Nel corso della serata è stato affrontato un tema duplice, consistente: 1) nel tentativo di delineare i tratti essenziali del sistema internazionale post-bipolare e del nuovo ordine mondiale (anche se la maggior parte degli studiosi conviene, piuttosto, sull’opportunità di descrivere la situazione creatasi dopo il 1989 come un disordine internazionale); 2) nella valutazione delle prospettive democratiche esistenti in ambito internazionale, indagando la natura dei processi di democratizzazione realizzatisi nel dopo-guerra fredda ed interrogandosi sull’esistenza di un nesso tra pace e democrazia che, qualora venisse confermata dai fatti, potrebbe rendere plausibile la realizzazione della ?pace perpetua? teorizzata da Kant.

Va detto che si è soliti far coincidere la fine del bipolarismo con la notte tra il 9 e il 10 novembre 1989, ossia con la demolizione del muro di Berlino, che simboleggiava la divisione del mondo in due blocchi ideologicamente e politicamente contrapposti; infatti, anche se alcuni studiosi evidenziano elementi di continuità tra il dopo-guerra fredda ed il periodo precedente, caratterizzato da un bipolarismo ritenuto solo apparente, la maggior parte di essi ritiene, al contrario, che nel tessuto della politica internazionale si sia determinata una mutazione epocale, straordinaria in quanto avvenuta in modo pacifico. La guerra fredda, del resto, rappresenta un tipo di conflitto diverso da quelli verificatisi in precedenza, dal momento che non è mai degenerata: questo elemento innovativo, peraltro, è legato all’esistenza di nuove armi di cui disponeva l’umanità, che avrebbero reso impossibile uno scontro generalizzato tra le due superpotenze.

Gli eventi seguiti alla caduta del muro di Berlino, ricollegabili al collasso del comunismo reale e alla disintegrazione dell’impero sovietico, dimostrano come la storia abbia subìto un’accelerazione, proprio mentre alcuni studiosi (come il nippo-americano Fukuyama) sostenevano, alla fine degli anni Ottanta, la fine della storia, che si sarebbe concretizzata con la raggiunta unificazione del mondo sulla base dei valori tipici della liberal-democrazia occidentale. In realtà, come è ormai noto, lo scenario attuale è più complesso e tale complessità ha provocato la crisi della scienza cosiddetta ?normale?, poiché le relazioni internazionali costituiscono una disciplina nata nel nostro secolo e modellata sul sistema bipolare che, nonostante fosse illiberale e dispotico, sembrava ben costruito (nessuno, del resto, aveva previsto la rivoluzione del 1989 e ciò che ad essa è seguito).

La mutazione sopra citata, quindi, ha provocato la crisi dei principali paradigmi interpretativi e degli indirizzi teorici affermatisi, nel corso dei decenni precedenti, nella politica internazionale, ossia: il realismo politico ed un insieme di approcci che si riconducono alla dottrina liberale.

I presupposti fondamentali del primo, al quale si ispira tuttora la maggior parte degli studiosi, risalgono a Tucidide e ricompaiono in Machiavelli ed in Hobbes; tuttavia occorre dire che esso non costituisce una vera e propria teoria, ma piuttosto un orientamento generale, basato sulla condivisione di alcuni assunti essenziali, relativi alla natura della politica internazionale. Il primo  assunto sostiene che la politica internazionale è dominata dagli Stati, dal momento che l’esistenza di altre organizzazioni non incide sulla dinamica evolutiva del sistema delle relazioni internazionali; il secondo assunto afferma che l’ambito internazionale è strutturalmente anarchico, ossia si caratterizza per l’assenza di un’autorità centrale. Secondo il modello giusnaturalistico, infatti, gli individui sono usciti dallo Stato originario grazie al contratto sociale, ma gli Stati non possono fare altrettanto poiché sono, per definizione, ?affezionati? alle proprie prerogative sovrane ed indisponibili a cederle ad un’autorità superiore ad esse.

Per i realisti, quindi, il tabù della sovranità statuale risulta insuperabile e dovuto all’anarchia internazionale, condizione necessaria in cui vivono gli Stati, costretti a perseguire una politica di potenza; per questo motivo parrebbe opportuno dotarsi dei mezzi necessari per far valere i propri interessi contro quelli contrapposti di altri attori, per evitare che si inneschi una spirale perversa (come è avvenuto, nell’epoca bipolare, con la corsa agli armamenti). Il meccanismo ora descritto dal quale, secondo i realisti, non è possibile uscire, viene definito ?dilemma della sicurezza?.

Alcuni realisti, inoltre, sostengono l’esistenza di un terzo assunto secondo il quale gli Stati, in ambito internazionale, si comportano come attori unitari razionali ed egoisti ed agiscono secondo un calcolo utilitaristico in termini di costi-benefici, finalizzato alla difesa dei propri interessi.

Merita di essere ricordata l’esistenza di un altro paradigma interpretativo, riconducibile al liberalismo, nell’ambito del quale, tra le principali teorie, spicca quella idealistica, risalente al giusnaturalismo groziano.

Nel campo delle relazioni internazionali, la caratteristica principale del liberalismo è quella di ritenere che l’ambito internazionale non sia anarchico e che sia possibile in esso la cooperazione, ma solo a determinate condizioni, la principale delle quali è l’affermazione, a livello internazionale, di istituzioni che possano assumere forme differenti (come, ad esempio, la creazione di regimi internazionali, ossia forme di irregimentazione attraverso norme comunemente rispettate ed il controllo dei problemi collettivi, che i singoli paesi devono ormai affrontare in modo cooperativo). Da quanto detto, quindi, si evince la centralità del ruolo delle istituzioni nell’attenuare, o persino eliminare, gli effetti dell’anarchia internazionale, nel tentativo di ottenere una società internazionale simile ad una società civile; la crescente istituzionalizzazione dei rapporti tra gli Stati, peraltro, sarebbe motore della civilizzazione e renderebbe obsoleta la guerra: infatti, mentre gli idealisti ritengono possibile una rinuncia degli Stati all’esercizio della forza come strumento di soluzione di controversie internazionali, per i realisti la guerra costituirà sempre un elemento fondamentale nelle relazioni tra i diversi Stati.

Nell’ambito del pensiero idealista, inoltre, viene individuato un forte nesso tra la democrazia e la pace, dal momento che si sostiene che dove esista la prima, il ricorso alla forza tenda a diminuire, fino a scomparire.

Ci si è chiesti come questi due orientamenti si pongano rispetto alla fine del bipolarismo e alla nascita della nuova epoca del dopo-guerra fredda. A questo proposito emergono due tendenze antitetiche: 1) alla globalizzazione, allo sviluppo di progetti di integrazione sovranazionale e all’instaurazione di un ordine mondiale, basato sulla progressiva democratizzazione delle istituzioni di governo del sistema internazionale; 2) alla frammentazione e balcanizzazione dello stesso sistema e alla disintegrazione delle vecchie alleanze strategiche, che comporta l’emergere di nuovi soggetti anche transnazionali e la ricomparsa del nazionalismo (foriero di traumatici riallineamenti geopolitici).

Va detto che alcuni studiosi di politica internazionale ?rimpiangono? il sistema bipolare in cui, ad una minore libertà, corrispondeva una maggiore sicurezza, dal momento che ?l’equilibrio del terrore? limitava i conflitti locali. Si ritiene, infatti, non solo che il processo di integrazione europea, essendo sbilanciato sul versante economico (più che su quello politico), non rappresenti un antidoto alle spinte verso la frammentazione, ma anche che la globalizzazione non costituisca un fenomeno pienamente positivo, poiché alcuni paesi rimarrebbero comunque esclusi dai processi di integrazione. Occorre ricordare, infatti, che si parla della cosiddetta ?Europa-fortezza? proprio per indicare come i paesi esclusi dai suddetti processi vivano questa situazione come un ?arroccamento? dei paesi del Nord del mondo in difesa dei propri privilegi.

Merita di essere ricordato, inoltre, che i realisti ritengono che, nel passaggio dal bipolarismo al sistema post-bipolare, si sia modificata la distribuzione delle risorse di potenza tra gli Stati, ma non la natura della politica internazionale: essi, del resto, rifiutano le teorie relative al presunto declino dello Stato-nazione.

A questo proposito emergono, tra i realisti, due opinioni differenti circa lo sviluppo futuro della situazione attuale: alcuni sostengono l’ipotesi dell’unipolarismo, sulla base della quale prevarrà una sola superpotenza mondiale (gli Stati Uniti), mentre altri ritengono più probabile l’ipotesi del multipolarismo, che sancirebbe un ritorno alle grandi potenze ottocentesche, tramite l’individuazione di centri di potere internazionali (quali, ad esempio, gli Stati Uniti, la Russia post-sovietica, la Cina, l’Unione Europea e, probabilmente, il Giappone). La scelta tra questi due scenari dipende soprattutto dal ruolo futuro che si intende attribuire agli Stati Uniti: seondo i declinisti, ad esempio, questa potenza avrebbe già imboccato la parabola discendente del potere (come avviene, peraltro, per tutti gli Stati), mentre per i revivalisti o eccezionalisti essa sarebbe destinata a non conoscere declino, almeno per i prossimi decenni (i revivalisti, di conseguenza, sono favorevoli all’unipolarismo, i declinisti al multipolarismo).

Parrebbe opportuno ricordare anche che altri studiosi prospettano uno scenario di guerra civile internazionale, nell’ambito del quale la guerra rimane lo strumento privilegiato per la soluzione delle controversie, che si svilupperanno principalmente nei paesi meno sviluppati: in questo contesto prolifererebbero le guerre locali e, alle zone di ordine unipolare, si alternerebbero quelle di disordine totale.

Occorre dire che è sempre presente il problema della diversa immagine che si ha dell’attuale distribuzione delle risorse di potenza tra gli Stati e che, per questo motivo, si renderebbe necessaria un’unificazione europea anche a livello politico.

I liberali sostengono che la democrazia si stia diffondendo nel mondo e che ad essa corrisponderà una diminuzione del tasso di conflittualità ma, in realtà, Huntington, analizzando le tre ondate di democratizzazione che si sono verificate dal 1815 ad oggi, ha dimostrato che il numero di Stati democratici è leggermente diminuito a livello percentuale (nel 1922, ad esempio, essi erano 29 su 64, pari al 45,3%, mentre nel 1990 erano 58 su 129, pari al 45%). Secondo i liberali, inoltre, le democrazie non combatterebbero tra loro, poichè la loro indole pacifica sarebbe evidenziata dal fatto che, solitamente, non intraprendano conflitti e, qualora siano coinvolte in guerre, generalmente le vincano: numerosi regimi autoritari sconfitti, peraltro, hanno dato origine a sistemi democratici (anche se rimane il problema di definire quando un paese possa essere ritenuto democratico).

La situazione ora descritta renderebbe, entro la fine del prossimo secolo, il mondo pacifico ma, purtroppo, la democrazia è un bene che riguarda quasi esclusivamente il Nord del mondo e la pretesa dell’Occidente di universalizzare i propri valori politici ed economici si scontra con realtà profondamente diverse; per questo motivo, in futuro, si svilupperà una forte dicotomia tra la civiltà occidentale e quella orientale.

Per concludere, quindi, la situazione internazionale futura può essere ricondotta, nella migliore delle ipotesi, ad un multipolarismo ?concertato?, basato su una logica realista di equilibrio di potenza su scala planetaria o, nella peggiore delle ipotesi, ad un multipolarismo non consensuale, fondato esclusivamente sui rapporti di forza.

 

Riflessione a cura del dr. Guido ASTORI

(segretario Associazione Cultura & Sviluppo – Alessandria, cultore di problematiche politologiche internazionali)

 

L’intervento si è aperto con una citazione di Toqueville (risalente al 1848) nella quale viene ribadito ?l’assillo di un unico pensiero: l’avvento prossimo, irresistibile, universale della democrazia nel mondo?. A questo proposito ci si è chiesti se esistano gli elementi sufficienti per affermare che il suddetto avvento sia ormai imminente ed è stata segnalata la presenza di un problema aperto, consistente nel determinare se il passaggio alla democrazia avvenga dall’interno degli Stati democratici verso l’esterno o, piuttosto, per cause esterne, proprie del sistema politico internazionale. In merito, parrebbe opportuno sostenere l’esistenza di un nesso tra le dinamiche interne ai processi democratici e quelle esterne, confermato da una teoria secondo la quale, più gli Stati sono vicini al centro di potere del sistema internazionale, più sono indotti a diventare democratici; tuttavia occorre evitare di tradurre in ambito internazionale il modello attuato a livello interno, poiché gli Stati sono insiemi di individui e non possono essere considerati come singoli soggetti.

Va detto che una buona approssimazione di un regime democratico internazionale è rappresentata dalla cooperazione tra gli Stati nazionali e che sono stati individuati tre modelli in grado di prefigurare una democrazia pienamente compiuta.

Il primo è quello della federazione universale, secondo il quale la democrazia può esistere solo nell’ambito di uno Stato, perché è l’unico soggetto che, tramite il monopolio dell’uso della forza, può assicurare il rispetto delle regole democratiche. Questo modello si pone come obiettivo l’estensione a livello mondiale del sistema di democrazia federale in atto negli Stati Uniti e presenta le seguenti peculiarità: 1) equilibrio nella distribuzione di potere e di competenze; 2) tutti sono soggetti ad almeno due centri di potere, senza che venga meno il principio di unicità del decisore; 3) possibilità di coniugare i vantaggi della piccola e grande dimensione territoriale (favorire la partecipazione dei cittadini, nel primo caso e facilitare lo sviluppo socio-economico generale, nel secondo); 4) le attuali competenze del Governo Federale (politica estera, difesa, politica economica, fiscale e monetaria) si trasformerebbero, in una dimensione universale, in decisioni relative, ad esempio, alla politica economica e fiscale, a favore di un circuito di solidarietà; 5) bicameralismo federale (con una Camera, l’attuale Congresso, che rappresenta tutto il popolo e viene eletta mediante il sistema proporzionale ed un Senato comprendente un uguale numero di rappresentanti per ogni Stato).

I limiti di questa soluzione sono i seguenti: 1) l’esistenza di problemi nella realizzazione di un suffragio universale valido per tutti i cittadini del mondo; 2) il rischio che, essendo gli Stati propensi a difendere le proprie prerogative di sovranità assoluta, si possa verificare un atto di imperio da parte di una potenza egemone che, pur di mantenere la pace a livello internazionale, imponga l’ingresso nella federazione; 3) la difficoltà nell’avere Stati federati dotati di peculiarità veramente democratiche (alcuni Stati, ad esempio, possiedono sistemi democratici nuovi e poco robusti, mentre altri non riconoscono i valori democratici occidentali).

Per superare questi limiti potrebbero essere adottati diversi percorsi, quali: 1) seguire un metodo gradualistico, rifacendosi a Jean Monnet, che sosteneva che prima di costituire l’Unione Europea fosse necessario creare una comunità del carbone e dell’acciaio; 2) formare unificazioni regionali il più possibile coese culturalmente; 3) adoperarsi per un’evoluzione in senso democratico dell’ONU ed in particolare del Consiglio di Sicurezza.

La seconda soluzione possibile è quella configurata dal modello cosmopolitico di democrazia, per il quale viene fatto riferimento a Kant, Held, Lapisca: proprio Held sostiene che si tratti di ?un programma per una doppia democratizzazione che coinvolge direttamente le società civili?. Questo modello, infatti, mira a ripensare al ruolo e al significato dello Stato democratico nel contesto del nuovo ordine mondiale e della globalizzazione.

Esso si pone i seguenti obiettivi di breve e medio periodo: 1) istituire Assemblee parlamentari macro-regionali nelle macro-regioni in cui non esistano forme di parlamentarismo consuntivo e potenziarle dove già esistano (è il caso del Parlamento Europeo); 2) indire referenda a livello transnazionale su problemi che possano riguardare Stati confinanti (quali, ad esempio, le tematiche ecologiche); 3) attuare un controllo democratico di tutte le organizzazioni governative internazionali, creando Comitati internazionali elettivi che si occupino della supervisione delle procedure adottate dalle suddette organizzazioni e della rappresentanza dei Collegi transnazionali; 4) introdurre diritti aggiuntivi (rispetto alla Dichiarazione Universale); 5) potenziare le Corti internazionali di Giustizia; 6) creare un’Assemblea Cosmopolitica (che rappresenti i popoli della Terra e che sia dotata di un potere anche solo consuntivo) da affiancare all’Assemblea Generale dell’ONU.

Il terzo modello proposto è quello della governabilità senza governo o del pacifismo debole, che rientra nella corrente del realismo politico. Questa soluzione si presenta in modo totalmente antitetico rispetto alle precedenti che, invece, hanno una comune derivazione nel cosmopolitismo giuridico che, non solo ritiene inevitabile una progressiva crisi della sovranità statuale ed il conseguente avvento del primato del diritto internazionale, ma anche enfatizza la cooperazione internazionale, da contrapporre alla guerra.

Le principali caratteristiche di questo modello sono le seguenti: 1) crede nell’inevitabilità della guerra e dell’aggressività umana; 2) è contro l’ipotesi di un unico governo mondiale, perché rischierebbe di rappresentare una sorta di pacifismo forte; 3) favorisce ogni pratica di ?irregimentazione? dei problemi internazionali ed auspica che i fenomeni vengano autoregolati spontaneamente dagli attori in gioco, evitando che quanto detto venga imposto da una potenza egemone; 4) è antitetico al cosmopolitismo giuridico che è fondato su una presunzione morale, poiché afferma la necessità di imporre la razionalità del diritto, ma ciò che viene fatto per attuarla provoca situazioni di maggior conflitto.

Gli obiettivi operativi del cosiddetto pacifismo debole sono i seguenti: 1) potenziare i contatti simbolici fra culture differenti; 2) contenere le prerogative di egemonia culturale occidentale; 3) riconoscere la legittimità dei sistemi etici e giuridici diversi dai nostri; 4) risolvere le crisi internazionali mediante reti di strutture di arbitrato permanente (che, pur essendo una forma debole, è comunque più rispettosa delle diversità culturali esistenti tra le differenti civiltà).

L’obiettivo finale, quindi, sarebbe l’istituzione di una democrazia realistica, in grado di creare una costellazione di regimi giuridici internazionali.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PRINCIPALI  APPROFONDIMENTI  DEL  DIBATTITO

 

 

 

*  E’ stato chiesto, sia in quale misura la democrazia possa essere collegata ad una prospettiva di pace, considerato che essa nasce in un periodo di guerra, sia un chiarimento circa l’esistenza di un rapporto tra democrazia e sviluppo economico, che si evincerebbe dal fatto che le guerre vengano vinte dai paesi più democratici e sviluppati. Va detto, inoltre, che la tesi realista è sostenuta dai fatti, ma che questa via deve essere cambiata, per evitare di sfociare in una conflittualità sempre più grave (prof. Bonabello).

*  E’ stato sottolineato come non si voglia negare la forza consolidata delle istituzioni che si formano all’interno delle nazioni e come ogni generazione debba conquistare il proprio ?spazio? di democrazia, per evitare che si creino fenomeni degenerativi. E’ stato chiesto, inoltre, quale peso abbiano, nell’ambito delle democrazie, i poteri para-occulti; se la democrazia si sia veramente consolidata e possa essere esportata; se le soluzioni proposte possano essere accettate anche dalle culture diverse, che non possiedono un’esperienza di rispetto dell’individuo (dr. Lenti).

*  Considerando accettata la definizione procedurale di democrazia, secondo la quale il fine sarebbe la pacifica convivenza a livello internazionale, è stato evidenziato come parrebbe utile porre la questione in termini di risorse non solo economiche, ma anche sociali e rivalutare la qualità della democrazia (sig. Barberis).

E’ stato evidenziato come gli scenari proposti siano eurocentrici, ma come, in realtà, le civiltà siano destinate a scomparire e, di conseguenza, tale sorte possa toccare anche agli Europei (dr.ssa Martinetti).

 

Þ      Credere all’esistenza di un nesso tra pace e democrazia è un ?atto di fede? poiché, ciò che si è detto circa il carattere pacifico delle democrazie vale esclusivamente per le democrazie già consolidate, mentre quelle di cui si parla, spesso sono appena avviate e, in quanto tali, subiscono, nelle prime fasi di democratizzazione, un aumento della conflittualità, dovuto alla necessità da parte delle élites di governo di legittimarsi a livello interno ed esterno. In questi casi si fa ricorso, generalmente, ad elementi nazionalistici e a riferimenti all’appartenenza etnica, che fanno sì che le minoranze presenti in un Paese non si riconoscano più nel proprio governo e che vengano messi in discussione i confini territoriali tra gli Stati. Va detto che non si conosce la direzionalità del nesso esistente tra democrazia e sviluppo economico; infatti, mentre Lipsett sosteneva che più una nazione è ricca, più è probabile che sostenga la democrazia, altri studiosi affermavano il contrario. Per quanto riguarda i limiti interni delle democrazie, occorre ricordare che, mentre nell’ottica realista si è sempre ritenuto che la politica interna fosse il regno dell’ordine e quella internazionale dell’anarchia, oggi si sostiene che il problema sia rappresentato dal carattere disordinato dei regimi politici interni agli Stati: infatti, non esiste una necessaria compatibilità tra la politica interna e quella estera attuate da uno Stato, anche se, per i realisti, questo dato è irrilevante poiché, in un contesto strutturalmente anarchico, il comportamento degli Stati sarebbe necessitato. E’ stato espresso accordo sul fatto che la democrazia debba basarsi, non solo sul radicamento di determinate istituzioni, ma anche sulla cultura: a questo proposito Huntington sosteneva che, per garantire la pace in termini di multipolarismo consensuale, è necessario che l’Occidente abbandoni la propria vocazione interventista e rispetti le sfere di influenza delle altre civiltà. Il declino di ogni civiltà, infine, è frutto di una sfida ad essa lanciata da un’altra civiltà che le si sostituisce; ma occorre ricordare che l’Occidente non comprende solo l’Europa (prof. Coralluzzo).

Þ    Il nesso tra democrazia e sviluppo economico è, in realtà, una casualità ed è stata espressa la convinzione che, in futuro, diminuirà l’enfasi sui principi democratici, mentre prevarranno il mercato e gli attori economici (dr. Astori).

Þ      Sono stati espressi dubbi circa il fatto che il meccanismo di dissuasione nucleare, adottato in passato, possa essere riprodotto a livello regionale, poiché le due superpotenze erano attori razionali e politicamente stabili, mentre molti paesi di cui si parla attualmente non lo sono; per questo motivo parrebbe utile creare un realismo democratico, che renda compatibile il paradigma realista con una concezione del proprio interesse nazionale meno miope (prof. Coralluzzo).

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