La riflessione prende lo spunto da alcune considerazioni legate al commento di dati statistici e previsionali che mettono in luce il rapporto percentuale tra popolazione italiana e componente di stranieri sul territorio nazio-nale all’interno di una proiezione ventennale dal 1997 al 2017. Il dato più significativo è che mentre nel 1997, su un totale di 56.475.000 italiani, il peso degli stranieri era del 2,4%, nel 2017, a fronte di un calo previsto di circa tre milioni di italiani, la percentuale di stranieri ? a parità di andamento attuale dei flussi di ingresso nel nostro Paese ? crescerebbe solamente fino al 6,2 evidenziando la scarsa consistenza dell’«allarme im-migrati» in Italia, soprattutto se confrontato con la situazione e le previsioni relative agli altri principali Paesi dell’Unione Europea. A questo riguardo, se qualcuno pensasse che uno degli obiettivi primari di un Paese fosse il mantenimento del numero totale di popolazione nel tempo, la constatazione desumibile dai dati statistici osservati sarebbe che, anche favorendo maggiormente l’immigrazione in Italia, la «prolificità» degli stranieri immigrati sul nostro territorio non sarebbe tale da fare recuperare il calo demografico e la ca-renza di nascite che l’Italia registra e dovrebbe continuare a registrare nei prossimi vent’anni.

Analizzando poi più specificamente il peso percentuale della popolazione straniera nei Paesi europei si evince facilmente come la Svizzera (tra l’altro non Paese membro dell’u.e.) nel 2000 abbia un livello del 19% rispetto alla propria popolazione totale e l’Italia, con il suo 2,4% (pari a 1.236.555 soggiornanti extraco-munitari) sia «superata» da quasi tutti i Paesi dell’Unione: si vedano le situazioni dell’Austria, Germania e Belgio (9%), della Francia e della Svezia (6%), della Danimarca (5%), dei Paesi Bassi e del Regno Unito (4%), dell’Irlanda (3%). Inoltre, all’interno del territorio italiano, le uniche regioni in qualche modo avvicinabili per «consistenza» percentuale del problema a Stati quali i Paesi Bassi, il Regno Unito o l’Irlanda risultano essere solo il Lazio (con un 4,2% rispetto alla popolazione totale della Regione), il Friuli-Venezia Giulia (con il 3,2%), il Tentino- Alto Adige (con il 3,1%) e la Lombardia (con il 2,9%), mentre ad esempio il Piemonte ha un valore significativamente al di sotto della media nazionale registrando solo l’1,8%.

A fronte di questi dati numerici e di queste previsioni statistiche può essere interessante analizzare, sulla scorta dei risultati di un recente sondaggio realizzato dall’ispo, quale sia l’atteggiamento degli italiani nei confronti della questione «lavoro/utilizzo di manodopera di extracomunitari». Questo sinteticamente il quadro (assai contraddittorio) che risulta in termini percentuali:

 




























































Affermazioni

  Totale

  Cattolici praticanti

 

accordo

disaccordo

accordo

disaccordo

 

 

 

 

 

Gli immigrati tolgono il lavoro agli italiani

30.9

69.1

22.2

77.8

Gli immigrati sono un ostacolo allo sviluppo e al funzionamento della società italiana

20.5

79.5

14.3

85.7

Gli immigrati fanno quei lavori che gli italiani non vogliono fare

70.9

29.1

74.3

25.7

Gli immigrati sono necessari per soddisfare le richieste di manodopera fatte dalle aziende italiane

52.0

48.0

56.2

43.8

Bisognerebbe aumentare la quota di immigrati che ogni anno entrano regolarmente in Italia perché alcune aziende hanno difficoltà a trovare manodopera disponibile

19.1

80.9

26.7

73.3

Anche se manca manodopera, non si deve elevare la quota di immigrati regolari perché in Italia ce ne sono già troppi

68.4

31.6

62.8

37.2

 

 

 

 

 

 

Riassuntivamente, sembra emergere una valutazione in base alla quale, per gli italiani, gli immigrati extraco-munitari ? anche ammesso che possano essere «utili» per le aziende ? risultano comunque «troppi» e i fattori di «chiusura» nei loro confronti possono essere spiegati facendo riferimento ad alcuni motivi considerati (indipendentemente a torto o a ragione) «forti» tra i quali si segnalano i seguenti.

 

?        Vi sarebbe la paura che l’immigrazione degli extracomunitari si accompagni a forti componenti di criminalità e non si può effettivamente negare che siano molti (in percentuale sul totale) gli immigrati in carcere, soprattutto maschi giovani appartenenti ad alcune nazionalità ? sebbene non si possa da questa constatazione concludere automaticamente che immigrato sia uguale a «criminale».

?        Un altro fattore di «resistenza» verso gli immigrati parrebbe legato alla «supposizione» di una certa pro-pensione, da parte degli immigrati extracomunitari, alla «maleducazione» intesa come atteggia-mento di «incivilitas». L’elemento pregiudiziale di questa argomentazione è peraltro abbastanza evidente non solo perché gli italiani si dimostrano parimenti interessati ad utilizzare per i lavori domestici immi-grati filippini o dello Sri Lanka (considerati ordinati, servizievoli e affidabili) ma anche perché il mede-simo giudizio di «incivilitas» veniva espresso dalle popolazioni settentrionali nei riguardi degli immigrati provenienti dal Mezzogiorno italiano negli anni Sessanta.

?        In molti italiani sta inoltre emergendo una sorta di disagio, facilmente trasformabile in resistenza con-tro gli immigrati, a causa della rapida e inesorabile modificazione del cosiddetto «panorama urba-no»: la presenza di un numero sempre maggiore di persone vestite «diversamente», il vedere apparire ne-gozi che vendono alimenti arabi, il proliferare di ristoranti cinesi ecc. sono tutti elementi che, unitamente alla constatazione delle profonde differenze culturali e religiose, fanno aumentare in molti connazionali atteggiamenti di difesa della propria identità, percepibile proprio perché «contro» e «diversa» dalle insi-diose altrui identità etniche.

?        Infine, merita sottolineare quanto paia spaventare l’italiano medio la componente di «clandestinità» legata al fenomeno delle immigrazioni di extracomunitari. Questo problema appare tra i più delicati e complessi anche se è bene distinguere tra l’essere «clandestini» e «irregolari»; in altri termini, il ri-schio maggiore è che si crei la convinzione che vi sia una triplice equazione in base alla quale i concetti di «irregolare», di «clandestino» e di «criminale» corrispondano direttamente, anche se è evidente che gli immigrati che si macchiano di crimini (di minore o maggiore rilevanza penale) tendano ad essere degli «irregolari». In ogni caso, negli ultimi anni in Italia c’è stata un aumento considerevole delle cosid-dette regolarizzazioni, passando da un totale di 118.700 nel 1987 a un totale di 214.421 di domande ac-colte al 31 dicembre 2000. Una dato significativo, sebbene si debba al contempo ricordare come nel no-stro Paese permanga il problema, da un lato, della limitazione quantitativa (rispetto al fabbisogno nell’occupazione) ? criticata ultimamente anche da Confindustria ? e, dall’altro lato, del ritardo con cui vengono di anno in anno fissate le quote dei flussi di immigrazione ammessa: una situazione che finisce per  determinare, rispetto ad altri Paesi dell’Unione Europea, una oggettiva maggiore difficoltà per gli immigrati a regolarizzarsi celermente.

 

In merito al problema della presenza ancora numerosa di «irregolari» in Italia vi è da sottolineare comunque che una delle ragioni che ne spiegano la consistenza numerica è da riportarsi al fatto che da noi risulta parti-colarmente espansa la cosiddetta «economia informale», ossia un ampio mercato nero del lavoro. Appena superata dalla Spagna (con il 29% di economia informale rispetto al totale), l’Italia guida la graduatoria dei principali Paesi europei con il 27.3%, mentre ad esempio Germania e Francia si attestano solo sul 14-15%, il Regno Unito sul 13% e l’Austria sul 9%. Si noti che, per non più di un anno, l’immigrato può essere in regola con il permesso di soggiorno pur lavorando «in nero», ma allo scadere dell’anno, se non vi è un contratto di lavoro «regolare», decade anche il permesso di soggiorno riportandosi la condizione dell’immigrato a quella di «irregolare». Ora, la questione veramente imbarazzante ? e che presenta oggettivamente aspetti scandalosi ? è legata al fatto che a molti (piccoli) imprenditori italiani conviene enormemente continuare ad utilizzare lavoratori (soprattutto extracomunitari) in nero perché in questo modo possono usufruire della migliore condizione derivante dallo svolgimento di un’attività imprenditoriale in un ambiente di concorrenza sleale (si pensi, uno fra tutti gli esempi, all’utilizzo dei lavoratori cinesi in nero nell’area di Prato).

L’analisi delle peculiarità della situazione italiana in merito alla questione dell’immigrazione extracomu-nitaria non può poi sorvolare sulle diverse concezioni che le forze politiche hanno elaborato riguardo alle modalità necessarie per affrontare la sfida dell’integrazione. A questo riguardo, oltre ad una valutazione complessiva di una certa diffusa contraddittorietà tra l’enfasi dei proclami e la validità delle ricette risolutive avanzate, si deve sottolineare come molti sembrino intendere il concetto di «integrazione» come sinonimo di «piena uguaglianza», ossia come condizione nella quale a tutti siano immediatamente riconosciuti i di-ritti di piena cittadinanza.

A tale proposito, non si ritiene particolarmente opportuno sostenere una siffatta concezione poiché il mec-canismo dell’«automatismo» nel riconoscimento di tutti i diritti di cittadinanza comporterebbe l’ogget-tiva difficoltà, da parte degli immigrati appena giunti sul nostro territorio nazionale, di «adeguarsi» alla no-stra cultura giuridica e «civica» accogliendola sì consapevolmente, ma forse troppo celermente: un obiet-tivo che si deve conquistare progressivamente e a fronte di un verificato impegno dell’immigrato non solo ad accettare le «regole del gioco» del nostro Paese, ma anche (e soprattutto) a imparare bene la nostra lingua e i nostri riferimenti culturali, pur nell’attenzione alla salvaguardia della propria identità etnico-culturale d’origi-ne. Certo, se sono evidenti i rischi e le difficoltà di impostare un’accoglienza sulla logica del diritto immediato alla «piena uguaglianza» (più dei diritti che dei doveri), non si può certo accettare facilmente un’impo-stazione (assimilabile al modello di accoglimento/integrazione vigente in Germania) per la quale l’unica for-ma di integrazione degli immigrati deve essere spiegata in termini esclusivamente «economici», conside-rando in altri termini «integrabile» solo l’immigrato che risulti economicamente «utile». Le obiezioni a questa concezione possono essere riassunte fondamentalmente in due constatazioni: a) come si dovrebbero conside-rare gli immigrati insediati in un dato territorio nazionale se in futuro non risultassero più «economicamente utilizzabili»?; b) la maggior parte degli immigrati giunge nei nostri Paesi non tanto per ragioni economico-professionali quanto piuttosto per scappare alla fame e a regimi dittatoriali e quindi i motivi veri che spiegano l’aumento dei flussi migratori sono legati a questioni umanitarie e a richieste implicite (spesso mai formaliz-zate) di asilo politico. Se il modello italiano di integrazione, a differenza di quello vigente in Francia, in Ger-mania o nel Regno Unito, può essere sinteticamente definito di «integrazione ragionevole» (grazie soprattutto alla legge Turco-Napolitano e pur con tutte le ipotesi migliorative che possono ulteriormente essere introdotte nella legislazione italiana), vale in conclusione la pena richiamare i risultati di un sondaggio ispo del 2000 con cui si rileva il gradimento di alcuni criteri proposti agli italiani per stabilire a quali categorie di immi-grati dare la precedenza nella concessione di un regolare permesso di soggiorno. Queste le risposte:

 































Criteri

Molto/abbastanza

Poco/per nulla

 

Opportuno

Opportuno

20.6

25.5

32.5

44.0

46.5

46.8

50.5

64.9

77.4

Avere già un’offerta di lavoro

79.4

La specializzazione professionale

74.5

Il livello di istruzione

67.5

Parenti già immigrati in Italia con regolare permesso di soggiorno

56.0

Venire da Paesi impegnati a reprimere l’emigrazione illegale

53.5

Conoscere almeno un poco l’italiano

La giovane età

L’avere antenati di origine italiana

L’essere di religione cattolica

53.2

49.5

35.1

22.6

 

 

 




 

PRINCIPALI APPROFONDIMENTI DEL DIBATTITO

 

 

Il dibattito si è articolato su diversi punti tra i quali possono essere richiamati in particolare i seguenti.

 

a)      Una delle soluzioni per diminuire il ricorso al lavoro nero potrebbe essere rappresentata dall’introduzione delle cosiddette «gabbie salariali» diversificate per zone nel territorio italiano. Tuttavia, sarebbe pericoloso (e comunque non «conveniente» per i lavoratori italiani) che si distinguesse ulteriormente tra abbassa-mento regolarizzato dei salari per gli «italiani» e per gli extracomunitari, perché questi ultimi finirebbero di essere assai preferiti agli italiani da parte degli imprenditori. In ogni caso, questa situazione non potreb-be essere economicamente tollerata a cominciare dalle seconde generazioni di immigrati insediati in Italia, che reclamerebbero maggiori diritti e maggiore uguaglianza di trattamento.

b)      Alcuni paventano il rischio che le questioni dell’integrazione rimangano insolubili a causa del riferimento ai fondamentalismi religiosi (soprattutto islamici) degli immigrati. Tuttavia, il possibile «conflitto di civil-tà», pur avendo anche radici economiche, deriva principalmente dagli atteggiamenti di intolleranza verso i diversi da parte dei Paesi occidentali ospitanti.

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