Per analizzare la situazione politica ed economica dell’area balcanica, creatasi a seguito del recente conflitto in Kosovo, è utile porre l’attenzione su due fondamentali aspetti: la congruenza fra gli strumenti militari adottati e gli obiettivi politici effettivamente raggiunti con l’operazione Nato da un lato, e dall’altro, il riassetto generale degli equilibri geopolitici in un’area, quale è quella bal­canica, in cui le questioni legate alla titolarità del potere economico e politico si intersecano con quelle delle rivendicazioni etniche locali e degli interessi egemonici occidentali

Il Kosovo avrebbe dovuto essere infatti la prima regione liberata in modo esemplare dalla nuova guerra umanitaria, con la restaurazione dei diritti umani; invece è facile riscontrare quanto rischi di rima­nere un campo militare trincerato a tempo indeterminato.

è bene dunque riflettere attentamente su quanto è successo, sebbene sia percepibile nell’opinione pubblica occidentale una certa propensione a «non parlarne più» e a dichiarare in qualche modo chiusa la vicenda serbo-kosovara: soprattutto da parte di chi l’ha difesa con nobili argomenti ma con scarsa preveggenza politica.

Infatti, che il Kosovo potesse rimanere per sempre diviso, secondo criteri sostanzialmente etnici, sotto costante protezione militare internazionale, con uno statuto costituzionale incerto, sempre esposto a violente rivendicazioni a mano armata (da parte dell’Uck); che potesse addirittura costituire un possi­bile terreno fertile per la ripresa di una possibile ? seppure al momento latente ? contrapposizione fra Nato e Russia: tutto ciò non era evidentemente stato né previsto né immaginato dalla maggior parte de­gli interventisti umanitari.

Ma è indubbio che tutto ciò si presenti oggi come una tragica realtà, le cui premesse storico-econo­mico-politiche erano già in qualche modo implicite nelle stesse modalità con cui si era decisa e condotta l’azione bellica nei famosi «settantadue giorni»: uno scenario sommessamente (ma lucidamente) segna­lato fin dall’inizio della vicenda da più di uno tra i commentatori occidentali ? molti dei quali, peraltro, sono stati giudicati al pari di vittime incurabili dei relitti della realpolitik, concezione del tutto superata, secondo alcuni, nell’attuale «nuova era» dei diritti.

 

Se dunque l’azione militare della Nato contro la Serbia è stata presentata dalle potenze occiden­tali (Stati Uniti e Gran Bretagna in primis) come il modello di «guerre di ingerenza umanitaria» che le democrazie dovrebbero/potrebbero condurre in futuro, è bene approfondire attentamente il suo significato, gli obiettivi che realmente essa ha preteso di conseguire e soprattutto il rapporto tra i mezzi utilizzati e gli scopi raggiunti, muovendo innanzitutto da una precisa disamina dell’operazione aerea la cui portata è stata tale da giustificare ? per alcuni ? l’affermazione definitiva del concetto di «potere ae­reo».

Oltre a questo, è opportuno tenere in debita considerazione anche la dimensione comunicativa che ha accompagnato l’intera vicenda, al fine di giudicare l’azione bellica della Nato nella vastità dei suoi molteplici risvolti e con la necessaria obiettività.

È, infatti, indubbio che iniziative militari e politiche del genere siano possibili soltanto se sostenute dal consenso di gran parte dell’opinione pubblica democratica, sebbene non possa passare inosservato il fatto che il grado di consenso manifestato è stato in buona parte ottenuto proprio grazie all’ambiguità di esplicazione dei modi, dei tempi e degli effetti previsti dell’operazione.

 

Più specificamente, l’azione della Nato si è configurata inizialmente come una strategia coerci­tiva a sostegno della mediazione tra i contendenti della crisi politica serbo?kosovara (mediazione presuntivamente forzata con gli accordi di Raimbouillet). Ciò significa che la Nato mirava fondamental­mente a portare al tavolo delle trattative Milosevic, il quale, dal canto suo, si è mantenuto ben fermo su posizioni intransigenti: questo almeno è il messaggio che si è lasciato credere all’opinione pubblica.

In realtà, non sono mai stati chiari i reali margini di trattativa con Milosevic, mentre risulta certo che i documenti ufficiali Nato parlavano generalmente di «condizioni» che il leader serbo doveva accettare sebbene non sempre tali condizioni avevano il tono perentorio del diktat.

Oltre a ciò, l’imprevista resistenza di Belgrado ai bombardamenti della prima settimana (o, per altro verso, l’inadeguatezza dello strumento aereo impiegato nelle ridotte dimensioni iniziali ? e quindi la necessità di intensificare i raid) ha poi, di fatto, creato una vera e propria confusione tra obiettivi militari e fine politico tanto da mutare nel volgere di poco tempo la natura stessa dell’intera ope­razione. Infatti, è evidente che mentre nei primi giorni dell’operazione nessuno aveva né pensato né parlato di paralizzare e mettere in ginocchio l’intera economia della Serbia, al contrario la «logica mili­tare» ? che imponeva l’intensificazione delle incursioni aeree e poi dava alla concentrazione di cinquan­tamila uomini ai confini del Kosovo (ivi raccolti con compiti «umanitari») la funzione intimidatoria di un possibile intervento armato ? forniva una nuova e diversa caratterizzazione politica all’impresa.

È vero, tuttavia, che pochi commentatori hanno colto questo salto di qualità, perché il dibattito pub­blico nel frattempo era tutto concentrato sulla tragedia dei profughi e quindi sulla necessità di ripetere ad alta voce e rafforzare le «buone ragioni» dell’intervento.

 

Tornando all’operazione Nato, è a questo punto doveroso domandarsi se essa possa passare l’esame con cui si giudica una qualunque impresa militare secondo i seguenti tre criteri:

 

·               l’univoca definizione degli obiettivi;

·               l’adeguatezza dello scopo politico della strategia adottata;

·               la previsione di effetti indesiderati.

 

Si è convinti che secondo nessuno dei tre criteri ora menzionati l’azione Nato contro la Serbia possa pretendere di ottenere un «buon giudizio», a cominciare dalla definizione degli obiettivi ? o meglio dalla determinazione dell’obiettivo militare rispetto allo scopo politico prefissato.

Si tratta di una distinzione essenziale proprio in considerazione della natura coercitiva (quindi limi­tata) dell’operazione contro la Serbia che presupponeva un’altra selettività degli obiettivi militari. Con il trascorrere delle settimane si è invece assistito al paradosso di obiettivi militari Nato che venivano di­chiarati «raggiunti» ma nello stesso tempo riformulati per il perseguimento di uno «scopo politico» che sfuggiva continuamente. Per meglio dire, la situazione presentava il chiaro raggiungimento (e la so­stanzialmente corretta declinazione) degli obiettivi militari, mentre lo scopo politico esplicitato con­tinuava a risultare labile e di fatto «politicamente indeterminato», a meno di non intendere come «vero» obiettivo politico quello di ottenere la resa senza condizioni di Milosevic ? o, ancor meglio, la fine del regime nazional-comunista di Belgrado.

In questo senso, troverebbe fondamento la tesi secondo cui si sarebbe passati dalla volontà di costrin­gere con la forza l’avversario a trattare in nome di «buone ragioni» a quella di distruggerlo perché egli «non è in grado di sentire buone ragioni».

 

I° intervento del dr. ENZO BETTIZA

 

Per rispondere al quesito (avanzato dal precedente relatore) relativo alla sussistenza o meno di una consistente asimmetria fra i mezzi militari e gli scopi politici dell’intervento della Nato si ritiene neces­sario allargare il quadro d’osservazione «intorno» all’evento tragico e politicamente rilevante della guerra in Kosovo: sia geograficamente ? prendendo in considerazione l’area balcanica nel suo com­plesso fino alla Turchia ? sia temporalmente ? analizzando complessivamente un decennio di ininter­rotta crisi dell’ex Jugoslavia.

Alla luce di questa prospettiva analitica, occorre rilevare innanzitutto come l’obiettivo fondamentale della Nato non sia parso tanto essere la ricerca dell’«umiliazione» della Serbia, bensì piuttosto, per un verso, il contenimento dei fattori destabilizzanti che per dieci anni hanno imperversato sull’area più sensibile dell’Europa post-comunista e, per altro verso, l’«amputazione» delle prospettive egemoni­che del braccio armato serbo.

La Serbia infatti ha non solo ha disgregato la vecchia Jugoslavia, ma ha anche minacciato di sterminio i musulmani bosniaci e di genocidio due milioni di kosovari. In particolare (da un punto di vista geopoli­tico), ha messo in pericolo la quiete e la stabilità della Macedonia, della Bulgaria, nonché della Grecia e della Turchia (questi ultimi Paesi membri della Nato di importanza strategica fondamentale).

è dunque perfettamente condivisibile la tesi di chi sostiene che «il motore», la motivazione ideale e sostanziale dell’azione Nato sia stata non solo la volontà di salvare la nazione kosovara dall’estinzione etnica, ma anche (e soprattutto) la preoccupazione ? tipica di una conduzione egemo­nica improntata alla realpolitik quale quelle della maggiori potenze occidentali ? di assicurare l’integrità territoriale e la stabilità del fianco sudorientale della Nato stessa.

Pertanto, a fronte di tali considerazioni, pare lecito affermare da subito ? e a prescindere da ogni altra più particolare considerazione sul rapporto tra mezzi bellici utilizzati e finalità geopolitiche generali ? che il conflitto con la Serbia abbia visto la Nato e i Paesi occidentali implicati nell’azione bellica riuscire sostanzialmente a perseguire gli obiettivi «politici» fondamentali che, in modo lucido, si erano posti almeno successivamente alla sfortunata e insoddisfacente conclusione del tentativo diploma­tico di Raimbouillet.

 

 

II° intervento del prof. GIAN ENRICO RUSCONI

 

Oggetto primario di questo secondo intervento è analizzare nella sua complessità (e nella sua reale ipotizzabilità) la cosiddetta «pacificazione» che si sta realizzando nel Kosovo dopo il conflitto.

Entrando nel vivo della disamina, viene da domandarsi innanzitutto se sia effettivamente possi­bile immaginare una società civile pacificata nel Kosovo, in presenza di (ormai) pochi Serbi e di una moltitudine di kosovari di etnia albanese, o se invece tutto ciò sia una mera illusione se non si determina forzatamente il trasferimento altrove di tutti i serbi rimasti.

In secondo luogo, non dovrebbe passare inosservato il fatto che, volendo analizzare le diverse ipotesi di soluzione atte a far superare la situazione di «congelamento» politico ed economico che attualmente sta caratterizzando l’area balcanica nel suo complesso, non si possa prescindere dal richiamo a un ruolo forte e politicamente significativo dell’Unione Europea.

L’Unione Europea, infatti, per quanto abbia manifestato una preoccupazione più «univoca» e con­divisa rispetto alle modalità di valutazione e gestione dei rapporti diplomatici nelle precedenti situazioni conflittuali che hanno portato al drammatico smembramento della Jugoslavia (e alla costituzione e rico­noscimento internazionale di Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Serbia e Macedonia), non è co­munque parsa capace nel caso del Kosovo di esprimere un «profilo alto» di politica internazionale ? e questo, non solo a causa della mancanza di un esercito europeo o almeno di una forza di intervento militare coordinato dai vertici dell’Unione Europea in quanto tale, ma soprattutto perché permangono ancora forti ragioni di «opportunità politica» e tendenze all’appiattimento sulle decisioni anglo-americane che complessivamente ritardano la presa di coscienza del ruolo internazionale che spetta all’Unione Europea.

II° intervento del dr. ENZO BETTIZA

 

A questo punto, le sollecitazioni e le valutazioni del prof. Rusconi inducono a considerare importante un chiarimento su quali potrebbero essere le «soluzioni istituzionali» e di riassetto geopolitico complessivo della ex-Jugoslavia.

Se si sceglie come criterio (ragionevole) quello di individuare ipotesi di configurazione «stabile» di un’area appena uscita da non uno, ma dieci anni di conflitti quale quella jugoslava, allora due paiono le possibili soluzioni istituzionali più spendibili (almeno da un punto di vista teorico generale):

 

·                    la creazione di una (nuova) confederazione jugoslava che comprenda la Serbia, il Ko­sovo, il Montenegro e che strutturi i rapporti tra gli stati membri sul «modello canto­nale» della Svizzera (e che consenta di far recuperare al Kosovo quell’ampia autonomia da «repubblica confederata» che già di fatto Tito le aveva riconosciuta e che Milosevic aveva cancellato di colpo preparando il terreno per la recrudescenza dell’odio etnico tra serbi e ko­sovari albanesi).

·                    il riconoscimento dell’indipendenza «totale» del Kosovo, all’interno di uno scenario che veda premiata l’aspirazione di «tutte» le repubbliche della ex-Jugoslavia a costituirsi Stati indipendenti e sovrani.

 

Si deve comunque tenere presente quanto il potere di Milosevic, fondato su ottantamila poliziotti specializzati, sia destinato inevitabilmente a venir meno se si pensa (perlomeno) a come, sempre più, i serbi rimproverino a Milosevic non tanto il genocidio in Kosovo quanto di aver perso le guerre di Bosnia e del Kosovo. La situazione è in ogni caso complessa e risulta veramente difficile formulare pre­visioni precise su come si strutturerà il riassetto strategico nella ex-Jugoslavia e, più in generale, nell’area balcanica.

Tuttavia, non si può non condividere l’auspicio di Rusconi circa un maggiore impegno dell’Unione Europea in questa regione: anzi, si è convinti che «elemento cardine» della pacifica­zione nei Balcani sia proprio il processo di unificazione europea e la qualità dei risultati che esso sarà in grado di raggiungere a livello di formulazione e gestione della politica di sicurezza comune e di politica internazionale.

 

 

 

 

 




 

 

PRINCIPALI APPROFONDIMENTI DEL DIBATTITO

 

 

 

 

v     Si osserva che la conquista dell’indipendenza e della sovranità piena da parte della Slovenia e della Croazia ha visto i Paesi membri dell’Unione Europea interpretare ruoli e strategie diplomatiche ancora molto legate agli indirizzi e alle «sensibilità» di conduzione dei rapporti diplomatici direttamente «figlie» delle tradizioni Otto-Novecentesche: la Francia ha sostenuto una politica filo-serba, la Germania, dal canto suo, filo-croata e l’Italia cattolica, una politica filo-croata. Pare evidente invece come l’Unione Europea, per la prima volta abbia affrontato un problema (quello dei Balcani) in maniera unita­ria, o quantomeno con l’intenzione di convincere che non si sarebbero più tollerate azioni desta­bilizzanti. Si chiede, a questo riguardo, se il mantenimento di un approccio di tale genere (e la con­seguenze formulazione del recente «patto di stabilità»), oltre ad avere una valenza positiva, possa essere prefigurabile nel medio-lungo periodo (dr. R. Lenti).

v     Si osserva come la soluzione più drammatica adottata dalla Nato per riportare la pacificazione nei Balcani (ossia l’utilizzo dei bombardamenti contro la Serbia all’interno di un’enfatizzazione del «potere aereo») ammetta in sé l’ipotesi di operare una grande successiva «ricostruzione» del terri­torio, delle strutture e soprattutto delle infrastrutture distrutte (con particolare riferimento agli obiettivi strategici industriali). Si chiede tuttavia se l’attuale processo ricostruttivo-pacificatorio debba essere sostanzialmente inteso all’interno di una «logica di scambio» tra Occidente e Serbia tale per cui le potenze della Nato (e l’Unione Europea) sarebbero disponibili a fornire ingenti aiuti eco­nomici a Belgrado solo a condizione di un’evoluzione in senso democratico del regime di Milosevic, op­pure se alla fine prevarranno i meri interessi economici dei Paesi occidentali rispetto alle giuste aspettative di correttezza richieste allo «sconfitto» relativamente al riconoscimento del diritto e della liberal-democrazia (ing. P. Parodi).

 

Ø        Il «patto di stabilità» recentemente redatto riguarda l’assenso per l’erogazione di un cospicuo aiuto economico ? si tratta di un intervento dell’ordine di dodicimila miliardi di lire ? ma l’afflusso di denaro non potrà dimenticare certamente la Serbia.

È vero però che non è ancora chiaro se tale intervento debba essere molto selettivo (e riguar­dare esclusivamente aiuti umanitari per la popolazione civile) oppure possa rivolgersi anche a operazioni ricostruttive di tipo strutturale per il comparto industriale serbo.

Più in generale, sussiste il problema di come specificare «politicamente» l’aiuto economico da elargire a Belgrado poiché, in ogni caso, esso si presenterebbe come un importante elemento di auspicabile «razionalizzazione democratica» della Serbia ? che vede inevitabilmente coinvolte le economie europee e americane.

D’altra parte, senza un forte aiuto economico la Serbia finirà di rimanere completamente ab­bandonata a sé stessa, in balia di forze politiche nazional-comuniste arroganti e di una società civile appiattita su nostalgiche rivendicazioni di superiorità etnica. È dunque opportuno imma­ginare, in un certo senso, di «comprare con il denaro» la razionalizzazione della Serbia, la quale con un governo «più morbido» potrebbe venire incontro alle aspettative degli occidentali e a quelle dei kosovari per risolvere (auspicabilmente) su basi confederali, oppure su basi di piena indipendenza, la questione kosovara all’interno di un’area balcanica resa più stabile e realmente pacificata (prof. G.E. Rusconi).

 

 

v     Alle forze intervenute nei Balcani si rimprovera, da più parti, la scarsa razionalità che ha ca­ratterizzato molte delle loro azioni. Si domanda se sarebbe stato possibile o meno condurre una cam­pagna militare secondo criteri di maggiore efficienza. Si osserva inoltre che la guerra nei Balcani sembre­rebbe essere stata particolarmente «mediatica», nel senso di «combattuta con i media». Si chiede per­tanto un’opinione circa il ruolo che i media hanno effettivamente svolto durante le operazioni mi­litari in Kosovo (prof. G. Rinaldi).

v     Partendo dal presupposto che la Jugoslavia rimane un paese altamente a rischio per i conflitti etnici e razziali, si chiede se vi siano fondate ragioni di preoccupazione da parte delle popolazioni residenti nel Nord della ex-Jugoslavia (in particolare, Sloveni più ancora che Croati) a fronte dell’insorgere in Austria di un nuovo clima nazional-fascista, data la vittoria del partito di estrema destra alle ultime elezioni (dr. W. Giacchero).

 

Ø        Il conflitto in Kosovo ha messo indubbiamente in luce la difficoltà per gli osservatori occiden­tali e per gli studiosi di strategie militari di individuare la qualità e il grado di «razionalità» degli interventi della Nato. È palese tuttavia che i militari occidentali non abbiano compreso adeguatamente ? e in itinere ? cosa in realtà si volesse raggiungere da un punto di vista politico generale nei confronti della Serbia e non si sia stata adeguata corrispondenza tra uso dei mezzi bellici e perseguimento degli scopi politici (prof. G.E. Rusconi).

Ø        I media erano falsi all’inizio della crisi, quando erano prevalentemente filo-serbi e anti-croati. In seguito, una volta compreso che il «baco della mela» era il potere serbo, che in un solo de­cennio ha portato la Serbia alla distruzione, allora i media hanno svolto il loro compito infor­mativo in modo sostanzialmente adeguato e corretto. È , peraltro, fuori discussione che non spetti ai media dichiarare se l’obiettivo ultimo dell’intervento militare debba essere la caduta di un «Milosevic» o (solo) la salvezza dei kosovari o di altre popolazioni colpite da attacchi ingiu­stificati alla loro sopravvivenza etnica (dr. E. Bettiza).

Rispondendo all’ultima questione posta, si è convinti che gli Slavi del Nord, presenti nella Ca­rinzia austriaca come una forte minoranza, incontreranno molto probabilmente delle difficoltà a causa del nascente populismo para-nazista. In particolare, il nuovo clima nazional-fascista potrebbe determinare due rilevanti conseguenze: da un lato, mettere in cattiva luce l’appartenenza dell’Austria all’Unione Europea, e dall’altro lato rendere più incerto (da un punto di vista politico) il prossimo ingresso della Slovenia quale paese membro dell’Unione Europea (dr. E. Bettiza).

 

 

v     Si domanda quale sia il ruolo svolto dalla mafia nel processo di ricostruzione dei Balcani (dott.ssa L. Martinetti).

 

Ø        Dove c’è guerra, c’è corruzione, dove c’è ricostruzione, c’è ladrocinio. È in qualche modo uto­pico pensare di determinare l’esclusione delle mafie da un processo di ricchezza ricostruttiva. È semmai necessario ? o quantomeno opportuno ? trovare il metodo per limitare il più possibile la proliferazione e il consolidamento del Male.

Nel caso specifico, è bene trarre insegnamento dall’esperienza albanese, impegnandosi in una riflessione seria e lungimirante a pensare quale sia la possibile strada per preservare in modo adeguato la ricostruzione del Kosovo e della stessa Serbia (ma, se si vuole, anche della Bosnia devastata dal recente conflitto) da un «eccesso» di infiltrazione mafiosa: le vie da seguire non potranno prescindere da un’attenzione particolare all’azione di «aiuto» sia di tipo economico e sociale e, parallelamente, a un’azione di «controllo» relativo agli usi che ordinariamente ven­gono fatti degli aiuti esterni ricevuti (dr. E. Bettiza).

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