1. Lo scenario della riflessione

 

Secondo  Michael Walzer, filosofo della politica americano,  nelle società occidentali  è oggi possibile distinguere due categorie di persone: cittadini a pieno titolo e altri che non sono riconosciuti come tali pur lavorando più o meno regolarmente (Walzer, 1987). Egli ricorda come nell’antica Atene convivessero  due tipi di residenti: gli ateniesi, cittadini a pieno titolo, e i meteci, stranieri tollerati in quanto utili ma sprovvisti di cittadinanza. Al governo della città erano ammessi solo i cittadini e non gli stranieri. È questa probabilmente la forma di tirannia più comune nella storia dell’umanità: la negazione dell’appartenenza, che diviene il primo anello di una lunga catena di abusi.

La questione dei lavoratori migranti richiama allora non delle categorie specifiche di persone da tutelare e proteggere, ma tocca un punto fondamentale di una società che si mostra incapace  di invertire quella tendenza perniciosa che colloca nel cuore della democrazia la divaricazione tra cittadini a pieno titolo e non cittadini, forse tollerati in quanto utili, ma sempre relativamente e in maniera condizionata.

Nello stesso tempo, credo abbia ragione Bastenier (1991) nel sottolineare come il tema dell’immigrazione sia uno di quelli più suscettibili di creare stereotipi, perché mette in moto tutta una serie di fantasmi, di paure, di vissuti problematici da parte delle popolazioni residenti che, a torto o a ragione, si sentono in qualche modo minacciate o comunque indotte ad identificare nell’immigrato il capro espiatorio della tensione.

 

2. I processi migratori

 

            Generalmente per giustificare un atteggiamento di accoglienza nei confronti degli immigrati si  suole sottolineare le ragioni che portano le persone a uscire dal loro paese e a cercare rifugio in altri. La miseria, senza troppe specificazioni, viene assunta come la spiegazione auto-evidente dei processi migratori. Come si dice tecnicamente, sarebbero largamente prevalenti i ?fattori di spinta?.

Certamente ci sono migranti di tanti tipi: ci sono persone che arrivano perché spinte dalla guerra, o dalle persecuzioni; altre sono sollecitate  dalle distanze economiche; altre volte sono le condizioni istituzionali e anche strutturali che orientano i flussi migratori verso una nazione o un’altra. (cfr. tabella n.1)

 

Tab.1 Uno schema per l’analisi dei processi migratori

 


















 


Dimensioni formali

Dimensioni informali

Livello macro (relazioni internazionali)

§         Leggi sull’immigrazione: sistemi delle quote, disposizioni per l’accoglienza di rifugiati, ecc.

§         Accordi formali tra Stati

§         Disposizioni relative all’accesso alla cittadinanza

§         Diritti e politiche sociali per gli immigrati

§         Permeabilità di fatto di alcune frontiere

§         Domanda non esplicita di lavoro immigrato

§         Differenziali di reddito tra paesi d’origine e di approdo

§         Influenza della comunicazione di massa

Livello intermedio (network migratori, reti e agenzie autoctone)

§         Norme sui ricongiungimenti familiari

§         Forme di sponsorship

§         Formazione di minoranze organizzate e dotate di istituzioni riconosciute

§         Servizi formali per gli immigrati

§         Formazione di reti informali di mutuo aiuto

§         Specializzazioni etniche

§         Catene migratorie

§         Istituzioni facilitatrici

§         Reti di sostegno autoctone

Livello micro (individui e famiglie)

§         Attivazione di procedure legali per l’emigrazione

§         Rimesse inviate mediante canali istituzionali

§         Decisioni (individuali e familiari) di emigrazione

§         Rimesse inviate attraverso canali informali

§         Attivazione di meccanismi di richiamo

 

Un altro elemento è il fatto che esistano dei settori economici che, in un modo o nell’altro, attirano e danno lavoro agli stranieri. In Italia la vasta economia sommersa e il dinamico mondo delle piccole imprese si sono rivelati terreno fertile per attirare regolarmente o irregolarmente mano d’opera straniera.

Ma tutto questo non è sufficiente a spiegare il fenomeno. Bisogna constatare, infatti, che gli immigrati non arrivano in genere dai paesi più poveri, dalle zone del mondo dove maggiore è la morsa della fame e della miseria, ma dai paesi in cui si comincia a scorgere la possibilità di una vita migliore, dove si comincia ad aprire lo sguardo e a comprendere che la sopravvivenza non è l’unico destino possibile; e dal momento che in patria le condizioni non offrono un lavoro adeguato, benessere, speranza di futuro, scatta la molla per partire. Pensiamo al ruolo esercitato dalla televisione e dai mass-media in questo ambito.

            C’è un secondo aspetto che dobbiamo valutare attentamente. Gli immigrati non arrivano casualmente, ma nella maggior parte dei casi scelgono determinate destinazioni perché qualcuno li ha preceduti, soprattutto quando i flussi migratori cominciano a consolidarsi: hanno degli avamposti, dei punti di riferimento. È un fenomeno d’altronde sperimentato anche da noi italiani.  Le migrazioni si compiono attraverso legami e reti di persone, per cui i primi arrivati chiamano parenti, amici e compaesani. Si formano dei ponti tra terra di origine e terre di destinazione che spiegano perché, a parità di condizioni socio-economiche, alcuni partano e altri no, e  perché approdino in certi paesi e non in altri.

            Da ultimo non bisogna trascurare l’influenza delle motivazioni individuali. Tra l’altro, occorre ricordare che le migrazioni attuali sono anche migrazioni di personale qualificato. I grandi paesi ancora aperti all’immigrazione, Stati Uniti, Canada, Australia, oggi, reclutano personale qualificato e istruito, lavoratori autonomi, imprenditori, permettendo ai loro talenti di esprimersi meglio che in patria.

            Alla luce di queste diverse valenze, il fenomeno dell’immigrazione non può essere connotato solo in termini di miseria. Esiste certamente una spinta derivata dalla povertà, dalle diversità di reddito tra le aree del mondo, ma occorre considerare  anche le sollecitazioni derivanti dal funzionamento dei sistemi economici sviluppati, dalle reti etniche, dal rapporto che si intesse fra migranti e non migranti, senza dimenticare infine la forza delle motivazioni individuali, dell’istruzione  e della mobilità professionale.

Non si può, quindi, leggere l’immigrazione come un comportamento casuale e disperato degli immigrati. L’immigrazione non è solo un problema degli immigrati, ma è profondamente legata alle istituzioni, ai comportamenti e agli atteggiamenti delle società ospitanti. In altri termini ogni società plasma, definisce e costruisce il suo tipo di immigrazione.

 

 

3. Modelli di migrazione

 

Sul piano internazionale è possibile identificare             diversi modelli di migrazione, in base a come essa è stata recepita, vissuta,  e costruita nei paesi riceventi (cfr. tabella n. 2)

            Il primo modello è quello dell’immigrazione temporanea, il modello tedesco, per cui l’immigrazione, fino ai recenti tentativi di riforma, è stata vista come un fatto temporaneo, di lavoratori ospiti che venivano chiamati in quanto necessari per rispondere a certe esigenze del mercato del lavoro, ma che non dovevano mettere le radici: ci si attendeva che tornassero in patria dopo un certo periodo. Un modello di questo genere risponde ad una concezione strumentale del lavoro, che utilizza delle persone in modo temporaneo per rispondere a determinate esigenze economiche.

            Il secondo modello, detto assimilativo, può essere esemplificato dal caso francese. Qui la spinta è verso una rapida assimilazione anche culturale dei nuovi arrivati. È un modello che punta all’integrazione degli individui, sprovvisti di radici. La convinzione della superiorità del proprio modello civile e nazionale ha informato l’ottimismo francese sulla capacità di assimilare gli stranieri in quanto individui, mentre la formazione di comunità minoritarie è stata lungamente scoraggiata, in quanto foriera di appartenenze parziali, tendenzialmente contrapposte all’identità nazionale.

            Il terzo modello è quello della società multiculturale. E’ più recente ed è forse il meno attuato storicamente, ma è certamente influente dal punto di vista culturale negli Stati Uniti, in Olanda, in Svezia e in parte in Inghilterra. Questo modello è ravvisabile nelle  società in cui esiste un’idea più pluralistica di tolleranza dei confronti degli immigrati e delle loro culture. Si cerca di dotarsi di un’organizzazione sociale di tipo multietnico, valorizzando e sostenendo la formazione di comunità e di associazioni di immigrati. Sono queste i soggetti deputati all’erogazione di vari interventi sociali, che raggiungono gli individui per il tramite della comunità di appartenenza.

            Il quarto modello, che definisco implicito, si identifica con il caso italiano e in parte almeno con gli altri paesi della sponda settentrionale del Mediterraneo, che soltanto in anni recenti sono passati da società di emigrazione a società di immigrazione. Buona parte dei nostri problemi derivano dal fatto che l’immigrazione non è stata esplicitamente costruita, voluta, accettata e riconosciuta, ma è stata utilizzata economicamente e nel mercato del lavoro. Si finisce per regolarizzare chi, in un modo o nell’altro, è riuscito ad entrare, anziché prevedere un modello di regolazione e di promozione più disciplinata ed esplicita di migrazione. Certamente non è una politica da paese civile quella di tenere le frontiere formalmente chiuse, utilizzare largamente il lavoro irregolare degli immigrati, e poi regolarizzare quelli che in qualche modo sono riusciti ad eludere i controlli, spesso con modalità illegali, utilizzando vari stratagemmi che sono fra l’altro sempre più spesso gestiti da organizzazioni criminali.

 

Tab.2. Modelli di integrazione degli immigrati

 






































 

temporaneo

assimilativo

multiculturale

Implicito

concezione dell’immigrazione

forza lavoro utile per colmare esigenze temporanee

Individui destinati a diventare cittadini della società ospitante

minoranze discriminate da tutelare

Ufficialmente non necessaria; in realtà utilizzata sia in forme regolari, sia in forme sommerse

accesso allo status di cittadino

difficile e parziale

Relativamente facile

relativamente indifferente

Difficile e incerto

Rapporto autoctoni-immigrati

Isolamento

Discriminazione/ indifferenza

Tolleranza Tendenziale separazione

Ambivalenza tra accoglienza umanitaria e insofferenza

Politiche del lavoro

Reclutamento attivo; legame permesso di soggiorno-permesso di lavoro; parità salariale

Selezione dei flussi: popolazioni “assimilabili”,  lavoratori qualificati

azioni positive: sistema delle quote;

incoraggiamento dell’imprenditoria

Parità salariale nel lavoro regolare; diffusa tolleranza verso il lavoro irregolare;  attività  promozionali frammentarie, a livello locale

Politiche sociali

Garanzia dell’alloggio per i lavoratori; difficoltà di ricongiungimento familiare e naturalizzazione

Non specifiche; tendenti a facilitare l’inserimento individuale ed eventualmente la naturalizzazione; dispersione territoriale

tendenti a rafforzare le comunità etniche, anche come soggetti erogatori di servizi ai membri

Poco sviluppate,  a carattere volontaristico, in gran parte devolute ad enti locali e terzo settore

 

 

            In questo quarto modello, possiamo distinguere, aiutati da un contributo di Salvatore Palidda, tre contesti diversi.

            Il primo è quello delle grandi città, che in sociologia si definiscono post-fordiste, ossia soprattutto le metropoli del Nord – Milano, Torino, Genova – caratterizzate dal declino dell’industria tradizionale, da una frammentazione del tessuto produttivo e da problemi di integrazione della società. In questo contesto gli immigrati si inseriscono, come avviene anche a New York e a Londra, in modo particolare nei servizi, con alte percentuali di irregolarità, spesso con grandi problemi dal punto di vista abitativo.

            Il secondo tipo di contesto è quello delle città della crescita diffusa e del buon governo locale. Sono le piccole e medie città del Centro Nord, dove è più riscontrabile l’inserimento regolare degli immigrati nella vita economica, la partecipazione al mondo della piccola e media impresa e anche una loro discreta integrazione sociale; anche se in molti casi (penso a Brescia dove ho insegnato per dieci anni) la cittadinanza sociale resta inadeguata rispetto a quella che potremmo definire come “cittadinanza economica”.

            Il terzo contesto è quello delle grandi città del Centro-Sud, con radicate economie sommerse, dove gli immigrati sono, paradossalmente, meno inseriti regolarmente nel mercato del lavoro, ma più tollerati. Stanno male come altre fasce di lavoratori e di cittadini, per cui la loro possibilità di inserirsi nel mercato del lavoro regolare è bassa, ma anche la loro criminalizzazione è abbastanza contenuta.

            È’ evidente che in Italia esistono diversi mercati del lavoro; due sono i principali sui quali disponiamo anche di maggiori dati.

C’è il mercato del lavoro industriale che è molto concentrato in un’area abbastanza ristretta del nostro paese, anche se negli ultimi due anni si registrano segni di allargamento. Il grosso degli immigrati inseriti regolarmente nelle imprese sta al Nord, (80%) e oltre il 70% in una area che è formata da Triveneto, Lombardia e Emilia. Si registrano negli ultimi anni crescite percentuali molto elevate anche in Toscana, nelle Marche e quindi verso il Centro del paese.

            L’altro grande mercato del lavoro regolare è quello del lavoro domestico, che ha una caratteristica territoriale molto diversa, segnata due aspetti: è un mercato molto metropolitano, per cui le due province di Milano e Roma totalizzano oggi più del 40% del lavoro domestico regolare; in secondo luogo, è un mercato molto sparpagliato nel paese, con una prevalenza del Centro Sud.

            Nelle nostre ricerche sull’argomento[1] abbiamo, pertanto, individuato le corrispondenti forme di integrazione degli immigrati nel mercato del lavoro (cfr. Ambrosini, Lodigiani, Zandrini, 1995; Ambrosini, 1997a; 1997b; 1998).

C’è una integrazione industriale che è  tipica del Nord Est e della Lombardia e c’è un’integrazione, definibile subalterna, che è quella dei servizi domestici e che sfocia sempre più nell’assistenza agli anziani. Queste due integrazioni hanno caratteristiche quasi opposte: la prima è maschile, la seconda è maggiormente femminile; la prima è più legata alla provincia e ai contesti extraurbani, la seconda è tipicamente cittadina e metropolitana.

C’è poi  un terzo fenomeno che comincia ad emergere, ed è l’integrazione imprenditiva. A Milano, per esempio, ben 1500 egiziani sono iscritti alla Camera del Commercio, come lavoratori autonomi, nei settori della ristorazione, dell’edilizia, del piccolo commercio, dei negozi e delle attività di import-export (Baptiste, Zucchetti, 1994).

Ci si può domandare a questo punto come  si verifica lo strano fenomeno del lavoro immigrato che si inserisce in un paese con tanti disoccupati

Il discorso è molto complesso e mi limito ad accennare qualche passaggio. In realtà proprio questa contraddizione dimostra la complessità di un  mercato del lavoro come quello italiano.

In una società sviluppata il mercato del lavoro è segmentato; possono coesistere settori e aree in cui c’è il lavoro e non ci sono le persone disponibili a farlo, e altre aree in cui invece le persone che cercano lavoro superano la disponibilità di posti.

Naturalmente in Italia tutto è reso più complicato dalle differenze regionali. Abbiamo  regioni che hanno tassi di disoccupazione fra i più alti d’Europa e altre che tendono verso i valori più bassi. Da alcuni anni è ricominciato il fenomeno dell’immigrazione interna, che però non è più sufficiente a rispondere ai bisogni delle imprese.

Non bisogna dimenticare, inoltre, che l’offerta di lavoro italiana è diventata più autonoma: con l’istruzione cresce la capacità di cercare lavoro, ma aumenta anche la selettività, cioè il rifiuto di determinati lavori. Se si è istruiti si cerca lavoro in certi ambiti e si tende a rifiutare il lavoro manuale. Un altro elemento da considerare riguarda il fatto che la mobilità sociale in Italia è difficile a livello intragenerazionale; vale a dire che, nel corso della vita di una persona, è difficile passare da operaio ad impiegato, da impiegato a dirigente (Cobalti, Schizzerotto, 1994). Pertanto, cominciare da operaio significa rischiare un passo falso, caricarsi di uno stigma che può condizionare tutta la carriera successiva,  rendendo più incerti e difficili i successivi cambiamenti.

Nello stesso tempo il lavoro immigrato è un lavoro flessibile e adattabile, e può risultare più appetibile del lavoro autoctono. Poiché l’immigrato è sprovvisto, almeno nei primi anni, di relazioni familiari e sociali ed ha bisogno di guadagnare, è spesso più disponibile a fare orari che magari la mano d’opera italiana non accetta.

 

4. L’incontro tra domanda di lavoro e offerta immigrata

 

Un fenomeno da approfondire è quello che riguarda l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. (cfr. tabella n. 4) Ci sono anzitutto delle disposizioni normative per cui, per un certo periodo, nel mercato del lavoro italiano, riuscivano a entrare regolarmente solo lavoratori domestici. Questo spiega perché i primi arrivi siano caratterizzati in senso femminile, almeno nel lavoro regolare.

Successivamente domanda e offerta di lavoro si incontrano soprattutto in due modi. Anzitutto, per via delle reti etniche, delle reti di relazione fra gli immigrati; quelle reti per cui un immigrato ne invita un altro, lo presenta al datore di lavoro, rafforza la sua candidatura, lo sostiene, gli trova il posto per dormire. Si formano così quei fenomeni tipici che sono le concentrazioni etniche in determinate nicchie occupazionali. Questi fenomeni di reti che si collegano, candidano i propri connazionali e li aiutano ad inserirsi nel mercato del lavoro sono più forti dove ci sono mercati del lavoro più grandi, aperti, poco regolati, come quello americano.

 

Tab.4. Il funzionamento del mercato del lavoro immigrato

 






















 

DISPOSIZIONI NORMATIVE

 

 

DOMANDA              DI LAVORO            

RETI                       ETNICHE                                      

OFFERTA DI LAVORO

              

             

 

RETI SOCIALI   AUTOCTONE      

ISTITUZIONI FACILITATRICI/

SERVIZI SPECIALIZZATI

 

 

 

Simili processi  favoriscono alcuni gruppi più organizzati e internamente più coesi rispetto agli altri e spiegano, più che le presunte affinità culturali, come mai alcuni gruppi nazionali siano più capaci di altri di inserirsi nel mercato del lavoro, ad esempio i Filippini, gli Egiziani, i Senegalesi…

            Stranamente l’inserimento è più difficile per quelli che arrivano da più vicino. E’ singolare, infatti, che i gruppi più in difficoltà siano gli Albanesi, gli ex-Jugoslavi, i Nord Africani del Maghreb.

Non disponiamo  ancora di risultati probanti sull’argomento, ma presento un’ipotesi. Il fatto di venire da più vicino prima di tutto rende i processi meno selettivi, per cui è più facile che dall’Albania o dal Marocco arrivino persone di qualunque tipo, analfabeti, disoccupati, giovani allo sbaraglio.  Da Sri Lanka per riuscire a mettere insieme i soldi per il viaggio, o per  ottenere un prestito, un candidato all’emigrazione deve dare delle garanzie, dimostrare di essere affidabile, serio; spesso ha esperienze professionali di un certo rilievo alle spalle. Inoltre chi parte dal Pakistan o dalle Filippine sa che per due o tre anni a casa non può tornare, e deve lavorare sodo per mettere da parte i soldi da restituire, per pagarsi il viaggio e tornare a vedere i suoi cari.

Chi arriva da più vicino, mi sembra  abbia anche, a livello prima di tutto mentale, un atteggiamento più pendolare e discontinuo. Può sempre tornare indietro, mantiene più frequenti rapporti con il paese di origine, e questo inibisce un radicamento, un’intensa applicazione nel lavoro e al suo  mantenimento. Inoltre, i grandi numeri e la mobilità ostacolano la formazione di reti coese e capaci di assicurare mutuo aiuto, informazioni utili, sponsorizzazioni presso i datori di lavoro. Per finire, la cattiva immagine di questi gruppi  tende a produrre  una ?discriminazione statistica? da parte dei datori di lavoro, che complica ancora di più la ricerca di casa e lavoro.

Sono ipotesi, ma mi sembra che smentiscano il luogo comune secondo cui i più vicini  sono più simili e quindi più facili da integrare.

            Per comprendere  i processi di inserimento, oltre al ruolo delle  reti etniche, che da sole non spiegano tutto il fenomeno, occorre rammentare il contributo  delle agenzie sociali e  delle risorse informali grazie alle quali gli immigrati vengono aiutati ad inserirsi. Queste risorse, fornite dalla società civile, possono essere in parte  comprese sotto il termine  di ?reti sociali autoctone?, che scambi di informazioni,  generano un ?passa parola? tra conoscenti, favoriscono in vario modo l’inserimento di immigrati stranieri in una società estranea,  superando barriere e pregiudizi. Ad esempio una famiglia di Milano che abbia una domestica che viene dal Perù e di cui sia  soddisfatta, è probabile che, quando una famiglia di amici si trovi nella necessità di avere un qualche servizio domestico, la indirizzi e la consigli nella scelta verso qualche parente o connazionale della propria collaboratrice familiare. Si producono così inavvertitamente anche nuovi stereotipi e pregiudizi favorevoli ad alcuni gruppi di immigrati, rispetto ad altri.

Le istituzioni del volontariato, dell’associazionismo, della società civile, che  offrono punti di riferimento per gli immigrati, facendo circolare informazioni e consigli, costituiscono, molto spesso, un’altra risorsa rilevante per il loro inserimento lavorativo. Ho introdotto a questo riguardo il concetto di “istituzioni facilitatrici”, che fanno da ponte tra gli immigrati e le reti sociali autoctone.. Credo infatti che non sarebbe spiegabile l’inserimento di decine di migliaia di immigrati nel sistema produttivo italiano, in assenza di politiche pubbliche adeguate, senza chiamare in causa il silenzioso bricolage di gruppi, associazioni, sindacati, istituzioni ecclesiali, enti locali: nelle regioni del Centro-Nord più interessate al fenomeno, la domanda del mercato del lavoro e l’attivismo delle reti etniche hanno trovato una sponda preziosa in queste istituzioni.

            Per quanto riguarda il volume dell’inserimento occupazionale degli immigrati possiamo considerare alcuni dati. (cfr. tabella n. 5)

 

 

tab.5. Immigrati dipendenti da imprese: dati complessivi, 1992-1997

 




















































































































































































































































Regioni

1992

1993

1994

1995

1996

1997

D

1992-97, val.. assol.

D 1992-97,

%

% 1997 su totale 

Italia

Abruzzo

692

   996

 1.159

1.217

1.506

1.696

1.004

+145,1

1,1

Basilicata

76

    82

    53

66

94

87

+11

+14,5

0,0

Calabria

138

   135

   168

179

428

319

+181

+131,1

0,2

Campania

441

   521

   538

667

1.889

1.490

1.049

+237,9

0,9

Emilia-Romagna

16.828

14.268

15.154

18.041

20.993

23.847

+7.019

+41,7

14,9

Friuli-Venezia Giulia

3.619

  3.961

 4.477

5.052

5.543

5.982

+2.363

+65,3

3,7

Lazio

6.091

  6.120

 5861

5.871

7.583

8.972

+2.881

+47,3

5,6

Liguria

1.487

  1.411

 1.371

1.477

2.198

2.320

+833

+56,0

1,4

Lombardia

25.319

25.896

26.899

31.059

37.357

43.027

+17.888

+70,6

26,9

Marche

2.275

 2.524

 3.148

3.996

4.662

5.912

+3.637

+159,9

3,7

Molise

66

     42

     31

30

47

55

-11

-20,0

0,0

Piemonte

7.342

 6.882

 7.387

8.791

12.355

12.974

+5.632

+76,7

8,1

Puglia

752

   670

   685

668

1.268

1.207

+455

+60,5

0,7

Sardegna

168

   147

   117

111

217

245

+77

+31,4

0,1

Sicilia

1.294

 1.174

 1.074

1.001

1.304

1.375

+81

+6,2

0,8

Toscana

4.314

 4.770

 5.438

6.343

10.458

11.133

+6.819

+158,0

6,9

Trentino-Alto Adige

3.848

 4.367

 4.797

5.871

6.808

7.580

+3.732

+97,0

4,7

Umbria

1.130

 1.076

 1.269

1.412

1.961

2.40

+910

+80,5

1,3

Val d’Aosta

404

   364

   303

318

367

369

-35

-8,7

0,2

Veneto

13.041

13.093

15.757

20.154

25.307

29.554

+16.513

+126,6

18,4

Totale

89.325

88.499

95.686

112.324

142.274

160.364

+71.039

+79,5

100

Fonte: elaborazioni ISMU su dati INPS per gli anni 1992-95. Per il 1996, si è fatto riferimento alle elaborazioni della Caritas di Roma. Per il ’97 ai dati mensili INPS, ancora non definitivi. Per gli anni 1992-95 si è tenuto conto degli occupati al 31 dicembre; per il 1996, alla media dell’anno; per il 1997 alla media dei primi 11 mesi dell’anno, essendo incompleti i dati di dicembre.

 

Dal 1992 al 1997 gli immigrati inseriti e conteggiati dall’INPS sono passati da meno di 90.000 a 160.000. La scoperta fatta da alcuni economisti (Venturini, Villosio, 1998) è che questi dati sono notevolmente  sotto dimensionati, in quanto il numero degli immigrati regolarmente inseriti viene calcolato sulla base di una ritenuta che il datore di lavoro paga per consentire il rientro in patria dell’immigrato in caso di necessità. A parte il fatto che questi fondi non vengono mai utilizzati a tale scopo e finiscono nel calderone dell’INPS, dal punto di vista statistico si è scoperto che molti datori di lavoro non pagano questa ritenuta e forse neppure sanno che esista. Secondo le stime di Venturini e Villosio, risulta quindi che siano almeno il doppio gli immigrati regolarmente inseriti e il dato riportato risulterebbe così nettamente sotto stimato.

 

 

5. Il lavoro irregolare

 

            Non dobbiamo lasciarci avviluppare dalla polemica per cui il lavoro irregolare sia quasi tutto manovalanza criminale. Certamente questa esiste, ma non può assorbire  molte altre dimensioni di un fenomeno per sua natura pervasivo e sfuggente.

C’è il lavoro dei braccianti nell’agricoltura, c’è il lavoro nelle imprese etniche dei cinesi e di altri, ma c’è anche un fenomeno molto più normale, che è il numero enorme di collaboratrici domestiche non regolari che lavorano nelle famiglie italiane. Si verifica, infatti, il paradosso che il lavoro domestico regolare di una donna italiana o straniera costa più di 2 milioni al mese, vale a dire una cifra molto vicina  allo stipendio medio che la lavoratrice italiana guadagna andando a lavorare fuori casa. Nello stesso tempo molte famiglie, anche di classe media, hanno la necessità di avere un aiuto domestico per via dei bambini o degli anziani da assistere. Viene così a formarsi un enorme bacino di domanda di lavoro che recluta domestiche irregolari per le quali un salario di 800.000 lire o un milione al mese è considerato sufficiente, almeno in una prima fase di insediamento: si riapre così informalmente quella forbice economica, oltre che di status sociale, che consente di assorbire migliaia di donne nei servizi privati, con qualche analogia con il mercato del lavoro nordamericano.

Quindi pensare che il lavoro irregolare sia un fenomeno sempre patologico, dal punto di vista degli interessi della società ospitante, significa coltivare  una versione molto rigida del funzionamento del mercato del lavoro, perché il lavoro nero degli immigrati può essere, invece, assai funzionale alle esigenze dell’economia e della società.

Un altro esempio di silenzioso utilizzo del  lavoro irregolare degli stranieri è collegato con quelle funzioni che vengono esternalizzate dalle imprese con l’obiettivo di risparmiare sui costi per essere più competitive. Decentrando, esternalizzando, terziarizzando, a costi sempre più bassi e con pochi controlli, si finisce non di rado con l’utilizzare lavoro irregolare, italiano e straniero. Per esempio, le imprese di pulizia sono risultate in testa alla classifica degli utilizzatori di immigrati irregolari, sulla base delle ispezioni INPS. Un corollario paradossale consiste  nel fatto che anche le istituzioni pubbliche per risanare i loro conti  hanno esternalizzato parecchi servizi dandoli in appalto al prezzo più basso possibile. Non ho riscontri obiettivi, ma ritengo probabile  che in questo sistema lavorino in nero molti immigrati. Credo che l’efficienza delle imprese impegnate in una competizione internazionale sempre più serrata e lo stesso risanamento dei conti pubblici che ci ha fatto entrare in Europa, per una piccola parte, derivino  anche dal lavoro in nero degli stranieri.

 

 

6. L’associazionismo volontario per gli immigrati

 

            L’associazionismo verso gli immigrati riguarda essenzialmente quattro esperienze (cfr. tabella n. 6).  Esiste anzitutto l’associazionismo tradizionale, di tipo caritativo, che eroga servizi diretti; c’è l’associazionismo che possiamo definire rivendicativo, che difende i diritti, protesta contro il razzismo; c’è un associazionismo emergente, definito imprenditivo, che  si organizza in cooperativa per gestire centri di accoglienza o altre attività; infine, meno diffuso nel nostro paese, ma molto importante, c’è l’associazionismo etnico, promosso dagli stessi immigrati per rispondere ai loro bisogni.

 

tab.6.  l’associazionismo volontario per gli immigrati

 
































 

associazionismo caritativo

associazionismo rivendicativo (di advocacy)

associazionismo imprenditivo

reti etniche

attività prevalente

Interventi immediati per le necessità primarie (cibo, vestiario, posto-letto)

pressione politica, sensibilizzazione della popolazione italiana

gestione di centri di accoglienza o servizi su finanziamenti pubblici

Diffusione informazioni; orientamento; sponsorhip per l’accesso al lavoro;

sostegno in caso di difficoltà

target dei destinatari

Immigrati in situazione di bisogno, a volte di  grave emarginazione

immigrati in generale; vittime di razzismo e discriminazione

immigrati regolari, lavoratori, categorie specifiche (es., rifugiati, madri con bambini)

connazionali o membri di reti più ristrette (clan)

attori in contatto

Singoli volontari, altre istituzioni benefiche

forze politiche, sindacati, associazioni di  immigrati

istituzioni locali, altri centri di servizi

istituzioni facilitatrici italiane; datori di lavoro; uffici stranieri

coinvolgi-mento degli immigrati

Solitamente molto modesto

attivo da parte di élites istruite e politicizzate

 limitato a compiti operativi, con eccezioni

nella forma dell’auto-aiuto, con l’emergere di mediatori e leaders informali

 

 

Sappiamo che questi soggetti (in particolare, quelli del primo tipo) hanno avuto una grande importanza in Italia, soprattutto nel primo decennio della consistente immigrazione straniera; probabilmente oggi abbiamo bisogno di sviluppare tutte le forme di associazionismo e  una più organica collaborazione tra queste diverse reti associative e le istituzioni pubbliche. Occorre anche l’assistenza diventi sempre più promozione, reale emancipazione dei soggetti in difficoltà. L’inserimento nel mercato del lavoro, da questo punto di vista, è una leva fondamentale per realizzare autonomia e integrazione sociale. Gli immigrati, più di altri soggetti deboli, hanno molto spesso anche le risorse e la volontà per rendersi autosufficienti. Su questo terreno è possibile lavorare con speranza.

Va invece notato, per contro, che spesso negli enti locali si assiste ad una sorta di sufficienza nei confronti dell’accoglienza di primo livello, preferendo impegnarsi in attività più produttive sotto il profilo dell’immagine e meno ostiche in termini di consenso politico, dai festival musicali alle rassegne cinematografiche, dai tornei calcistici alle fiabe multietniche. Si finisce così implicitamente per scaricare sulle associazioni di volontariato la risposta ai bisogni primari. Mentre ritengo che sia fondamentale presidiare questo tipo di attività ?caritativa? che risulta di fondamentale importanza per l’inserimento anche lavorativo, bisogna prestare attenzione a questa sorta di astuzia dei soggetti  istituzionali, che riversa le parti più scomode del problema proprio sugli enti e le istituzioni caritative.

            Termino con un’altra citazione. E’ di un intellettuale tedesco, Enzensberger, che parlando del minimo di civiltà che il mondo occidentale ha raggiunto, afferma: ?Nella storia dell’umanità questo minimo è stato raggiunto solo eccezionalmente e in maniera provvisoria. E’ fragile e facilmente vulnerabile. Chi lo vuole proteggere da contestazioni esterne, si trova di fronte ad un dilemma: quanto più tenacemente una civiltà si difende da una minaccia esterna, quanto più si chiude in se stessa, tanto meno alla fine ha da difendere?.

            Siamo quindi provocati a far girare la ruota della storia nella direzione giusta. Per difendere e qualificare quel minimo di civiltà che il nostro mondo ha saputo costruire, dobbiamo essere capaci di allargare i paletti della tenda per includere altri popoli, altre persone, altri fratelli, dentro la tenda dei diritti di cittadinanza e di civiltà.

 

Bibliografia

 

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L.ZANFRINI, Leggere le migrazioni. I risultati della ricerca empirica, le categorie interpretative, i problemi aperti, F.Angeli-Ismu, Milano 1998.



[1] Le ricerche qui ricordate sono state condotte in particolare presso la Fondazione Cariplo per le iniziative e lo studio sulla multietnicità, Foro Buonaparte 22, Milano dove possono essere reperite.

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