Il tema della serata, ossia il riformismo amministrativo degli anni Novanta, è stato introdotto sottolineando come i progetti di riforma della Pubblica Amministrazione vengano definiti progetti ?senza partito?: del resto, il fatto che se ne discuta in un luogo che non costituisce una sede partitica, dimostra che questo argomento ha ormai superato i limiti della competenza esclusiva del mondo politico, per entrare in contatto con un pubblico colto ed interessato, anche se non rigidamente inquadrato politicamente.

Infatti, per vincere la scommessa del cambiamento è necessario attivare, nell’ambito di questo tipo di progetti, tutte le forze presenti nella società civile e, di conseguenza, non solo i partiti, ma anche coloro che sono portatori di interessi parziali, ma comunque importanti.

La Pubblica Amministrazione è stata spesso considerata come un insieme di apparati immobili ed incapaci di adattarsi ai mutamenti sociali in atto ma, in realtà, si tratta di un’immagine falsa, poiché a periodi di stasi si alternano momenti di cambiamento. In passato sono stati formulati grandi piani di riorganizzazione dell’amministrazione pubblica (alcuni dei quali proposti mentre la Costituzione era ancora in fase di stesura) che, tuttavia, non produssero risultati di rilievo: in questo modo si è giunti alla fine degli anni Settanta, quando la Commissione Giannini presentò un ulteriore progetto di riforma rimasto anch’esso, peraltro, senza esito.

Per tracciare un quadro più preciso dell’immobilità, apparentemente inesorabile, dell’amministrazione, sarebbe sufficiente ricordare che, per il governo degli Enti locali, vigeva ancora il Testo unico del 1934. Solo a partire dagli anni Novanta si verifica un’accelerazione delle spinte al mutamento, che comporta l’introduzione delle prime riforme e, in particolare, nel 1990, la riforma dei governi locali e, nel 1993, la privatizzazione del pubblico impiego, tramite le quali si è giunti agli interventi di Cassese prima e di Bassanini poi.

Va detto, inoltre, che l’idea di rimettere in discussione l’amministrazione parrebbe strettamente collegata alla crisi della politica, intesa come sistema di valori che attirano l’attenzione degli elettori e dell’opinione pubblica: questa crisi, pur non essendo di per sé benefica (dal momento che si ritiene che i partiti debbano ricoprire un ruolo forte), ha permesso di far emergere aspetti che, fino a quel momento, la politica aveva nascosto.

Merita di essere ricordato che un’ulteriore spinta al mutamento viene fornita dalla dimensione internazionale, ossia dai contagi e dalle convergenze provenienti da esperienze che maturano all’estero: in questo senso, un contributo importante è stato offerto, ad esempio, dalle cosiddette ?tendenze reaganiane?.

Nel trattare questo tema è possibile affermare, ormai con sufficiente sicurezza, che lo Stato, non riuscendo più a sostenere i compiti di cui è gravato, tende a ricorrere al decentramento. A questo proposito, in un convegno, tenutosi a Milano ed organizzato dal Consiglio Regionale sugli scenari dello sviluppo, Bruno Dente ha dichiarato che il federalismo ed il decentramento, pur non essendo equivalenti, sono comunque inevitabili.

Grazie a questo clima particolarmente favorevole venutosi a creare, è nata l’idea del new public management, ossia di un nuovo modo di gestire l’amministrazione dello Stato, servendosi anche di elementi filosofici tra i quali spicca l’infrastruttura etica che fa sì che, oltre all’attenzione nei confronti dei risultati (e rispetto all’attenzione per le procedure presente in passato), si renda necessario costituire un forte senso di responsabilità morale del funzionario. In questo modo viene attribuita importanza, non solo al raggiungimento dei risultati, ma anche al fatto che questi vengano conseguiti tramite ?vie? corrette (proprio questi principi sono alla base della responsabilità etica).

E’ doveroso sottolineare che, una riorganizzazione così radicale dell’amministrazione pubblica, richiede una strategia precisa: questo tipo di riforma, infatti, è spesso fallita in passato, non solo per questo motivo, ma anche perché necessita di un cambiamento culturale da parte di chi rappresenta l’amministrazione stessa (e questo può avvenire solo coinvolgendo e motivando i funzionari). Il progetto presentato da Sabino Cassese, ad esempio, non ha riscosso il successo che la bontà delle idee avrebbe meritato, perché era diretto a realizzare una riforma, sottolineando l’inefficienza della macchina burocratica ed alimentando il malcontento nella società civile: questa strategia non poteva funzionare poiché l’opinione pubblica possiede una forza più ?volatile? di quella posseduta dalle strutture burocratiche, dal momento che i funzionari restano, mentre il sentimento di ira dei cittadini è destinato a spegnersi rapidamente.

Il lavoro di riforma, al contrario, dovrebbe essere lento e paziente e coinvolgere anche gruppi di interesse, nel tentativo di creare luoghi in cui discutere di questo problema; tuttavia, così facendo, assume fondamentale importanza la questione della formazione, poiché solo mediante una politica accanita di formazione, diventa possibile vincere la scommessa del cambiamento.

 

Per quanto riguarda più propriamente le leggi Bassanini, può essere individuata una sorta di ?peccato di presunzione? nell’aver voluto trattare molti argomenti, quasi ispirandosi al cosiddetto mito della ?riforma totale? che, come è ormai noto, sembrerebbe più utile abbandonare; tuttavia, nell’ambito della riforma, sono facilmente individuabili due direttrici:

·       la semplificazione;

·       il decentramento.

A proposito della semplificazione, occorre ricordare che si è resa necessaria (anche per ridurre la corruzione e realizzare la certezza del diritto) a causa dell’eccesso di produzione legislativa che si è verificato e che contribuisce a complicare l’operato dei cittadini e degli imprenditori, senza però dimenticare che la cultura giuridica esistente ha lavorato per creare uno stato di diritto ed un sistema di norme di garanzia, cresciuto a dismisura proprio per far sì che l’amministrazione procedesse secondo il diritto. Del resto, il tentativo di normare il più possibile, al fine di assicurare la massima certezza giuridica al cittadino, costituisce un postulato dello stato di diritto che, tuttavia, fallisce nel momento in cui le leggi si accavallano tra loro.

Per quanto riguarda il decentramento, parrebbe lecito riconoscere che, un clima politico nuovo, favorisce l’accettazione di principi quali il regionalismo (introdotto nella Costituzione mediante un atto di visione politica avanzata) ed il federalismo (a proposito delle leggi Bassanini si è parlato di federalismo amministrativo, anche se il vero federalismo può essere solo costituzionale).

Il decentramento prefigurato dalle leggi Bassanini può essere ritenuto radicale, dal momento che inverte il criterio delle competenze, riservando allo Stato solo alcune funzioni amministrative, attribuendo le rimanenti agli Enti locali ed applicando, in questo modo, il principio di sussidiarietà.

Queste stesse leggi, inoltre, introducono un elemento innovatore, ossia l’adozione del principio di differenziazione, in base al quale le funzioni amministrative possono essere attribuite a soggetti amministrativi in modo difforme, secondo la loro capacità di gestirle: come risulta evidente, quanto detto appare in contrasto con la mentalità giuridica tradizionale, forgiata sull’idea di uniformità e sulla forza livellatrice della legge. Tuttavia va detto che questo nuovo principio merita di essere utilizzato con prudenza, poiché l’uniformità è nata per combattere una situazione di antico regime; di conseguenza si rende necessario adottare particolari cautele che attribuiscano maggior persuasività al tentativo di cambiamento.

Per concludere è stato sottolineato come la celebre frase del giurista tedesco Otto Mayer ?Le costituzioni passano, l’amministrazione resta?, nella situazione attuale, dia adito ad alcune perplessità: infatti, il lavoro svolto dalla Commissione Bicamerale in materia di decentramento, sembrerebbe produrre risultati timidi e poco chiari, che parrebbero evidenziare una debolezza del potere costituente nei confronti di una riforma amministrativa maggiormente riconosciuta nel Paese (anche questo elemento rappresenta un segno evidente del particolare momento di crisi della politica e della capacità di progettazione).

 

Riflessione a cura della prof.ssa Piera VIPIANA

(professore ordinario di Diritto Amministrativo alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino – sede di Alessandria – nonché docente dell’Università Bocconi – Milano)

 

La modernizzazione della Pubblica Amministrazione ha comportato, negli ultimi anni, una serie di interventi normativi rilevanti, che hanno avuto come punti fondamentali rispettivamente: il decentramento, la semplificazione amministrativa e la liberalizzazione.

Pur riconoscendo che lo sforzo attuato dal ministro Bassanini è senza dubbio notevole, sono state presentate alcune osservazioni critiche. In materia di decentramento, ad esempio, è stato sottolineato come la legge n. 59 del 1997 (la cosiddetta Bassanini 1) presenti elementi di contraddittorietà e possa essere intesa in due modi diversi: secondo l’opinione critica di Sabino Cassese questa legge di riforma sarebbe destinata a ricoprire un ruolo minimale, mentre altri opinionisti evidenziano l’importanza del principio di sussidiarietà, che in essa viene applicato. In realtà il peso delle riforme introdotte da Bassanini potrà essere individuato solo valutando l’insieme dei decreti legislativi delegati anche se, trattandosi di leggi delega, contengono criteri direttivi che non parrebbe azzardato definire evanescenti e che provocheranno impugnative di fronte alla Corte Costituzionale da parte delle Regioni.

Per quanto riguarda la semplificazione, termine ormai ricorrente nelle leggi più recenti, va detto che essa viene intesa soprattutto come alleggerimento dell’attività amministrativa, come efficienza, come non duplicazione dell’azione amministrativa e come deregolamentazione; sotto questo profilo, tuttavia, sembrerebbe sorgere il dubbio che una semplificazione eccessiva rischi di complicare ulteriormente la situazione attuale. Infatti, se si attuasse una sorta di delegificazione annuale (come previsto dalla legge n. 59 del 1997), si verrebbe a creare un notevole disagio per i cittadini, costretti a verificare annualmente in quale direzione sia avvenuta la semplificazione.

A questo proposito, quindi, si può affermare che Bassanini ha introdotto una delegificazione che può essere definita ?all’italiana?, poiché non rappresenta un vero e proprio alleggerimento del carico normativo ma, piuttosto, un’attribuzione al Governo del potere di dettare norme, che provocherà, in futuro, la produzione di un numero considerevole di regolamenti anziché di leggi (parrebbe opportuno ricordare, inoltre, che le norme regolamentari presentano minori garanzie per il cittadino, dal momento che esistono termini perentori per la loro eventuale impugnazione).

E’ necessario, di conseguenza, che la semplificazione non contrasti il principio di garanzia del cittadino: questo problema è già stato posto, ad esempio, nel caso dell’istituto della denuncia di inizio di attività, previsto dalla legge n. 241 del 1990 che, rendendo possibile, in determinati casi, l’inizio di un’attività, informandone la Pubblica Amministrazione mediante una semplice denuncia, ha lasciato i terzi, possibili concorrenti, privi di tutela.

 

Riflessione a cura della dr.ssa Maura LEDDI

(Direttore generale, Capo gabinetto Giunta Regionale Piemontese)

 

Nell’ambito di questo intervento è stato sottolineato come, in Italia, sia in corso una ?rivoluzione copernicana?, destinata ad incidere sull’organizzazione dell’intero Paese in cui, come è noto, le grandi riforme risultano difficili da iniziare.

A questo proposito, la Commissione Bicamerale D’Alema sembrerebbe possedere i presupposti necessari per essere realizzata, dal momento che, a partire dagli anni Novanta, è iniziato un concreto processo di riforma istituzionale, passato dalla legge n. 142 del 1990 (che ha ridefinito i compiti degli Enti locali), alla n. 241 del 1990 (diretta ad incrementare la trasparenza e la semplificazione nell’organizzazione della Pubblica Amministrazione), per giungere alla n. 81 del 1993 (che, stabilendo l’elezione diretta del Sindaco e del Presidente della provincia, ha garantito loro maggior visibilità) ed al decreto legislativo n. 29 del 1993, che ha sancito la riforma del pubblico impiego.

All’interno di questo quadro istituzionale, le leggi Bassanini costituiscono una grande scommessa per l’attuazione di una riforma dello Stato, anche se, rispetto ai principi di decentramento e di responsabilizzazione di Comuni, Province e Regioni nella gestione della Pubblica Amministrazione contenuti nella legge n. 59 del 1997, nei decreti legislativi si registra una battuta d’arresto, dovuta al fatto che i singoli Direttori dei Ministeri abbiano percepito il verificarsi di uno svuotamento delle competenze statali. Per questo motivo lo schema di decreto legislativo, approvato dal Consiglio dei Ministri, risente delle diverse impostazioni di chi lo ha redatto. Il suddetto schema, dopo essere stato sottoposto all’esame della Conferenza Stato-Regioni e della Conferenza Stato-città (organismo che rappresenta le autonomie locali nel confronto diretto con lo Stato), diventerà un decreto e, a partire da quel momento, le Regioni disporranno di sei mesi per produrre la legislazione applicativa. In caso di inadempienza delle Regioni, lo Stato interverrà con i poteri sostitutivi e trasferirà, mediante proprie leggi, le funzioni ed i compiti ad altri enti: così facendo, le Regioni dovranno dimostrare di saper costruire un sistema di autonomie, di essere interlocutori affidabili e di conoscere adeguatamente la realtà locale, assegnando le diverse funzioni ai soggetti più idonei a svolgerle.

Questa evoluzione in campo amministrativo, inoltre, sembrerebbe anche dovuta al fatto che la società desideri sempre più possedere un’amministrazione pubblica che non costituisca una ?tassa occulta?, ossia un costo ulteriore per i cittadini e, soprattutto, per le aziende: tuttavia il cambiamento sembra essere spesso ostacolato da una classe politica che fatica ad aggiornarsi.

Merita di essere segnalato, infine, un altro ostacolo alla realizzazione di un preciso sistema di riforme, ossia la presenza di una spiccata instabilità di governo degli Enti locali e, più segnatamente, della Regione, causata, non solo dall’instabilità politica generale del Paese, ma anche dalla legge elettorale regionale, che non prevede l’elezione diretta del Presidente della Regione. Un ulteriore dato destabilizzante, che si ripercuote sull’attività regionale, è legato alla norma che stabilisce che, in caso di interruzione del rapporto fiduciario tra Consiglio regionale e Giunta nei primi 24 mesi di governo, il Consiglio debba essere sciolto: in questo modo gli esecutivi risultano particolarmente forti solo per i primi due anni.

 

 

 

PRINCIPALI  APPROFONDIMENTI  DEL  DIBATTITO

 

 

 

E’ stato espresso sostanziale accordo con quanto dichiarato dal Prof. Rugge riguardo l’arretratezza del progetto di riforma istituzionale, rispetto alla riforma amministrativa che è stata proposta, anche se, in futuro, potrebbe verificarsi una situazione opposta, dal momento che potrebbero concretizzarsi i dubbi esposti dalla Prof.ssa Vipiana, mentre il progetto avanzato dalla Bicamerale potrebbe consentire il raggiungimento di risultati positivi. Del resto, nell’ambito del suddetto progetto stanno emergendo elementi significativi quali, ad esempio: 1) l’attribuzione al Senato di un connotato territoriale, poiché risulterebbe composto da senatori eletti, dal corpo elettorale, su base regionale; 2) la riformulazione del secondo comma dell’art. 56 della Costituzione che, nell’ultima versione, assegnerebbe ai Comuni tutte le funzioni, salvo quelle che la legge attribuisce allo Stato, ricuperando così un importante elemento di federalismo, costituito dal ruolo ordinamentale delle Regioni. E’ stato evidenziato, infine, come l’autonomia, in uno Stato tendenzialmente federale, significhi differenziazione e come risulti necessaria una tutela costituzionale dei principi contenuti nelle leggi Bassanini (avv. Simonelli).

Sono stati chiesti chiarimenti circa il concetto di infrastruttura etica collegato al problema della formazione, che rappresenta una questione delicata poiché, in Italia, manca una sufficiente formazione d’élite. E’ stato sottolineato, inoltre, il problema del mantenimento dello stato di diritto, in una condizione di stato sociale del diritto (prof. Argeri).

E’ stato chiesto se il progetto di decentramento possa favorire il raggiungimento di risultati positivi, considerando l’esistenza di problemi quali il trasferimento del personale statale (conseguente al fatto che le funzioni vengano delegate) e la carenza di risorse effettive a livello locale (rag. Bartolotti).

E’ stato espresso il timore che, sia una semplificazione eccessiva possa far sì che la Pubblica Amministrazione si ritiri completamente da determinati ambiti, sia un ricorso contemporaneo alla semplificazione ed al decentramento possa creare difficoltà nei rapporti con i pubblici poteri. E’ stata evidenziata, inoltre, la necessità di dedicare maggior attenzione ai risultati ed ai principi di responsabilizzazione di carattere etico: a questo proposito è stato ricordato, ad esempio, come il funzionamento della Pubblica Amministrazione, in circostanze di emergenza, abbia consentito di ottenere risultati buoni e corretti dal punto di vista della gestione (avv. Bianchi).

Sono state sottolineate, rispettivamente, la carenza nella formazione dei funzionari di Stato e la necessità di creare, sia una mentalità nuova, che faciliti il cambiamento, sia un sistema di riforme che risulti strutturato in funzione dei rapporti, sempre più frequenti, con gli Stati appartenenti all’Unione Europea (sig. Torchia).

 

Þ   Occorre ribadire, sia la contraddittorietà del processo di riforma attualmente in atto che, pur rappresentando una scelta obbligata, contiene elementi alternativi, sia l’esigenza di esaminare la memoria storica, per individuare in quale direzione debba avvenire il cambiamento. Proprio quest’ultimo, del resto, ha dovuto subire, già in passato, alcune battute d’arresto, dal momento che risulta ancora difficile comprendere che l’amministrazione deve ormai ritirarsi, poiché è finito il ciclo in cui tutte le competenze venivano assegnate allo Stato: infatti, solo facendo arretrare la Pubblica Amministrazione è possibile risolvere il problema legato alla produzione di regolamenti. E’ stato espresso accordo, inoltre, circa la necessità di tutelare, tramite una riforma costituzionale, i principi contenuti nelle leggi Bassanini, anche se sono emerse perplessità riguardo il ruolo che il Senato dovrebbe ricoprire, secondo quanto previsto dal progetto della Bicamerale emendato nel novembre scorso. Per quanto riguarda, invece, il concetto di infrastruttura etica, va detto che proviene da uno studio nel quale venivano indicati 8 punti, comprendenti soluzioni, sia tradizionali che innovative, in materia di organizzazione amministrativa. Per concludere, l’art. 62 del progetto presentato dalla Bicamerale, inerente il decentramento del personale e delle risorse, solleva problemi rilevanti, poiché ci si chiede se le Regioni saranno dotate delle risorse necessarie per svolgere le funzioni ad esse attribuite: se a questo si aggiunge la tendenza ad una sorta di centralismo regionale, diventa evidente la necessità di un sistema di formazione a carattere translocale, che consenta ai funzionari migliori di gestire il decentramento (prof. Rugge).

 

E’ stato evidenziato come chi lavori nell’ambito del pubblico impiego non abbia avvertito il cambiamento seguito alla privatizzazione ed è stato chiesto, sia se la delegificazione ?all’italiana?, di cui si è parlato, comporti anche l’abrogazione dei parametri rigidi precedentemente previsti dalla legge, sia come la riforma possa essere attuata, finché persistono ?operazioni di tipo politico? che ne influenzano il risultato (dr.ssa Robotti).

E’ stato chiesto se, allo stato attuale, sia possibile realizzare una riforma della Pubblica Amministrazione senza ridisegnare le autonomie e sono state citate, a questo proposito, due situazioni diverse: un incontro, tenutosi nei mesi scorsi, tra il ministro Bassanini ed il sindaco di Venezia Cacciari, durante il quale quest’ultimo ha sostenuto che spettava ai sindaci riformare la Pubblica Amministrazione ed una riunione dei sindaci, svoltasi nei giorni scorsi, nel corso della quale Albertini ha affermato, non solo che le grandi città sono in competizione tra loro per attirare investimenti, ma anche che la riforma dell’amministrazione dovrebbe avvenire come conseguenza di un diverso modo di impostare la gestione dei Comuni. Per attuare quanto detto, Albertini ha proposto di elaborare, per i Comuni di grandi dimensioni, parametri simili a quelli previsti per Maastricht (il raggiungimento dei quali consenta di aggiudicarsi premi) e di introdurre la distinzione tra indirizzo politico e gestione, creando a Milano un Consiglio di gestione a cui partecipi anche un rappresentante dei sindacati (dr. Cervetti).

E’ stato sottolineato come l’eccessiva complicazione della legislazione amministrativa sia dovuta al fatto che il rapporto tra autorità e cittadino sia stato inteso come un rapporto di supremazia-suggestione, trasformatosi in un rapporto paritario grazie alla riforma del 1990. Si è affermato, inoltre, che l’eccessiva semplificazione non dovrebbe ridurre le garanzie per i cittadini, dal momento che l’art. 19 della legge n. 241 del 1990, inerente la denuncia dell’inizio di attività, è riferito ad attività vincolate della Pubblica Amministrazione (sig. M. Lenti).

E’ stato evidenziato come molti principi esistenti in materia di Pubblica Amministrazione (quale, ad esempio, la divisione dei compiti) non vengano recepiti dai cittadini. Inoltre, nonostante le leggi Bassanini introducano concetti di responsabilizzazione dei dirigenti, la responsabilizzazione complessiva della struttura sembrerebbe procedere con lentezza e, per raggiungere maggior efficacia, necessiterebbe di strumenti accelerativi di tipo legislativo (dr. R. Lenti).

 

Þ    Parrebbe opportuno ribadire che, sebbene il suddetto art. 19 si occupi di attività vincolate della Pubblica Amministrazione e, di conseguenza, dal punto di vista formalistico non sia configurabile un terzo controinteressato, l’approccio sostanzialistico, al contrario, evidenzia la possibile esistenza di soggetti terzi, rendendo questo problema irrisolto allo stato attuale. Per quanto riguarda, invece, l’interferenza tra la delegificazione e la gerarchia delle fonti, occorre ricordare che l’art. 17 della legge n. 400 del 1988 afferma che l’effetto abrogativo, che si verifica ogni volta che interviene un regolamento di delegificazione, deriva direttamente dalla legge che autorizza, di volta in volta, l’abrogazione: in questo modo la legge autorizza il regolamento a porre norme in una materia prima soggetta a disciplina legislativa e, contemporaneamente, dispone l’abrogazione delle disposizioni precedenti e contrastanti (prof.ssa Vipiana).

Þ    Una possibile causa del centralismo regionale può essere individuata nel fatto che il sistema delle autonomie, pur essendo una struttura unica comprendente Comuni, Province e Regioni, abbia subito, negli anni Novanta, l’avvio di un processo di riforma che ha interessato solo una parte di esso (ossia i Comuni e le Province): al contrario le funzioni delle Regioni non sono state definite in modo preciso e le loro risorse, derivando quasi esclusivamente da trasferimenti statali, sono in gran parte a destinazione vincolata e limitano l’autonomia decisionale delle Regioni stesse. Per quanto riguarda il trasferimento del personale, non rappresenta un vero problema poiché interesserebbe solo una percentuale ridotta di esso: una rapida attribuzione di funzioni, invece, rappresenterebbe un aggravio notevole per le strutture regionali, non sufficientemente attrezzate (dr.ssa Leddi).

Þ            L’eccesso di legislazione è dovuto ad una concezione impari tra Stato e cittadino, ormai superata dalla diffusione di un diritto paritario. Il processo di riforma amministrativa, sviluppatosi negli anni Novanta, pur presentando rischi e paradossi, contiene tre sfide, ossia: 1) la formazione del personale; 2) la competizione tra soggetti amministrativi (ad esempio tra le città, per avere maggiori investimenti e per poter fornire ai cittadini servizi migliori), conseguenza della debolezza del sistema delle fonti; 3) l’esigenza che la Costituzione tuteli i progressi compiuti in campo amministrativo. Merita di essere ricordata, infine, l’esistenza di una sfida europea, che comporterà la creazione di uno spazio amministrativo europeo, ricco di differenze e di competizione tra i diversi Stati (prof. Rugge).

 

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