggiati nei confronti degli esclusi. L’economia solidale tenta, perciò, di promuovere una forma di mercato che porti all’uguaglianza attraverso l’introduzione di criteri economici (diversi da quelli tipici del libero mercato) che possono produrre un indice di sviluppo umano più omogeneo e non orientato alla polarizzazione. Occorrerebbe, pertanto, che i Paesi ricchi sentissero il dovere morale di attivarsi per consentire anche ad altri popoli di svilupparsi e di migliorare – e, a questo scopo, un ruolo fondamentale potrebbe essere giocato più dalle forze sociali che dagli Stati. (dr. Terreri).

 

* Si osserva che un’indagine circa le responsabilità ed i meccanismi che avrebbero determinato il sottosviluppo sia necessaria al fine di prospettare delle soluzioni adeguate e si chiedono, pertanto, pareri in merito. Guardando, poi, alla situazione curda e al “caso Oçalan”, si domanda se e come Amnesty International distingua tra terrorismo e lotta di liberazione (sig. Barberis).

* In considerazione del fatto che nel mondo si verificano costantemente conflitti di interessi, ci si chiede se Amnesty si sia trovata di fronte a conflitti tra diritti (ing. Bennati).   

* Si sottolinea l’importanza della responsabilità degli attori sociali dell’Occidente nei confronti dei Paesi più poveri e si ritiene sia opportuno promuovere condizioni atte a garantire i diritti umani nel rispetto, però, delle culture proprie di ogni civiltà. Occorre, poi, non sottovalutare completamente il ruolo delle Nazioni Unite che si stanno attivando soprattutto attraverso quell’insieme di Agenzie specializzate che hanno come obiettivo la promozione dello sviluppo socio-economico-culturale nel mondo, soprattutto delle aree più indigenti (dr. Astori).

* Di fronte al “caso Oçalan” i Paesi dell’Unione Europea hanno dimostrato una scarsa capacità di accordo, perdendo, forse, l’occasione di agire come uno “Stato” veramente unitario. Si chiedono, pertanto, pareri in merito (dr. Piazza).

* Si domanda se Amnesty abbia dei legami con l’ONU o agisca da sola (sig. Panunzio).

* Si evidenzia che il concetto di cultura non è assoluto e, pertanto, le differenze culturali non sarebbero sempre sinonimo di arretratezza (Sig. Bianchi).

 

  Amnesty è un’associazione indipendente, privata ed ha solo uno statuto consultivo presso l’Assemblea generale delle Nazioni Unite che le conferisce il diritto di “parlare”. 

      Per quel che riguarda, poi, la differenza tra terrorismo e lotta di liberazione è opportuno sottolineare che ad Amnesty non interessano le ragioni e le motivazioni che spingono le popolazioni a battersi giungendo anche a violare i diritti umani; queste, infatti, sono valutazioni di carattere storico e trovano una loro regolazione nel diritto umanitario sancito nelle convenzioni di Ginevra. Amnesty, dunque, non ha il diritto di decidere quale sia la motivazione suffìciente per combattere; qualora, però, si combatta chiede che siano rispettate le norme del diritto bellico ed assolutamente tutelati i diritti umani dei civili e dei non belligeranti. Allo stesso modo, Amnesty non giudica certamente le culture dei popoli: la sua preoccupazione principale è che gli Stati si impegnino a realizzare ciò che hanno sottoscritto in materia di diritti umani.

      Circa i possibili conflitti tra diritti, si osserva che nell’ambito di quelli civili e politici è improbabile che si verifichino situazioni di contrasto; è invece più facile un conflitto tra  quelli economici, sociali e culturali  e quelli civili e politici così come tra gli stessi diritti economici. E ciò è dovuto al fatto che i diritti economici spesso riguardano l’appropriazione di beni e cioè di risorse scarse che non sono disponibili per tutti in eguale misura.. I conflitti, tuttavia, andrebbero risolti nelle opportune sedi istituzionali (dr. Pace).

  Si sottolinea l’importanza di considerare come spesso il termine di libero mercato sia usato per definire un contesto economico che appare tale ma che in realtà è quello di un mercato oligopolistico dove la potenza di un soggetto conta anche più della capacità di proporre e di imporre un prodotto sul mercato per le sue qualità.

      Il mercato, infatti, si configura sovente come un contesto in cui valgono soprattutto i rapporti di forza tanto che «i piani alti del capitalismo non sarebbero i piani del mercato ma quelli del contromercato» (Brodel). Esiste allora un serio problema di responsabilità dell’Occidente nei confronti di una garanzia del diritto allo sviluppo (di cui tutti sono titolari): occorrerebbe creare degli spazi perché ogni popolazione del mondo possa tentare di inserirsi in un mercato che non sia viziato da meccanismi di collusione e di forza.

      E venendo alla situazione europea, si osserva che i Paesi costituenti l’Unione Europea dovrebbero promuovere non solo un’unione economica ma soprattutto un’unione politica.

      L’Unione Europea, infatti, potrebbe diventare una sorta di gigante politico che imponga la promozione di una politica estera a favore dei diritti umani e la nostra responsabilità, come cittadini europei, sarebbe dunque quella di chiedere all’Europa di differenziarsi sullo scenario del mondo proprio attraverso questa politica di promozione dei diritti umani (dr. Terreri).

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