Perché possiamo parlare di globalizzazione dimezzata? Quali sono i fattori che stanno ridisegnando il panorama dell’economia globale?

Innanzitutto l’esplosione cinese, ossia il fatto più straordinario per intensità e rapidità che si sia mai verificato nella storia economica.

Poi, la fragilità della nuova fase espansiva conosciuta dagli Stati Uniti che, per quanto possa sembrare intensa se valutata con parametri europei, presenta molti pericolosi elementi di contraddittorietà.

Quindi, la stabilità dell’economia europea che sta conoscendo una apprezzabile ripresa, certo di bassa intensità, ma priva dalle pericolose contraddizioni strutturali statunitensi e, per questa ragione, destinata ad essere duratura nel tempo.

Infine i fattori di grave incertezza che gravano sulla congiuntura internazionale: il terrorismo islamista, la fluttuazione del prezzo del petrolio, l’inflazione, l’incognita climatica.

 

Se si confronta il 1985, ultimo anno prima dell’inizio della completa liberalizzazione dei mercati dei capitali, e in un certo senso prima dell’avvio della globalizzazione, con il 2003, ci si può immediatamente rendere conto di quanto sia strutturalmente mutata l’economia globale in questi ultimi venti anni. Fra il 1985 e il 2003 il contributo del sud-est asiatico al prodotto lordo mondiale è passato dal 12.8% al 24%. Se guardiamo al 2004, possiamo vedere come quasi il 45% della crescita dell’economia globale, che presumibilmente quest’anno si attesterà attorno al 4%, provenga proprio dai paesi dell’Estremo Oriente.

Per la prima volta dalla rivoluzione industriale, l’Occidente non è più l’unica area trainante dell’economia del pianeta: il suo contributo al prodotto lordo mondiale è passato dal 60% del 1985 al 55,5% del 2003. Colpisce in particolare l’exploit della Cina, passata dal 4,8% al 12,1% della produzione mondiale. Già oggi la Cina non è molto lontana dall’incidere sul mercato mondiale in proporzioni simili da quelle dell’economia americana. Si pensi all’influenza che essa ha sul vicino Giappone di cui in pochi anni la Cina è diventata il primo partner commerciale, surclassando gli Stati Uniti, con l’effetto positivo di rivitalizzare l’economia nipponica. Ne è derivato il disarticolarsi di quello che fino a pochi anni fa era considerato il nocciolo duro dell’economia mondiale e il vero motore della globalizzazione, ossia l’alto livello di integrazione raggiunto dall’economia giapponese e da quella statunitense.

L’esplosione cinese ha infatti modificato profondamente lo scenario mondiale. La rappresentazione di un’economia globale avente il proprio centro motore negli Usa e nel Giappone, quindi, a centri concentrici, nell’Europa e nel resto dei paesi ?occidentali?, non risponde più alla realtà. L’unità attorno agli Usa si è frantumata. E’ possibile ravvisare nell’economia globale la nascita di tre blocchi, non contrapposti ma distinti. Da una parte l’Estremo Oriente attorno a una Cina in forte crescita, con ai suoi margini un subcontinente indiano anch’esso estremamente dinamico ma autonomo; gli Usa con i i paesi del Nafta e in genere quelli dell’America Latina; infine l’Europa sempre più integrata con la Russia.

 

L’economia statunitense è nuovamente in crescita. Che si tratti però di un’espansione fragile e contraddittoria lo dimostra il fatto che la produzione industriale solo nella primavera del 2004 ha recuperato i livelli massimi del 2000, mentre i consumi sono sostanzialmente stazionari dall’inizio dell’anno. La crescita dell’economia statunitense è infatti dovuta per oltre il 60% a consumi pubblici, spese militari, produzione edilizia e aumento scorte. Tre sono i fattori di intrinseca debolezza dell’economia americana: la crescita del deficit pubblico passato negli ultimi quattro anni dal +1,4% sul PIL al ?5%; il debito estero (per ripianare lo squilibrio della loro bilancia commerciale gli Stati Uniti hanno bisogno di un afflusso di capitale estero pari a circa due miliardi di euro al giorno); l’alto livello di indebitamento di imprese e famiglie. Ad essi devono essere aggiunte le incertezze legate al quadro politico internazionale, in particolare la questione petrolifera. Un aumento eccessivo del petrolio potrebbe infatti compromettere la ripresa americana.

Tutto questo non deve però far pensare a un crollo imminente: gli Stati Uniti rimangono un paese con enormi risorse, materiali ed umane. Basti pensare alla spinta che all’economia viene dalla crescita demografica che, in virtù soprattutto dell’immigrazione dai paesi dell’America latina, rappresenta un fattore propulsivo per tutta l’economia statunitense.

 

L’Europa sta conoscendo una lieve crescita, che molto deve al contemporaneo boom cinese. Se la maggiore stabilità del quadro socio politico europeo tradisce un minor dinamismo e una minore disponibilità di risorse materiali rispetto agli Stati Uniti (si pensi solo al problema dell’invecchiamento della popolazione), sembrerebbe però al tempo stesso costituire la premessa a un nuovo ciclo economico positivo, che probabilmente sarà caratterizzato da una espansione lenta ma durevole nel tempo.

Un primo fattore di stabilità è rappresentato dalla moneta unica. L’euro ha tenuto al riparo i paesi che vi aderiscono dagli sconquassi monetari di questi anni e dal rialzo dei prezzi delle materie prime. Un solo esempio: la crescita del prezzo del petrolio ha comportato un aumento di quello della benzina pari al 18% in Europa e al 50% negli USA.

Una potente opportunità di crescita sarà offerta dall’integrazione nell’Unione Europea delle economie dei paesi dell’est e dall’avvio nei prossimi anni di grandi progetti infrastrutturali, che per aggirare i vincoli di bilancio previsti dal trattato di Maastricht si è scelto di far gravare sul bilancio dell’Unione e non su quello dei singoli Stati.

Perché l’occasione di crescita che si presenta oggi sia adeguatamente sfruttata è però necessario, secondo il professor Deaglio, che l’Unione proceda a una radicale riforma della disciplina antitrust e a un accordo generale sul fisco, risolvendo in quest’ambito questioni annose come per esempio quella della tassazione dei non residenti. 

 

Sull’economia internazionale gravano però alcuni fattori di incertezza per certi versi strutturali. Innanzitutto relativamente alla disponibilità di energia. Chi nasce oggi vedrà sicuramente la fine dell’era petrolifera. Non è più possibile procrastinare l’avvio di una seria politica di diversificazione delle fonti energetiche: dal solare all’idrogeno, fino al ritorno del nucleare o del carbone. Connesso con l’aumento del costo dell’energia nei prossimi anni potrebbe riaffacciarsi il fantasma dell’inflazione il cui ritorno potrebbe compromettere la ripresa mondiale. Sulla congiuntura economica pesano poi naturalmente le incertezze del quadro geopolitico internazionale, in particolare la minaccia del terrorismo globale. Un effetto altrettanto negativo sull’economia globale nel lungo periodo potrebbe essere costituito dagli effetti del cambiamento climatico. Il ripetersi di fenomeni climatici estremi come gli uragani tropicali già oggi sta condizionando l’economia di intere regioni del globo.

 

Infine il professor Deaglio ha affrontato brevemente la situazione economica del nostro paese. Tutti gli analisti economici concordano nel ritenere che la minor crescita dell’Italia rispetto al resto d’Europa abbia cause strutturali e non semplicemente congiunturali. Alcuni osservatori parlano di declino, altri di deriva, altri ancora più ottimisticamente di metamorfosi. I giudizi sono molto influenzati dall’ottica e dalla scala temporale con cui si osserva il fenomeno. Un dato è indiscutibile: dall’inizio degli anni ’90, e in maniera più accentuata dal ’97, l’Italia cresce meno non solo della media dei paesi OCSE ad alto reddito, ma anche di quella dei paesi aderenti all’Unione europea. Quali le cause? Si è da più parte indicata nella debolezza demografica del nostro paese il fattore principale della mancata crescita economica. Una lettura corretta dei dati macroeconomici vieta però di istituire una simile correlazione. La situazione è complessa. I fattori di debolezza strutturale del paese sono più di uno. Principalmente il peso eccessivo che nell’economia italiana continuano ad avere settori tradizionali, caratterizzati da lavorazioni ormai tecnologicamente mature, e l’assenza di nuovi settori produttivi, o più precisamente di una strategia di politica industriale in grado di valorizzare e far crescere quanto di nuovo esiste nel panorama industriale italiano. A questa assenza di visione strategica si sommano poi almeno cinque fattori di debolezza: il costo eccessivo dell’energia, le carenze del sistema dei trasporti, afflitto da una cronica carenza di investimenti, un sistema formativo ormai obsoleto, le scarse risorse investite nel settore della ricerca e i tempi troppo lunghi caratteristici del sistema politico e giudiziario italiano, che si traducono in costi aggiuntivi per l’economia del paese.

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