Sintesi della relazione del prof. MARCO TARCHI (docente di Scienze della Politica, Università di Firenze) e del prof. MARCO REVELLI (docente di Scienze della Politica, Università del Piemonte Orientale)

 

 

Il prof. Tarchi ha iniziato la sua riflessione affermando che la crisi della politica, almeno dal suo punto di vista, è una realtà di fatto, che può essere valutata secondo differenti approcci, ma difficilmente contestata o riducibile a un ristretto ambito accademico.

La politica è entrata in crisi (si è giunti addirittura a parlare di morte della politica) anzitutto come campo autonomo, subendo un processo di progressivo ridimensionamento di fronte al prevalere dell’ambito economico e dell’ambito informativo-comunicativo (in più occasioni il relatore ha denunciato il dominio dei mass-media), e maturando, per altri versi, un rapporto problematico con il potere giudiziario, che si è in alcune fasi legittimato (a ragione o a torto?) come organo di controllo extra-rappresentativo dell’agire politico.

In secondo luogo, la crisi della politica è una conseguenza della sua deteritorializzazione. Il processo accelerato di globalizzazione ha contribuito in maniera determinante al superamento dei tradizionali confini dello spazio politico, non più in grado di contenere i tre grandi flussi dell’epoca contemporanea:

 

1.      il flusso economico-finanziario, che ha moltiplicato la capacità manipolativa dei cosiddetti poteri forti;

2.      i flussi informativi, che hanno reso i media sempre più capaci di influire sull’opinione pubblica a livello planetario, e posto le premesse per l’amplificarsi di possibili spinte ?deformanti?;

3.      infine, i flussi di popolazione, che pongono la questione cruciale dell’incontro (o dello scontro) tra culture diverse e stili di vita alternativi, e che rischiano, se gestiti in modo inadeguato, di incrementare paure, dubbi e pregiudizi. Quest’ultimo aspetto problematico, su cui fanno leva i  teorici dello ?scontro delle civiltà? e del ?nemico potenziale?, pone, nel modo più chiaro, la questione della governabilità dei flussi: a chi dovrebbe essere affidata? Quale soggetto istituzionale può essere in grado di regolare fenomeni così complessi?

 

Secondo una percezione diffusa, crisi della politica vuole dire anche crisi dei partiti e delle forme tradizionali dell’agire politico. Tuttavia, ha osservato il prof. Tarchi, il ruolo dei movimenti, enfatizzato in quest’ultimo periodo, va piuttosto ridimensionato. Le nuove forme di aggregazione politica, pur molto più mobili e capaci di coinvolgere la società civile rispetto al recente passato, rappresentano un modello alternativo debole e di scarsa efficacia. Un ampio disegno ideologico si regge su frammenti e schegge, vitali ma pur sempre marginali, e il grande sforzo utopico che si sta producendo, essenzialmente finalizzato alla costituzione di un contropotere diffuso, tende a limitarsi al perseguimento degli obiettivi minimali di uno scenario essenzialmente reattivo: no alla guerra; un altro mondo possibile (ma quale?) ecc. Al momento, dopo la polverizzazione dei punti di riferimento tradizionali, è assai arduo enucleare alternative possibili alla situazione di palese criticità che è stata descritta.

 

Il prof. Revelli concorda con l’intervento precedente nel sostenere che la crisi della politica è un dato di fatto, che come tale è in qualche modo misurabile, a partire da tre constatazioni oggettive:

 

1.      la fuga dalla politica, che si manifesta sia come crisi di partecipazione e di rappresentanza, sia come crescente astensionismo elettorale;

2.      la mediocrità della leadership politica, sia in ambito nazionale, sia in ambito globale;

3.      la scarsa attenzione, da parte dell’opinione pubblica, ma soprattutto da parte dei governanti, ai grandi temi e alle grandi sfide della società contemporanea, per lo più assenti dall’agenda politica internazionale. 

 

Il relatore ritiene che questa situazione di crisi abbia radici profonde nella stessa concezione moderna del Politico. Hannah Arendt ne aveva già chiaramente denunciato il carattere distruttivo, in aperta contraddizione con la teoria hobbesiana della politica come garanzia necessaria della sicurezza. I regimi totalitari e le armi di distruzione di massa hanno posto di fatto le premesse al dilagare del Leviatano.

Un secondo fattore di crisi, come osservato in precedenza, è dato dalla deteritorializzazione di un campo sempre più ampio di relazioni umane. La formula schmittiana dell’Ortung und Ordnung (Luogo e Ordine) è stata messa profondamente in discussione dal processo di globalizzazione, che ha determinato una sostanziale ?liquidazione? del tradizionale ordine territoriale. Uno studioso francese, Bernard Badie, ha parlato in proposito di fin de territoire: la politica, di fronte a quei flussi citati in precedenza, ha ormai perso la sua sovranità territoriale.

Un ultimo aspetto problematico è legato alla definizione sempre più difficile dell’identità, individuale e collettiva. Infatti, più che a una lotta di civiltà, si assiste oggi a una frammentazione delle identità tradizionali e a una necessaria semplificazione e primitivizzazione dell’agire politico: solo le idee forti uniscono, ma spesso appiattendo tutte le differenze e non ammettendo alcun dissenso. La fragilità ontologica dell’umanità si mostra in tutta la sua evidenza; ma proprio in questo momento storico ha forse ancor più senso ipotizzare un salto antropologico che, per citare padre Ernesto Balducci, possa fare dell’uomo delle tribù un nuovo uomo planetario, e tematizzare contestualmente forme di ?politica orizzontale? che rendano possibile la convivenza tra le diversità e il dialogo tra le culture. Contro la guerra ?costituente? e l’ipocrisia dominante, che avvalla una disponibilità piuttosto disinvolta all’uso della forza, occorrerebbe parlare di disarmo preventivo e cercare di mettere in discussione l’idea stessa di monopolio del potere e il delirio artificialistico della modernità.

 

           

 

                        A cura di Giorgio Barberis

 

Incontro del 9 gennaio 2003

 

Etica e politica: riflessioni sulla situazione politica italiana

 

Sintesi della relazione del prof. GIANFRANCO PASQUINO (docente di Scienza Politica, Università di Bologna)

 

 

Nel riflettere sul rapporto fra dimensione etica e dimensione politica all’interno della società italiana, occorre in primo luogo prendere in considerazione la possibilità della restituzione al cittadino del potere decisionale; perché ciò si verifichi è indispensabile operare in due direzioni parallele: procedere a riforme elettorali e sconfiggere la corruzione.

È utile, a tale fine, domandarsi innanzitutto se la corruzione politica sia un fenomeno endemico o episodico. Osservando i diversi sistemi politici, il fenomeno della corruzione può essere definito come endemico e ineliminabile, non come episodico: esiste infatti un rapporto molto stretto fra denaro e politica, che si sostanzia fondamentalmente nei favori esercitati dagli uomini politici per ottenere il potere; ciò si verifica ovunque e in ogni caso, ed è difficilmente eliminabile. La corruzione, però, se non può essere sradicata, può e deve quantomeno essere ridimensionata e punita in tempi molto rapidi. Nel concreto caso italiano questo non avviene e la corruzione assume, così, le caratteristiche di una vera e propria patologia del sistema politico.

Per ricondurre la corruzione a una dimensione ?fisiologica?, l’attività della magistratura è necessaria, ma non sufficiente. È indispensabile infatti ricorrere ad altri meccanismi, che operino strutturalmente, in grado di attivare un circolo virtuoso fra sistema politico e società civile e di premiare i comportamenti corretti. A questo proposito, il relatore non crede, come invece ha sostenuto Norberto Bobbio, che l’approccio corretto sia partire da un generale miglioramento dei comportamenti sociali degli individui, al fine di produrre soggetti etici, rispettosi dei valori fondamentali della convivenza civile. Per ottenere questo risultato bisogna preliminarmente operare un cambiamento delle regole in uso, ovvero creare un sistema (culturale, politico, economico) basato sul dualismo incentivi-punizioni, servendosi di meccanismi flessibili ma incisivi che rendano trasparente l’agire fra le persone.

Considerando come anche nelle società democratiche la corruzione sia fenomeno endemico, sebbene non in misura paragonabile a quella presente all’interno dei regimi autoritari, l’esame della situazione italiana evidenzia un dato: il tasso di corruzione nel nostro Paese risulta molto alto e colloca l’Italia molto più in basso rispetto ai Paesi scandinavi e anglosassoni, per limitarci ad esempi tratti dalla sola Europa. Da qui la necessità di ripensare le regole e i codici di comportamento in uso nel nostro Paese, dal momento che la corruzione, oltre a essere immorale, è anche anti-economica. Al contrario, infatti, di quanto sostengono alcuni sociologi, per i quali essa contribuirebbe a rendere ?fluido? il sistema economico, è innegabile che a una maggiore corruzione corrisponda un mancato sviluppo (si pensi, per esempio, al nostro Mezzogiorno).

Il fenomeno della corruzione pone il problema di definire se la classe politica sia migliore o peggiore della società di cui è espressione. La classe politica nei sistemi democratici dovrebbe coincidere, all’interno di ogni Paese, con il governo dei migliori, individuati e scelti dalla popolazione. In realtà, è ampiamente dimostrato come essa non sia quasi mai, salvo rari casi, migliore della società civile dalla quale è stata eletta: ciò vale da sempre, in modo particolare per l’Italia. Di fatto, normalmente, la classe politica non è nemmeno peggiore dei propri elettori, bensì ne è rappresentativa, in quanto chiamata al potere per accomodarne i vizi. In conseguenza di ciò, si verifica che la politica strumentalizzi la società civile che l’ha legittimata, assecondandone i difetti e volgendoli a proprio vantaggio. Le riforme istituzionali, dunque, si rendono più che mai necessarie per facilitare ai cittadini la selezione dei migliori e dei meno corrotti. È necessario, però, chiedersi preliminarmente a quale livello di maturità sia giunta la società civile nel nostro Paese e se essa sia disponibile a sostenere la politica con una pur modesta dose di etica.

A questo proposito, occorre rilevare l’esistenza di almeno due diverse tipologie di ?società civile?. Nei Paesi anglosassoni l’autonomia della società civile dallo Stato è fortissima e costituisce il presupposto stesso delle istituzioni. Nell’Europa continentale, invece, la maturazione di una moderna società civile è stata più lenta e faticosa ed è stata in gran parte il risultato di un intervento dall’alto. Nel primo caso è la società a innervare e a costruire lo Stato, nel secondo è lo Stato a plasmare la società. Inoltre, di società civile possiamo parlare laddove esistano forti legami di fiducia e solidarietà reciproca fra i cittadini.

Analizzando nello specifico il contesto italiano, da ripetute, periodiche rilevazioni è emerso che il tasso interno di fiducia fra la popolazione è costantemente molto basso. Nella società italiana prevarrebbe ancora quello che i sociologi definiscono familismo amorale, ossia la tendenza ad anteporre gli interessi e i legami familiari a qualsiasi altra norma di comportamento sociale. In ultimo, una società civile, per esistere, deve rivendicare un buon grado di autonomia dalla politica. Quindi, preso atto dell’esistenza, all’interno della società italiana, di una storica dipendenza della società dalla politica e di un basso tasso di fiducia reciproca fra i cittadini, non risulta possibile annoverare l’Italia fra i Paesi caratterizzati da una società civile sviluppata e autonoma dal sistema politico. A supporto di tale considerazione, si rileva come, da sondaggi semestrali effettuati all’interno dell’Unione Europea, risulti che meno della metà dei cittadini europei ripone fiducia nella popolazione italiana. Ciò è un pessimo segnale: la nostra società civile non si presenta come affidabile, al contrario di quella degli altri Paesi europei.

Considerata, quindi, la storica debolezza della società italiana, per superare la crisi del sistema politico italiano e ricondurre la corruzione a una dimensione fisiologica, occorre operare preliminarmente sul terreno delle regole e delle riforme istituzionali. Sono, innanzitutto, indispensabili riforme di tipo strutturale e organizzativo, volte a snellire procedure, abbreviare tempi, eliminare la dispersione di energie, permettendo un miglior utilizzo delle risorse. È una operazione necessaria a tutti i livelli, dal sistema giudiziario, cui va restituita rapidità ed efficacia, alle istituzioni politiche. In particolare, si dovrebbe restituire al Parlamento la sua funzione di assemblea pedagogica, in grado, cioè, di esplicare un ruolo educativo nei confronti della società.

Tenendo sempre presente che buone regole incentivano buoni comportamenti, se si desidera costruire un serio e sano rapporto fra etica e politica, è inoltre indispensabile che sia la stessa società civile a farsi portatrice di tale etica. Per questo si rendono necessari alcuni interventi cruciali, fra i quali urge una riforma scolastica che tenga in conto la formazione dello studente in quanto cittadino, che operi per il miglioramento delle modalità di socializzazione, che potenzi l’approccio etico al mondo, ricostruendo un tessuto connettivo forte fra insegnanti, allievi, famiglie. Tali interventi andrebbero a innestarsi nel più ampio terreno di modifiche, necessario per ovviare al problema italiano di costruzione e organizzazione di una società che sia ?civile? di fatto, all’interno della quale si creino codici di comportamento etici, che permettano l’espulsione dei soggetti con atteggiamenti antisociali, in primo luogo, i corrotti; si tratta, insomma, di costruire modalità reattive forti per contrastare le distorsioni interne proprie delle forme capitalistiche, come già accade, ad esempio, negli Stati Uniti.

L’insieme delle considerazioni proposte non sarebbe, però, completo se non si evidenziasse un ultimo, imprescindibile aspetto: esistono, all’interno delle moderne democrazie, alcuni principi etici legati alla sfera religiosa. Non a caso, la sociologia utilizza il termine ?religione civile? per designare una componente etica della formazione sociale consistente nell’adesione a principi etici che si pongono oltre la sfera del contingente. Essi, purtroppo, non possono essere insegnati, se non in minima parte: o non esistono o sono intrinseci alla struttura sociale; e quando ciò si verifica, è dimostrato che i popoli assumono atteggiamenti più corretti nella sfera etica e civile.

Da quanto esposto, è evidente come sia necessario giungere alla consapevolezza dei reali problemi etici e politici che inficiano la società italiana rendendola mediocre, al fine di agire per il suo miglioramento, anzitutto attraverso l’introduzione di regole condivise.

                                                                                                      

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