I mali dell’università italiana sono sufficientemente noti e la loro identificazione si può ormai fare con un grado elevato di consenso, anche se non sempre il quadro sul quale concordano gli esperti corrisponde all’immagine dif­fusa presso l’opinione pubblica. Un’immagine che spesso presenta in forma caricaturale problemi reali, ma più tipici delle situazioni estreme che non della generalità dei casi.

È accaduto che l’Università italiana non abbia seguito l’evoluzione generale dei sistemi di istruzione superiore dagli anni sessanta in poi, se non con aggiustamenti legali parziali e tardivi, e molti adattamenti spontanei, miglio­rativi per questa o per quella componente, ma generalmente peggiorativi per il sistema. Si è trattato della trasfor­mazione da un sistema tradizionale di piccole dimensioni basato sulla comunità dei docenti e su un corpo studentesco molto omogeneo in termini di classe sociale, a un sistema ampio e socialmente diversificato, an­che se molto lontano dall’idea di accesso universale, che e’ stato investito dei problemi della mobilità sociale e della preparazione di una classe dirigente, ma senza aver acquisito gli strumenti istituzionali per risolverli.

Perciò non è esatto dire che nel sistema accademico italiano non sia mutato nulla perché i cambiamenti ci sono stati e sono stati profondi, se si pensa che tra la metà degli anni sessanta e la metà degli anni novanta il corpo stu­dentesco è più che raddoppiato, mentre il corpo docente è passato da poche migliaia a varie decine di migliaia, senza che vi si siano sostanzialmente mutati i rapporti quantitativi di genere. Contemporaneamente sono stati creati molti nuovi atenei, istituite nuove facoltà, ammessi nuovi corsi di laurea, ma a questi mutamenti quan­titativi non ha tenuto dietro una adeguata trasformazione della struttura organizzativa dell’università, rima­sta in molti suoi aspetti quella adatta a un sistema universitario piccolo e tradizionale, se si escludo alcune in­novazioni anche di rilevo, ma parziali, come l’introduzione del Dottorato, l’istituzione del Dipartimento e l’avvio del Diploma. Come in altri settori della società italiana, in mancanza di un quadro evolutivo istituzionale, si sono creati adattamenti perversi, che hanno distrutto molte delle componenti di comunità autoregolantesi necessarie in ogni sistema universitario, trasformandolo in un grande e complesso aggregato poco capace di innovarsi

Un esempio esplicativo di tale situazione è rappresentato dal fatto che sino a pochi anni or sono le modalità di conduzione degli esami erano disciplinate da una legge del 1938 che a sua volta riprendeva la legge Casati risalente alla fine del xix secolo. È legittimamente impensabile che una direttiva procedurale sorta per discipli­nare una situazione in cui la percentuale degli studenti universitari non superava il 5% dei giovani di età compresa tra i diciannove e i ventiquattro non sia idonea a regolare l’attuale realtà universitaria in cui i dati numerici relativi alle iscrizioni universitarie sono decisamente superiori.

È considerata opinione comune l’osservazione secondo cui l’Università italiana sia priva di vincoli di disegua­glianza in quanto ?a costo zero? per lo studente; tuttavia tale gratuità sembra non essere pienamente conforme con le esigenze attuali, addirittura è ritenuta la causa di una situazione socialmente punitiva poiché da un lato la mag­gior parte dei costi universitari ricadono sullo Stato e dall’altro, tenendo conto di vari parametri, è stato stimato che su diciotto famiglie diciassette pagano senza saperlo anche la quota spettante alla diciottesima e, circo­stanza notevolmente preoccupante, non sono sempre i nuclei familiari più abbienti a sostenere tali ?costi al­trui?.

Dunque, per ottenere una equa distribuzione dei costi universitari si è convinti che la soluzione maggiormente adeguata a una realtà dei grandi numeri sia aumentare le tasse a carico di ciascun studente raggiungendo in tal modo la possibilità di erogare un numero maggiore di borse di studio e di offrire servizi molto utili, quali ad esem­pio biblioteche più funzionali.

Si tratta prevalentemente di servizi già presenti nel sistema anglosassone che da tempo ha reso la sua struttura organizzativa idonea a un’istruzione di massa; in Italia invece il sistema universitario ha fatto fronte a tali enormi cambiamenti soltanto con precarie misure in larga parte spontanee. Per dare un’idea delle preoccupanti conse­guenze attribuibili principalmente a tale linea di condotta basti riflettere sul fatto che dal 1960 al 1994 si sono ri­volti all’Università ben 7.000.000 giovani di cui soltanto 2.000.000 hanno portato a termine gli studi universitari. Ciò vuol dire che 5.000.000 studenti negli ultimi trentaquattro anni hanno avuto un contatto negativo con un sistema chiave della società, quale è l’Università; cifra che è ritenuta giustamente clamorosa e inaccettabile per un Paese come l’Italia.

Alla luce di tali dati sconcertanti si pensa che l’alto tasso di abbandono sia principalmente riconducibile alla circostanza – richiamata più volte ? secondo cui il sistema italiano non rispondendo in maniera adeguata alle nuove esigenze degli studenti non ha introdotto quelle nuove ?strutture? in grado di far fronte alle problematiche dell’attuale realtà universitaria. È noto che in passato una ?permanenza? prolungata all’Università non compor­tava gravi disagi economici alle famiglie degli studenti, oggi invece in una logica di grandi numeri può costituire un costo insostenibile, che in taluni casi determina persino l’abbandono degli studi.

 

Si ritiene che tutte le problematiche citate costituiscano buone ragioni per intervenire con l’elaborazione di un quadro istituzionale diretto a ottenere un sistema autoregolato e autosostenentesi, i cui pilastri sono principalmente individuabili nei seguenti punti:

 

·         contrattualità tra università e studente con la necessaria precisazione degli impegni reciproci (in termini di tasse e servizi da un lato, di impegno di lavoro dall’altro);

·         distinzione tra studente a tempo pieno e a tempo parziale;

·         flessibilità curriculare;

·         sostituzione di un valore formale del titolo di studio con un sistema di certificazioni a posteriori o accredi­tamento

·         didattica organizzata per crediti;

·         articolazione dei corsi e dei titoli su tre livelli.

 

Alla base della riforma viene posto un principio definito di contrattualità, che dovrebbe sostituire il rapporto quasi-fiscale della passiva ?iscrizione? a una università: nel momento in cui intraprendono un corso di studi è rite­nuto opportuno che gli studenti abbiano la possibilità di definire contrattualmente – cioè in base a un ?accordo bilaterale con prestazioni corrispettive? – con il singolo ateneo le condizioni di svolgimento degli studi.

Queste condizioni stabiliscono obbligazioni da entrambe le parti, potenziando la componente ?consensuale? del rapporto tra studenti e istituzione ponendo inoltre l’accento sulla qualità del servizio dovuto dall’Ateneo. Quindi se da un lato la fruizione di questo servizio contiene inevitabilmente l’adesione a un rapporto pedagogico implicito nell’attività didattica organizzata e nel concetto di università come comunità, dall’altro impone all’Ateneo il rispetto degli standards specificati nell’accordo.

Si è convinti che il principio di contrattualità possa rivalutare il ruolo degli studenti quali soggetti attivi adulti contribuendo al tempo stesso ad avviare un processo di aumento della trasparenza nell’offerta forma­tiva che stabilisca in modo chiaro le responsabilità dell’Ateneo.

Un secondo principio che si pone a fondamento della riforma riguarda la pluralità delle offerte in risposta a diversi tipi di domanda formativa: si ritiene opportuno che il sistema di istruzione superiore tenga in debita con­siderazione della domanda prevalente rivolta da giovani adulti che intendono acquisire un titolo nei tempi pre­scritti, e operi in modo da creare le condizioni perché questo percorso si svolga con la massima regolarità possibile inserendo nel contratto formativo le condizioni necessarie per il regolare completamento degli studi per gli stu­denti a pieno tempo e i doveri che essi sottoscrivono.

Al tempo stesso è necessario che si sviluppi sempre più una risposta complessa alla articolata domanda prove­niente da quei soggetti già inseriti nel mondo del lavoro, che intendono conseguire il titolo di studio senza un ter­mine di tempo preciso, ovvero in tempi dilazionati, e adulti, o adulti anziani, che rientrano periodicamente nel si­stema per una formazione life long. Questo principio dovrebbe portare alla eliminazione dello status e della idea stessa di “fuori corso”, che va sostituita con diverse forme concordate e regolate di studenti a tempo parziale.

La pluralità dell’offerta implica a sua volta un terzo principio che concerne flessibilità curriculare, ossia la possibilità di offrire agli atenei la facoltà di avviare nuove attività formative, anche temporanee, senza lun­ghe e defatiganti procedure di approvazione preventiva, facilitando in tal modo l’adeguamento dell’offerta formativa ai cambiamenti nel modo del lavoro e delle condizioni di vita che sono particolarmente rapidi in questo torno di anni.

All’interno di una attenzione allo sviluppo di settori innovativi che tengano conto della pluralità di culture e cono­scenze, l’attuazione di questo principio si lega anche alla messa in atto di iniziative per la sensibilizzazione alla cultura di genere. La flessibilità curriculare si ottiene anche facilitando le procedure di approvazione di nuovi corsi di studio e la loro chiusura una volta che se ne rilevi esaurita l’utilità, infatti si è convinti che l’innovazione didat­tica debba riguardare non soltanto i curricoli e i contenuti disciplinari, ma anche le modalità delle attività didatti­che. In particolare occorrerà che si incrementino le occasioni di effettiva interazione tra docenti e studenti, fin dai primi anni di iscrizione, non trascurando l’uso delle nuove tecnologie comunicative.

La flessibilità curriculare si ricollega a un quarto principio organizzativo che mira alla graduale sostituzione di un valore formale del titolo di studio – assegnato a priori, una volta per tutte, in base a un elenco di titoli di corsi ? con un sistema di certificazioni a posteriori o accreditamento basato su tre criteri, valore culturale del ti­tolo proposto, sua rispondenza a esigenze sociali o economiche e adeguatezza delle risorse messe a disposi­zione dagli Atenei.

L’accreditamento nazionale è necessario nella misura in cui il sistema di istruzione superiore utilizza risorse pubbliche da un lato e si pone come garante della qualità dell’istruzione offerta dall’altro; tuttavia, nel quadro del­l’autonomia è indispensabile che i requisiti comuni siano effettivamente minimi, ma soprattutto che le procedure di avviamento di nuovi corsi e le variazioni dei corsi tradizionali possano svolgersi senza le lentezze e le rigidità del sistema vigente.

La flessibilità è garantita da un sistema di crediti – il quinto principio operativo ? riconducibile alla sostituzione della definizione dei corsi di studi che oggi è in annualità e in ore imposta da una serie di circostanze, quali l’arti­colarsi delle autonomie dei singoli atenei, la maggiore complessità dei percorsi formativi, la domanda, proveniente da una pluralità di soggetti, di una loro maggior flessibilità e fruibilità, i rapporti da favorire e incrementare tra le istituzioni universitarie sia italiane che europee e la necessità di una codificazione comune.

I crediti sono valori numerici (tra 1 e 60) associati alle unità di corso per descrivere il carico di lavoro ri­chiesto agli studenti per completarle. Essi devono riflettere la quantità di lavoro totale che ciascuna unità di corso richiede in relazione alla quantità totale di lavoro necessaria nell’istituzione per completare un anno accade­mico di studio, comprese le lezioni, il lavoro sperimentale e pratico, i seminari, i tutorial, gli elaborati, i tirocini, gli stages, lo studio individuale, le tesi, gli esami e le altre attività di valutazione. I crediti in altre parole si basano sul lavoro totale degli studenti e non si limitano a valutare unicamente le ore di didattica impartita.

Le strutture didattiche universitarie finalizzate al conferimento di titoli di studio riconosciuti a livello nazionale si articolano, come previsto dalla normativa attualmente in vigore, su tre livelli:

 

·         un primo livello della durata di tre anni con funzione professionalizzante

·         un secondo livello che durata due anni funzionale alla specializzazione delle competenze acquisite nel corso dei primi tre anni;

·         un terzo livello – il dottorato di ricerca ?curricolo indirizzato alla ricerca e pertanto differenziato dal se­condo livello, rivolto prevalentemente alle professioni; esso non deve essere orientato soltanto verso l’ambiente accademico bensì si ritiene utile potenziare le valenze del dottorato orientate verso la ricerca pratica attraverso intese con il sistema produttivo.

 

Con riferimento alle processo di elaborazione della riforma occorre sottolineare che nel 1997 il Ministro dell’Università ha coordinato un Gruppo di lavoro coordinato dal prof. Guido Martinotti, che alla fine dello stesso anno ha redatto un documento su ?Autonomia didattica e innovazione dei corsi di studio e livello universitario e post-universitario? nel quale sono enunciati sia i principi di carattere generale ispiratori della riforma, sia le propo­ste di interventi con provvedimenti specifici per riformare il sistema universitario italiano.

Nel corso del 1998 tale documento è stato proposto alle università italiane e durante la Conferenza dei Rettori sono state ?tirate le somme? delle suddette consultazioni sulla base delle quali il Ministro ha elaborato note di indi­rizzo amministrativo contenenti le indicazioni dei criteri generali cui le singole Facoltà dovrebbero adeguarsi.

Si ritiene opportuno porre in evidenza che gli interventi riformatori elaborati e proposti nel documento sull’autonomia sono considerati una ?scommessa? che si basa sul fatto che in generale viene rifiutata un’immagine catastrofica del sistema universitario italiano, in larga misura costruita dai mezzi di comunicazione di massa su alcuni eventi senza dubbio significativi, ma non universalmente rappresentativi (megatenei, esiti perversi dei con­corsi, conflitti sul numero chiuso ecc.). Piuttosto, si è convinti che l’immagine dell’università italiana più plausibile sia quella di un sistema molto diversificato, con non poche forze innovative che trovano difficoltà a tradurre in pratiche istituzionali accettate le esperienze locali.

Il ritardo istituzionale va colmato tenendo ben presente che in tutti i sistemi europei di istruzione superiore si stanno trovando difficili e complessi adattamenti innovativi e rifuggendo da impostazioni che proiettano sull’azione di riforma l’inclinazione a suggerire modelli astrattamente universalistici, ma incapaci di collegarsi con le molte forze innovative presenti nel mondo universitario; occorre inoltre tenere presenti alcuni aspetti esterni quali la ri­forma dei cicli scolastici, la costituzione di una “seconda rete di formazione a livello terziario”, di cui si sta discu­tendo ora in numerosi documenti ufficiali, le carenze formative della popolazione adulta e la diffusione di una cultura di genere nella società.

Infine occorre sottolineare che l’autonomia non è un fine in sé, ma un mezzo per ottenere degli obiettivi di mi­gliore funzionamento del sistema. In altre parole lo scopo ultimo dell’azione innovatrice del Ministero non è di assegnare ai singoli atenei maggiore autonomia, ma quello di assicurarsi che la maggiore autonomia signifi­chi soprattutto rimozione di ostacoli sulla via di una maggiore funzionalità di un sistema che oggi appare bloccato o avviato verso una involuzione.

Si considera inoltre un atteggiamento poco coerente con la filosofia della riforma, identificare l’autonomia con la pura e semplice deregulation perché non basta eliminare alcune regole per mettere in moto un processo auto­matico di aggiustamento del sistema.

 

 

 




 

PRINCIPALI APPROFONDIMENTI DEL DIBATTITO

 

 

 

v      Si chiede di indicare le opportunità offerte dal sistema dei crediti (sig.ra M. Graziano).

v      Si domanda se e con quali modalità il sistema dei crediti possa influire sulla formazione permanente (prof.ssa C. Barberis).

v      Si chiede se sia previsto il riconoscimento formale dei crediti conseguiti durante un’esperienza formativa presso un istituto privato (quale ad esempio un’azienda) (dr. R. Guala).

 

Ø                Il sistema dei crediti offre una serie di opportunità dotate di una notevole carica innovativa:

 

·         è uno strumento per controllare in modo accurato e confrontabile i carichi didattici e la loro distribuzione sia tra i docenti che tra gli studenti, consentendo di spostare l’ottica dall’inse­gnamento all’apprendimento;

·         sostituisce al concetto della frequenza obbligatoria quello di frequenza finalizzata agli obiet­tivi dello studente;

·         permette una maggiore mobilità degli studenti che possono muoversi con maggiori disponibi­lità di scelte nei loro percorsi didattici sia tra facoltà diverse dello stesso ateneo, sia tra di­versi atenei, sia tra i diversi livelli di corsi di studi (diploma, laurea, corsi di perfeziona­mento, specializzazioni, ecc.);

·         accentua la modalità dei corsi consentendo ai docenti di costruire proposte didattiche che ac­cedono a tipologie composite (lezioni a fronte, insegnamento a distanza, utilizzazione di tec­nologie mediatiche) e che meglio si adattano alle esigenze di una popolazione studentesca estremamente differenziata;

·         la sua attuazione implica uno sviluppo della collegialità delle decisione tra i docenti e un confronto sui temi della didattica con il corpo studentesco;

·         fa intravedere la possibilità di organizzare percorsi di studi flessibili, innovativi rispetto a quelli consolidati e rispondenti alle esigenze di piccoli gruppi.

 

Ø                Il sistema dei crediti mostra interessanti possibilità anche di fronte alle esigenze di aggiornamento e di rinnovo dei contenuti delle conoscenze e delle competenze, ovvero rispetto al problema dell’istruzione permanente, intesa non soltanto come fatto ?culturale? ma come strumento di lavoro. In ogni settore pro­fessionale il ?capitale? di istruzione accumulato dal singolo durante il processo formativo, è un bene rapi­damente deperibile con l’usura e il trascorrere del tempo. È noto che l’individuo assorbe dalla società in cui vive conoscenze ed esperienze escluse dai suoi percorsi formativi istituzionali: compito di un sistema di istruzione universitaria moderna sarà sempre più quello di ricostituire, rinnovare, rendere esplicito, arric­chire periodicamente questo ?capitale?. I crediti, accumulati da un individuo e distinti a questo riguardo in crediti didattici e crediti formativi e/o professionali, potrebbero rappresentare una misura del capitale di­sponibile ed indicare, di volta in volta, gli aggiustamenti necessari.

 

Ø                La validità del sistema dei crediti all’interno dello stesso ateneo è garantita da riferimenti allo Sta­tuto e ai Regolamenti didattici mentre i rapporti con l’esterno – tra ateneo ed ateneo, tra ateneo ed enti non appartenenti al sistema universitario – sono garantiti e ratificati dagli organi accademici coinvolti.

 

 

v      Si chiede se l’alto tasso di abbandono degli studi universitari possa essere ricondotto al venire meno del rap­porto diretto con l’insegnante che è invece proprio delle scuole medie superiori. Si domanda inoltre quali ri­medi possano essere apportati per risolvere tale preoccupante problematica (sig.ra M. Graziano).

v      Si osserva come la previsione legislativa nel disporre che la funzione di orientamento debba esplicarsi attra­verso un servizio di tutorato non individui il soggetto cui attribuire tale incarico (dr. G. Guala)

 

Ø                Il disorientamento iniziale degli studenti universitari è un ?classico? del sistema universitario perché si passa da un metodo di insegnamento ?rigido? ad uno ?libero?; a ciò si deve aggiungere il fatto che l’orientamento fino ad alcuni anni fa è stato scarsamente presente nelle università italiane. Le attività si ri­ducevano quasi esclusivamente alla diffusione di informazioni sui corsi di laurea e a qualche contatto spo­radico con le scuole. Negli ultimi anni, grazie all’iniziativa della Conferenza dei Rettori, delle Regioni e di alcune università, si è sviluppata una riflessione abbastanza approfondita sulle caratteristiche e gli obiettivi dell’orientamento e sono state sperimentate nuove attività.

Il Ministero della Pubblica Istruzione e il Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica hanno pro­dotto un documento generale sull’orientamento e la diffusione delle informazioni, approvato dalla Commis­sione Interministeriale; il Ministro ha inviato alle scuole ed alle università due atti di indirizzo, nei quali vengono indicati principi, obiettivi generali e azioni auspicabili, e viene richiesto di avviare il prima possi­bile tali azioni con lo scopo di avere elementi per definire nuovi modelli di strutture e di attività efficaci di orientamento, nel contesto di un sempre maggiore coordinamento inter-istituzionale.

Infine i due Ministeri hanno destinato risorse e promosso iniziative per favorire il raggiungimento di tali obiettivi, in particolare nel campo della formazione degli insegnanti delle scuole, in quello della ri­cerca/azione su temi rilevanti per l’orientamento, quali le forme di verifica ed il collegamento con le attività didattiche, e in quello dei collegamenti organizzativi e telematici fra diverse istituzioni educative e fra queste e suggelli pubblici e privati interessati all’orientamento ed alla qualificazione professionale.

Queste iniziative ministeriali devono essere valutate positivamente. In particolare, risulta rilevante la nuova definizione di orientamento contenuta nel documento approvato dalla Commissione Ministeriale  in cui è scritto “l’orientamento consiste in un insieme di attività che mirano a formare o a potenziare nei giovani capacità che permettano loro non solo di scegliere in modo efficace il proprio futuro, ma anche di parteci­pare attivamente negli ambienti di studio e di lavoro scelti. Tali capacità riguardano, infatti, la conoscenza di se stessi e della realtà sociale ed economica, la progettualità, la organizzazione del lavoro, il coordina­mento delle attività, la gestione di situazioni complesse, la produzione e la gestione di innovazione, le di­verse forme di comunicazione e di relazione interpersonale, l’auto-aggiornamento ecc.

L’orientamento può acquisire queste caratteristiche se viene assunto come una delle dimensioni dell’auto­nomia scolastica ed universitaria realizzata pienamente, e nello steso tempo può contribuire a tale realizza­zione. Infatti l’autonomia, intesa in modo corretto, implica un aumento di responsabilità rispetto ai processi ed ai risultati e costituisce uno strumento per accrescere le relazioni orizzontali fra istituzioni educative, se­condo la logica della rete, e le interazioni fra queste ed i soggetti istituzionali e privati esterni o fra centro e strutture locali della pubblica amministrazione. L’attenzione alle caratteristiche degli studenti e ai bisogni di professionalità e di cultura a livello locale e nazionale, per costruire una adeguata offerta di istruzione su­periore, rilevante e significativa nella società contemporanea, costituisce il fondamento e la sostanza della nuova concezione dell’orientamento.

 

v      Si domanda in che consiste l’autonomia delle università prevista dalla riforma  (dr. E. Boccaleri)

 

Ø                L’ordinamento didattico e l’assetto organizzativo dei corsi sono autonomamente definiti dalle uni­versità, che – conformemente ai principi di contrattualità rispetto agli allievi e di trasparenza – individuano altresì gli organi responsabili dei conseguenti adempimenti e le forme di pubblicità e di verifica. In parti­colare, le università disciplinano:

 

·         la caratterizzazione di ognuno dei corsi, con riferimento anche alla specificità della sede, e conseguentemente la collocazione dei corsi entro le facoltà ovvero la loro configurazione quali corsi di Ateneo, o comunque facenti capo a più facoltà;

·         le modalità per l’attribuzione ai professori dei loro compiti didattici istituzionali, nell’ambito del settore scientifico-disciplinare di appartenenza, in uno o più corsi, al fine della piena ed ef­ficace utilizzazione di ogni docente;

·         le procedure per garantire, attraverso una programmazione didattica collegiale, il coordina­mento degli insegnamenti in relazione alle finalità culturali e professionali individuate per il corso;

·          il numero di crediti, che possono essere liberamente scelti da ogni singolo studente anche in diverse facoltà;

·         l’articolazione degli insegnamenti e delle altre attività didattiche, in forme tali da favorire una adeguata presenza di attività individualizzate o comunque interattive;

·         il tutorato e le altre iniziative rivolte agli studenti per migliorare le loro capacità di apprendi­mento;

·         le prove di valutazione, sia intermedie all’interno dei singoli insegnamenti sia conclusive; que­ste ultime possono riguardare globalmente una pluralità di insegnamenti e devono essere previ­ste in numero compatibile con la possibilità di sostenerle al termine di ognuno dei semestri o anni (indicativamente, non più di tre per semestre).

 

L’autonomia degli atenei non è illimitata perché la Commissione ha fissato dei paletti attraverso l’elaborazione di Criteri che individuano per ogni corso:

 

·         le principali caratteristiche culturali e professionali della figura che il corso si propone di formare;

·          la durata, in anni o in semestri, prevista per gli  studenti a tempo pieno, con la conse­guente definizione del numero di crediti; tale importo di crediti costituisce il punto di rife­rimento per gli studenti che siano a tempo parziale o che seguano percorsi diversi dal cur­ricolo standard;

·          il numero di annualità, inteso come numero di insegnamenti annuali ?equivalenti?, ferma restando la facoltà per ogni università di articolare tali annualità in moduli di diversa lun­ghezza e peso;

·         il numero minimo di crediti, ovvero di annualità, da acquisire obbligatoriamente o in spe­cifici settori scientifico-disciplinari o globalmente in aree disciplinari più vaste compren­denti una pluralità di settori affini; il totale dei crediti indicati come obbligatori non può superare la metà del totale e deve comprendere in misura adeguata aree disciplinari diverse dall’area cui il corso fa direttamente riferimento o che in esso è prevalente;

·         l’eventuale obbligatorietà di attività extramurali, in particolare di tirocini e stages, e le re­gole generali relative a tali attività.

 

Il controllo ministeriale sugli atti normativi approvati dalle Università è limitato alla verifica della confor­mità rispetto ai Criteri sopra indicati.

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