Sintesi della relazione a cura del prof. pier paolo portinaro (Ordinario di Filosofia Politica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino).

 

 

La riflessione muove da un richiamo iniziale alla Grecia classica e ad Atene ove il ruolo del cittadino venne per la prima volta teorizzato in termini filosofici. Infatti, furono i Greci a «inventare» la politica e la possibilità di regolare la vita in comune nella polis e, in qualche modo, furono essi a precisare il significato del con-cetto di «spazio della cittadinanza»: uno spazio mentale prima ancora che fisico nel quale gli uomini, consi-derati come «animali razionali» e dunque «sociali» potessero vivere come esseri liberi, uguali e indipendenti.

Per altro verso, la consapevolezza della possibilità di realizzare nella polis ateniese ? in virtù e quale conseguenza dello «spazio della cittadinanza» ? delle istituzioni «razionali» non dovrebbe nasconderci la consapevolezza (altrettanto evidente) che nella politica così come nelle istituzioni ateniesi vi erano preva-lentemente espressioni di assoluta «irrazionalità», a partire dalle modalità in cui veniva concretamente declinata la democrazia «diretta»: una forma di democrazia che non consentiva affatto a tutti i cittadini ateniesi di partecipare con uguale potere alla presa delle decisioni comuni e una forma di democrazia nella quale la presenza di oligarchi e potenti consentiva a questi ultimi di manipolare con estrema facilità, attraverso la demagogia, il consenso.

La consapevolezza dell’ambiguità della democrazia, quantomeno del suo oscillare tra posizioni «razionali» (legate al rispetto assoluto delle leggi e alla prevalenza dell’approccio filosofico su quello della pratica politica) e posizioni «irrazionali» (tipiche della demagogia e della tirannia) non è peraltro un tema nuovo e se già la figura di Socrate ci testimonia l’attenzione e il rigore nel seguire ? a costo anche della propria vita ? la legge e la razionalità rispetto ad ogni pressione demagogica, con Platone abbiamo addirittura l’affermazione convinta dell’«impotenza» della filosofia unitamente alla valutazione negativa della pratica politica, incapace di in-dividuare con virtù e in modo razionale il vero bene della città.

Ci si può dunque chiedere se oggi sia possibile emettere giudizi diversi da quelli di Platone in merito alla «bontà» della pratica politica, se oggi la politica sia come allora prevalentemente l’ambito dell’irra-zionale e delle emozioni attraverso le quali manipolare il consenso, se oggi come allora sia utopico pensare come Platone all’uomo politico in termini di «tessitore» che razionalmente e filosoficamente riesca a co-niugare la «trama» degli eventi storici con l’«ordito» delle persone membri della comunità.

Non sfuggirà a questo proposito che un famoso politologo francese della prima metà del Novecento, Bertand de Jouvenel des Ursins, riprendendo le argomentazioni di Platone scrivesse appunto un dialogo intitolato «Pseudo-Alcibiade» in cui veniva messa fortemente in dubbio la capacità dei politici contemporanei di intrecciare «trame e orditi» in termini razionali a motivo del fatto che i «fili» di tale tessitura (ossia della vita della comunità) erano e rimangono «persone» e, come tali, sensibili all’emozionalità ben più che ad ogni appello alla razionalità.

Se poi si confrontassero le peculiarità delle poleis greche con quelle degli Stati moderni europei prima della rivoluzione francese non si potrebbe non constatare quanto alla realtà instabile e confusa delle une cor-rispondano scenari diversi, assai più grandiosi e stabili degli altri. Gli Stati moderni, collocabili tra il 1648 e il 1789, si presentano infatti come istituzioni «al di sopra» degli interessi dei singoli cittadini e in grado sì di vincere il conflitto possibile, ma a condizione di un’assolutizzazione del valore dell’«ordine»: valore che solo la rivoluzione francese è in grado di ridimensionare a favore di un approccio politico maggiormente sensibile alle istanze dei singoli cittadini.

Con la rivoluzione francese nasce dunque la democrazia moderna, di tipo rappresentativo, che pre-senta fondamentalmente due componenti: quella radicale-giacobina ? non insensibile al fascino di un utilizzo «sproporzionato» della demagogia, tale da far spesso assumere alla democrazia stessa i caratteri della deriva plebiscitaria ? e quella «privatistica», assai più incline al raggiungimento del compromesso considerato come valore in sé (ma il cui raggiungimento non è esente dal rischio di pratiche corrotte e di mercanteggiamento del consenso).

Malgrado queste due componenti siano dal 1789 sempre e tuttora presenti nelle nostre democrazie (rappresentative) contemporanee, merita richiamare a questo proposito l’importanza di un’ulteriore forma di democrazia, di matrice anglosassone, definibile nei termini di «democrazia costituzionale», la quale si presenta come forma di governo che «razionalmente» riconosce che, accanto al principio della sovranità popolare e a quello della contrapposizione pacifica tra maggioranza e opposizione, ci debba essere necessa-riamente l’elemento dell’«estraneità/neutralità» dal gioco politico di alcune istituzioni come garanzia per tutta la cittadinanza, all’interno di una rigida separazione tra poteri legislativo, esecutivo e giudiziario.

Tra i molteplici esempi di tali istituzioni si pensi, per il caso italiano, al ruolo riconosciuto dalla nostra Costituzione (all’art. 101) alla Magistratura, così come ai poteri di «garanzia» del Presidente della Repubblica: due «figure», queste ultime, che nella loro funzione istituzionale richiamano adeguatamente il significato appena espresso di «democrazia costituzionale» considerato come il modello più esigente di gestione del potere per la comunità (un modello che illumina in qualche modo anche la stessa costruzione costituzionale dell’Unione Eu-ropea).

Pare tuttavia importante sottolineare proprio la presenza della componente che abbiamo definito di «estraneità/neutralità» rispetto alle dinamiche prettamente politiche quale componente caratterizzante la democrazia costituzionale e tale componente è certamente espressione del ruolo dei «tecnici delle istitu-zioni» tra i quali svolgono un ruolo fondamentale i giudici di ogni ordine e grado, a cominciare da quelli costituzionali, chiamati al controllo di costituzionalità delle leggi sulla base dei principi e dei diritti fondamen-tali sanciti dalle carte costituzionali.

Il ruolo dei giudici, della magistratura in genere e delle Authorities ? tutte espressioni emblematiche di ciò che Platone definiva come «governo dei tecnici» ? è poi fondamentale e significativo oggi anche da un altro punto di vista. Infatti, estendendo al massimo il concetto di funzione giurisdizionale, si può pensare a questi «tecnici» come a coloro preposti precipuamente alla «custodia della verità»: la verità «vera», di fatto, che non è in sé sostituibile con la calunnia ? fenomeno che, al contrario, avviene purtroppo sempre più frequentemente nelle democrazie «mediatiche» attuali e che, per molti aspetti, sembra aver caratterizzato l’ascesa politico-mediatica dell’attuale premier Berlusconi, il cui modello di democrazia pare assai più vicino di quanto si pensi al modello plebiscitario.

E qui merita sottolineare una sorta di relazione inversamente proporzionale, che può significativamente concludere tutto il ragionamento testé esposto: tanto più è feconda, dinamica e «senza ostacoli» quella forma attuale di democrazia decadente che abbiamo chiamato «mediatica», tanto più risulta debole, incerta e demagogicamente biasimata la funzione «tecnico-razionale» della magistratura, tanto appare comples-sivamente «malata» nel suo insieme la democrazia contemporanea, succube di una manipolazione della verità cognitiva che vede come principale responsabile proprio il circolo mediatico e tutti gli «attori» che, prima ancora che esserne i «portavoce», di esso detengono strettamente il potere e, allo stesso tempo, ambiscono in egual modo a detenere (si veda il recente caso del successo elettorale dell’italiano Berlusconi) anche il potere politico.

 

 




 

PRINCIPALI APPROFONDIMENTI DEL DIBATTITO

 

 

 

 

Il dibattito si è articolato su diversi punti tra i quali possono essere richiamati in particolare i seguenti.

 

 

a)      Si è sottolineato come la televisione in sé non sia uno strumento malevolo, ma certo finisca facilmente ? quasi «naturalmente» ? di mettere in luce chi è il più forte nell’agone politico-economico e chi ha in mano (o può facilmente avere in mano, attraverso le dinamiche elettorali) il potere politico. Il caso italiano di Berlusconi pone tuttavia una domanda: egli avrebbe potuto ugualmente vincere le elezioni del 13 maggio 2001 senza tutto il proprio potere sulle televisioni?                                                                                     La risposta del relatore è in questi termini: la televisione è un «potenziamento» di peculiarità negative e di tipo demagogico da sempre presenti nelle democrazie. Berlusconi tuttavia avrebbe vinto le elezioni ugualmente anche senza l’uso strumentale delle proprie reti televisive poiché, rispetto al 1994 ? quando Forza Italia era da molti stato definito (e con ragione) «partito di plastica» ? ha dimostrato in questi anni di aver imparato a fare il «politico di professione» riuscendo a rendere «vero» (non artificiale e «di plastica») il proprio partito grazie ad un’azione capillare di diffusione su tutto il territorio nazionale delle sezioni di Forza Italia.

b)      Ci si è chiesti la ragione per cui molti italiani nelle ultime elezioni politiche sembrano avere votato più «contro» il centro-sinistra che «a favore» di Berlusconi.                                                                        Secondo il relatore, il centro-destra pare essere riuscito a capire prima e «meglio» innanzitutto la logica del sistema bipolare che richiede, da parte del leader politico, di creare coalizioni e questo è l’elemento fondamentale che ha portato alla vittoria elettorale. Dall’altra parte,  al contrario, l’Ulivo non solo non ha saputo creare una coalizione forte contro la Casa delle Libertà ma non è riuscito neppure ad inserire orga-nicamente al proprio interno il «capitale politico-consensuale» di Di Pietro (che pure era fortemente in posizione anti-Berlusconi).                                                                                                                             Più in generale si può affermare che in politica le vittorie e le sconfitte vengono «da lontano» e, nel caso della sconfitta dell’Ulivo e del fatto che molti italiani sembrano aver scelto prevalentemente un orientamento «anti-Ulivo» piuttosto che a favore della Casa delle Libertà, l’Ulivo ha perso a causa di un evidente insieme di atteggiamenti connotati da profonda insipienza politica. Infatti, non solo nel giro di due anni si è demolito il progetto di governo dell’Ulivo di Romano Prodi,  ma da allora si sono infittiti conflitti permanenti dentro la coalizione del centro-sinistra così come si è manifestata evidente la deleteria prassi del trasformismo.                                                                                                                          Lo stesso ex-premier Giuliano Amato ha governato più come «tecnico» che come leader della coalizione: una coalizione contraddittoria su molti fronti, a cominciare da quello relativo al dibattito sulla riforma della  legge elettorale (per la quale sarebbe forse stato, con il senno di poi, «strategico» per l’Ulivo accettare la proposta della Casa delle Libertà per una soluzione «alla tedesca»), senza infine dimenticare la questione tuttora aperta del varo di una legge «seria» sul conflitto di interesse, lasciata ora nelle mani di una mag-gioranza generalmente poco sensibile a risolvere il problema in termini di equità e giustizia.

c)      A partire dalle acute osservazioni del relatore sulla natura fuorviante e sulle peculiarità della democrazia «mediatica» si è puntualizzato inoltre quanto sia rilevante e correlato alle dinamiche evolutive della comunicazione mass-mediatica il problema dello scadimento del linguaggio politico, non senza sotto-lineare la pericolosità di certe espressioni ascoltate durante gli ultimi mesi della precedente legislatura quando, benché ormai nel pieno della campagna elettorale, vari esponenti autorevoli della Casa delle Libertà erano soliti criticare il varo di leggi da parte della maggioranza di centro-sinistra usando espressioni quali voto «a colpi di maggioranza» che la dicono lunga sulla sensibilità politico-democratica degli attuali vincitori della competizione elettorale.

d)      Si è infine tentata una valutazione complessiva sulla possibilità o meno dell’attuale premier Berlusconi di sapere razionalmente «dominare la tentazione» di sostituire la verità con la strumentalizzazione politica delle informazioni che, si è visto, essere il rischio e la peculiarità più negativa delle attuali democrazie mediatiche.                                                                                                                              Molti interventi del pubblico hanno tuttavia messo in luce la probabile «impossibilità» del premier di essere oggettivamente «vero» e, allo stesso tempo (anche se ciò può apparire in qualche modo para-dossale), la sua ancora più probabile «sincerità» nel credere alle verità delle sue affermazioni, come se egli fosse veramente convinto di quanto afferma, sostiene, avvalora per la «rivoluzione italiana» di cui si sente il leader «unto del Signore», senza rendersi conto ? a causa della suggestione mediatica che scompiglia il vero con il falso e di cui è profondo tessitore, detentore e conoscitore ? dell’assoluta «soggettività» e stru-mentalità  delle proprie tesi politiche, tanto che ci si potrebbe domandare se tutti coloro che lo seguono siano «utilitaristicamente» consapevoli di questa situazione, oppure siano così ingenui e con poco senso della razionalità filosofico-politica da seguire il leader carismatico senza un minimo di valutazione discre-zionale ed etica.

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