Il tema della serata è stato presentato cercando di fornire una risposta oggettiva alla domanda,  che spesso ci si pone, inerente i motivi che inducono alla realizzazione del cosiddetto federalismo fiscale anche se, per individuare tale risposta, è necessario ricondurre il problema ad un ordine di grandezze oggettivo.

Nell’ambito del nostro Paese, infatti, esistono differenze notevoli, non solo tra le diverse regioni, ma anche tra le differenti città. Se si considerano, ad esempio, i dati relativi alla sola politica fiscale, una ricerca dell’Istituto Tagliacarne indica come il valore aggiunto procapite (ossia la ricchezza procapite) riferito al 1995 sia fortemente variabile in Italia (in effetti si registrano notevoli differenze tra i valori rilevati nelle principali città del Nord e quelli rilevati al Sud): da quanto detto si deduce l’importanza del fatto che le politiche fiscali tengano conto delle differenze sul reddito.

Di conseguenza, il primo motivo, in base al quale risulta possibile giustificare un’autonomia di carattere tributario, parrebbe proprio essere l’esistenza di livelli di reddito così diversi, che impongono politiche fiscali diverse: si tratterebbe, quindi, di una ragione economica e razionale.

Da un’analisi comparata degli Enti locali italiani, effettuata nel 1997, inoltre, emerge che, nell’ambito del rapporto tra i trasferimenti (ossia il denaro che lo Stato assegna in particolar modo ai Comuni) e la somma di tutte le entrate correnti dei suddetti Comuni, il peso dei primi ha continuato a ridursi nel corso degli ultimi anni. A questo proposito va detto che, la variazione di questo indice (che comporta notevoli differenze tra le diverse località campione) è segno, non solo  dell’entrata ?a regime? dell’imposizione autonoma comunale ed in particolare dell’ICI, che costituisce la principale fonte di gettito, ma anche dell’introduzione di altri tipi di entrate.

In tal modo, questa analisi consente di evidenziare l’esistenza di casi problematici, rappresentati dalle grandi città del Sud, nelle quali il peso dei trasferimenti si mantiene elevato poiché, non essendo possibile realizzare un sistema di fiscalità locale, non si possono individuare altre fonti di entrata.

Merita di essere ricordato che un altro parametro di confronto è costituito dall’autonomia finanziaria, ossia l’indice che esprime quale sia il peso delle entrate che dipendono esclusivamente dal Comune, rispetto al totale delle entrate correnti. A questo proposito sono state presentate due considerazioni: la prima si riferisce al fatto che la minore autonomia tributaria, che caratterizza i grandi Comuni meridionali, sia fonte di grave danno per gli stessi Comuni che, in questo modo, dimostrano di non saperla reggere; la seconda è diretta a sottolineare il trend crescente del dato costituito dalla somma tra le entrate tributarie e quelle extra-tributarie, dovuto soprattutto ad una miglior gestione del carico tributario (per questo motivo non sembrerebbe azzardato prevedere che, in futuro, parte dei servizi di utilità pubblica, attualmente gestiti dalle amministrazioni locali, possano essere assegnati a società che li gestiranno in condizioni di economicità e di mercato).

A questo punto del discorso pare opportuno delineare un quadro dei principali tributi che caratterizzano la fiscalità locale, tra i quali spiccano in particolar modo l’ICI e l’IRAP.

L’ICI, che rappresenta un’imposta profondamente liberale  poiché colpisce la rendita immobiliare, viene applicata in modo radicale in alcuni Comuni, dove talvolta giunge a costituire quasi un terzo delle entrate correnti totali. A Casale Monferrato, ad esempio, è stata introdotta l’ICI al 7 per mille (ossia il massimo consentito) sulle abitazioni sfitte: così facendo, i costi delle diseconomie esterne che inevitabilmente ne derivano vengono attribuiti a coloro che le creano. Per questo motivo parrebbe utile stabilire aliquote differenziate, anche se la tendenza, al contrario, sembrerebbe mirare all’accorpamento.

Merita di essere ricordato, di conseguenza, come la pressione fiscale (per abitante) rappresenti un importante parametro di confronto tra le diverse località dal momento che, nei Comuni in cui essa è bassa, sono presenti gravi problemi di sviluppo.

Contrariamente a quanto avviene per l’ICI, l’IRAP (imposta regionale sull’attività produttiva), tassando la ricchezza creata sul territorio, risulta economicamente pericolosa: essa, infatti, pur prevedendo un’aliquota piuttosto bassa (4,5%), presenta una vasta base imponibile (costituita dal fatturato meno i costi diretti) che fa sì che si colpisca l’utile delle imprese, importante risorsa per l’intero Paese.

L’IRAP, inoltre, viene incassata dalla Regione, senza che essa sia poi chiamata ad erogare servizi: in questo modo viene compiuto, non solo un errore per la politica sociale italiana, ma anche l’errore di considerare la Regione come sfogo delle autonomie federali. In realtà, il vero nerbo è costituito, ormai, dalle autonomie metropolitane, anch’esse colpite dall’IRAP (dal momento che anche i Comuni sono tenuti a pagarla).

Questa imposta, quindi, essendo particolarmente onerosa, drenando risorse dal territorio per convogliarle verso un centro inadeguato, depauperando i Comuni e colpendo il cuore dell’economia, sembrerebbe frutto di un errato accordo politico.

 

Riflessione a cura del sen. Riccardo TRIGLIA

(già Presidente A.N.C.I., Sindaco di Coniolo-Alessandria, Presidente ASCOTRIBUTI-Roma)

 

E’ stata proposta una riflessione personale, derivante dall’esperienza vissuta, come testimone delle trasformazioni avvenute in materia di finanza locale, a partire dagli anni Settanta.

E’ stato sottolineato, prima di tutto, come il termine federalismo venga utilizzato in modo ambiguo dal momento che, fatta eccezione per il caso in cui si sposi la tesi della confederazione (ossia della rottura dello Stato nazionale e della conseguente creazione di Stati diversi), tutte le altre accezioni in cui esso viene impiegato si riferiscono, in realtà, al decentramento.

Il federalismo, infatti, si sviluppa quando entità autonome decidono di unirsi (come è avvenuto negli Stati Uniti), cedendo parte del loro potere ad un governo federale, ma partecipando al vertice politico ed eleggendo propri senatori; quando, invece, non si verifica una partecipazione effettiva al vertice politico (pur realizzandosi una discesa dei poteri verso la periferia), si ha il decentramento che, se attuato in modo radicale, richiederebbe un vero e proprio sistema federale.

Va detto che, in passato, i Comuni non possedevano autonomia fiscale ma che, a partire dalla riforma tributaria del 1971, hanno iniziato a ?vivere? esclusivamente grazie ai trasferimenti concessi loro dallo Stato. Questo sistema, tuttavia, presentava due pericoli, peraltro puntualmente verificatisi, ossia: 1) che il Governo non fosse in grado di assicurare le spese che i Comuni intraprendevano; 2) che lo Stato non ritenesse opportuno resistere alla pressione della periferia.

Occorre ricordare, inoltre, che il provvedimento adottato dal ministro del Tesoro Stammati nel 1978 e diretto a consolidare i debiti dei Comuni, fu all’origine della ribellione in periferia, poiché accadde che le città governate in modo saggio ed oculato si videro superate da Comuni che avevano attuato rischiose politiche di spesa eccessiva. A quanto detto si deve aggiungere anche un’ulteriore critica al sistema, dovuta all’esistenza di un problema di partecipazione democratica alla vita del Paese, dal momento che il rapporto tra il cittadino ed il Comune veniva sostituito dal rapporto tra quest’ultimo ed il Ministero del Tesoro: così facendo, tuttavia, si veniva a creare un sistema in cui non esisteva un rapporto tra il potere e la responsabilità che ne conseguiva, destinato, quindi, all’insuccesso.

A questo proposito si consideri che, in tutti i paesi europei, il sistema delle autonomie locali si reggeva sulla responsabilità e sull’autonomia finanziaria, intesa come denaro derivante da un responsabile esercizio del meccanismo impositivo locale.

La situazione di estremo livellamento e di assenza di competizione in ambito locale cominciò a modificarsi con l’emergere del debito pubblico e con l’introduzione, ad opera del ministro Andreatta nel 1982, del blocco dei piè di lista e di una limitazione della crescita dei trasferimenti; in questo modo si giunse fino alla svalutazione della lira ed alla tassazione sugli immobili, attuate nel 1992 dal Governo Amato.

La tassazione sugli immobili, in particolare, costituisce l’elemento principale dell’intero sistema delle autonomie locali, dal momento che il valore degli immobili stessi risulta strettamente legato ai due fondamentali poteri del sindaco ossia, quello di tassare e quello di regolamentare il territorio.

Va detto, inoltre, che, derivando parte del reddito da rendite non accertabili dai Comuni, si riteneva che l’accertamento degli immobili sarebbe risultato più semplice: per semplificare ulteriormente questa procedura si chiese che il libro degli immobili (ossia il Catasto) venisse trasferito ai Comuni (quanto detto, però, si verificherà solo in conseguenza dell’applicazione delle leggi Bassanini). Occorre sottolineare, tuttavia, che il lavoro di lettura della mappa degli immobili è già iniziato e che comporterà il trasferimento ai Comuni del potere di fissare le rendite immobiliari, sulla base di criteri precisi.

Merita di essere ricordato, peraltro, come il problema della fiscalità locale derivi anche da un motivo politico, ossia dal mutamento del sistema elettorale comunale che, introducendo l’elezione diretta del sindaco, garantisce a quest’ultimo una forte stabilità, trasformandolo nel referente della comunità: questa investitura popolare, infatti, fa sì che egli risulti ?senza partito?, poiché diventa portatore delle speranze dei cittadini (indipendentemente da chi lo ha votato). In questo modo i sindaci diventano protagonisti di un sistema di competizione fra le città, nell’ambito del quale il ricorso alla leva fiscale si rende indispensabile.

Per concludere, parrebbe opportuno sottolineare come le nuove risorse provengano ormai da un’imposizione forte, cresciuta in modo esponenziale negli ultimi anni: questo sistema, tuttavia, richiede anche un cambiamento a livello gestionale, diretto ad affidare la gestione a professionisti che, sebbene controllati, devono poter godere di una buona autonomia.

 

Riflessione a cura del dr. Maurizio DELFINO

(Direttore di Ragioneria della Provincia di Alessandria, Consulente ufficio di Ragioneria del Comune di Alessandria)

 

E’ stato sottolineato come la razionalizzazione della spesa ed il ricupero di alcune entrate costituiscano elementi strategici su cui operare per la crescita dell’ente locale e come la diminuzione dei trasferimenti provenienti dallo Stato non rappresenti un grave problema, poiché le risorse non sembrerebbero del tutto assenti, ma necessiterebbero piuttosto di una miglior gestione.

Parrebbe opportuno, infatti, introdurre negli Enti locali una nuova cultura, che consenta di affrontare la cosiddetta sfida delle risorse (causata da un aumento delle deleghe e da una diminuzione delle risorse stesse) mediante una loro diversa gestione, ispirata alla creazione dell’ottimo.

Va detto, a questo punto, che la Provincia di Alessandria risulta ancora in parte dipendente dallo Stato, non essendo dotata di una forte autonomia tributaria e non disponendo di una risorsa (come, invece, è l’ICI per il Comune) che consenta di finanziare le spese correnti: in questo modo, le entrate dirette specifiche non riescono a fronteggiare tutte le entità di spesa. In effetti, per finanziare la spesa corrente, la Provincia possiede poche voci di entrata, tra le quali spiccano la TOSAP, l’addizionale sull’energia elettrica, il tributo sulle discariche ed una certa discrezionalità sull’addizionale TARSU. In futuro, tuttavia, un ulteriore contributo dovrebbe provenire dall’addizionale comunale IRPEF, prevista dall’ultima legge finanziaria e subordinata all’emanazione di un decreto legislativo, attualmente in fase di studio: anche questo provvedimento potrebbe creare elementi di conflittualità e di concorrenza, dal momento che ogni anno il Governo dovrà stabilire un’aliquota base che il Comune potrà maggiorare fino ad un massimo dello 0,2% per anno e senza superare lo 0,5% in un triennio.

L’addizionale comunale IRPEF, nata dalla necessità di coprire i maggiori oneri derivanti dal trasferimento delle deleghe previsto dalla legge Bassanini, richiederà un rigoroso meccanismo di conteggio, poiché da esso dipenderà la decurtazione (o l’eventuale incremento) dei trasferimenti erariali.

Merita di essere ricordata, infine, l’esigenza di una sana programmazione, che consenta di impostare gli strumenti di finanza propria quale, ad esempio, un regolamento delle entrate, mediante il quale programmare i flussi finanziari: infatti, il rapporto tra finanza derivata e finanza propria ruota intorno alla programmazione finanziaria e gestionale, divenuta ormai essenziale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PRINCIPALI  APPROFONDIMENTI  DEL  DIBATTITO

 

 

 

*  E’ stato sottolineato come: 1) i trasferimenti costituiscano ancora una notevole fonte di entrate; 2) l’IRAP, pur rappresentando un’imposta assurda, dal momento che colpisce il reddito prodotto, provochi comunque un effetto positivo, identificabile nel fatto che colpisca le aziende che evadono. A questo proposito è stato chiesto se esista un criterio per controllare la spesa delle Regioni e per verificare l’utilizzo che viene fatto, dalle stesse, del denaro proveniente dal pagamento delle imposte (dr. Guala).

*  E’ stato chiesto se la Regione possa trasformare parte degli introiti, derivanti dalle imposte, in spese correnti e se esistano vincoli per la gestione di questo denaro (dr. Berrone).

 

Þ      Occorre ricordare che, pur rappresentando i trasferimenti una considerevole fonte di entrate, anche le entrate extra-tributarie non possono essere considerate trascurabili. Per quanto riguarda le Regioni, esse sono state immaginate, dal nostro ordinamento, come un ?momento? di legislazione, programmazione e controllo ma, in realtà, si sono trasformate in ?momenti? di gestione amministrativa diretta, condotta in modo pervasivo rispetto ai Comuni. Del resto i vincoli esistenti sono uguali per tutti e consistono essenzialmente nel raggiungere il pareggio del bilancio; tuttavia, va detto che la Regione presenta problemi particolari dovuti, sia all’organico (composto da troppo personale), sia alla spesa sanitaria (tendenzialmente priva di limiti). In questo modo risulta difficile individuare un giusto equilibrio tra la garanzia di sostanziale uguaglianza dei cittadini e le esigenze finanziarie dello Stato (sen. Triglia).

Þ     E’ stato sottolineato come, in Gran Bretagna, il welfare sia stato privatizzato, tramite la creazione delle assicurazioni e di un sistema privato molto efficace. In Italia, la struttura del deficit statale è stata duramente incisa dagli importanti interventi di risanamento attuati dal ministro Ciampi; tuttavia, il ricupero fiscale sarà possibile, in futuro, grazie alla tassa sui cosiddetti capital gains, ossia su ciò che si guadagna a qualsiasi titolo (prof. Miglietta).

 

E’ stato evidenziato come, in passato, le democrazie avanzate presentassero problemi fiscali e, dopo aver ricordato le tre grandi teorie fiscali (dell’equità fiscale, dell’ottimo fiscale e dello scambio fiscale), è stato chiesto se, in una situazione di autonomia fiscale dotata di forme di privatizzazione, siano configurabili elementi di scambio fiscale (prof. Argeri).

*  E’ stato sottolineato come l’autonomia finanziaria degli Enti locali sia, in realtà, lontana, dal momento che mancano la mentalità e la logica del bilancio pluriennale; tutti gli enti, di conseguenza, sono ancora sotto vigilanza (quanto detto vale anche per la Provincia di Alessandria, che possiede un’autonomia del 27% circa). Parrebbe opportuna, piuttosto, una partecipazione dell’ente locale nella gestione del controllo sull’IVA, considerato che l’evasione avviene, generalmente, nelle fasi finali del processo. A proposito dell’IRAP, invece, si verifica il rischio che la gestione delle risorse della Regione possa diventare materia di contrattazione politica. In Italia, infine, sarebbe utile introdurre un maggior numero di tariffe e ridurre il numero delle imposte perché, così facendo, sarebbe possibile risanare i bilanci degli Enti locali, responsabilizzare i cittadini e consentire ad altri privati di inserirsi nel mercato (dr. Lenti).

*  E’ stato rilevato come molti Comuni di piccole dimensioni, gravati da molteplici competenze, sentano il bisogno di unirsi e di formare consorzi: a questo proposito è stato chiesto cosa impedisca la creazione di Comuni più grandi (dr.ssa Martinetti).

 

Þ    La teoria dello scambio fiscale è, in realtà, una teoria di egoismo fiscale, poiché rappresenta il tentativo di interpretare in modo materialistico un concetto profondamente diverso: infatti, l’idea di privatizzazione da condividere è quella in cui non si verifica uno scambio fiscale, ma piuttosto uno scambio sulle regole di mercato (ossia sulla trasparenza di tutti i servizi che possono essere erogati in condizioni di mercato regolamentato). Una teoria dello scambio fiscale potrebbe realizzarsi solo qualora l’erogazione fosse orientata all’edificazione dell’uomo, centro dell’economia; ma, in realtà, i servizi possiedono la natura di ?utilità pubbliche?, che possono essere erogate anche dai privati. Nell’ambito di quanto detto, il settore pubblico deve essere il motore dell’economia, mentre il mercato costituisce un giudice severo, che non accetta mediazioni; il pubblico, inoltre, ricopre un ruolo di supplenza che, esaurendosi, libera spazi per i privati perché, nella società moderna, il rendimento è più importante dell’investimento (prof. Miglietta).

Þ      La creazione di Comuni più grandi è difficile da realizzare, dal momento che non è possibile definire la giusta dimensione da applicare (in passato è stata individuata, indicativamente, da Giannini nel numero di 50.000 abitanti); inoltre, il Comune non rappresenta solo un centro economico, ma costituisce un punto di partecipazione e di mediazione sociale che, in una fase di generale globalizzazione, merita di essere conservato. Per quanto riguarda la questione della partecipazione dell’ente locale alla fase di controllo sull’IVA, è stato espresso disaccordo con quanto detto in precedenza: esiste, infatti, una ragione comunitaria in base alla quale il Paese deve pagare il proprio contributo alla Comunità che, tuttavia, non ha mai consentito (fatta eccezione per la Grecia) che l’IVA fosse gestita anche dai livelli locali di governo (essendo l’imposta statale, quindi, il controllo spetta allo Stato). Va detto, infine, che i trasferimenti contengono spesso vincoli poiché, non solo le burocrazie, ma anche i grandi soggetti sociali si oppongono al federalismo (sen. Triglia).

 

E’ stato evidenziato come, tra gli elementi che mortificano l’autonomia finanziaria del governo locale, sia presente l’abuso della legislazione speciale, tuttora in aumento. Occorre ricordare, inoltre, che l’analisi precedentemente presentata, a proposito della Regione, potrebbe essere applicata anche agli altri Enti locali e che la Regione sembrerebbe possedere la giusta dimensione per poter attuare politiche fiscali che interessino realtà locali molto differenziate. Va detto, peraltro, che per conseguire una forte autonomia finanziaria, è necessario impostare un diverso rapporto tra il cittadino e lo Stato e garantire una maggior efficienza dei servizi. Infine, circa la possibilità di controllo degli Enti locali in campo fiscale, si ritiene perdente l’attuale sistema di controllo, diretto a ricuperare l’evasione fiscale in modo ?repressivo?, dal momento che non fornisce risultati soddisfacenti (avv. Bianchi).

*  E’ stato sottolineato come i cittadini subiscano le conseguenze del fatto che il mercato e la politica procedano a velocità differenti e che manchi una cultura della progettazione per il futuro (sig. Torchia).

E’ stato ricordato come la norma costituzionale, che prevede che ognuno paghi in base alla propria capacità contributiva e, così facendo, risulti affrancato da qualsiasi altro onere, non venga rispettata ed è stato suggerito, in materia di sanità, di redigere una classifica dei farmaci, nell’ambito della quale un prodotto nuovo possa essere inserito solo qualora presenti elementi di miglioramento (dr. Prete).

E’ stato evidenziato come si parli spesso dei costi economici che il decentramento comporta, tralasciando i costi in termini ?personali e culturali?, che obbligano l’individuo ad attivarsi e a diventare responsabile (dr. Rainero).

E’ stata espressa l’opinione secondo la quale, per realizzare un vero decentramento, lo Stato dovrebbe spogliarsi, in parte, di ciò che percepisce (rag. Bartolotti).

 

Þ    Non bisogna dimenticare che, negli ultimi decenni, molte cose sono migliorate: il mercato, ad esempio, ha spinto le aziende verso il cambiamento, mentre il settore pubblico è rimasto sostanzialmente fermo. Tuttavia sembrerebbe utile ricordare che il Paese funziona solo se anche i cittadini funzionano (sen. Triglia).

Þ     Parrebbe doveroso ribadire quanto sia importante, non solo la trasparenza, ma anche l’imparare a risparmiare per imparare ad investire. Nel nostro Paese sono presenti elementi problematici quali, ad esempio: 1) il fatto che la politica venga considerata in modo negativo, mentre dovrebbe essere fondata rispettivamente sui principi della remunerazione adeguata di chi la pratica e della rotazione (che in Italia non avviene, a causa della debolezza umana e di una legge economica caratterizzata dai rendimenti marginali decrescenti); 2) il fatto che la magistratura sembri negare il principio della divisione dei poteri e rappresenti, ormai, un fattore di chiusura della società; 3) l’abisso culturale provocato dalla televisione e dal ?cattivo? giornalismo, che impediscono la conversazione e spesso inducono a dimenticare che la vera cultura formante è quella fornita dalla scuola (prof. Miglietta).

 

 

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