L’Unione Europea sta affrontando in questi ultimi mesi un momento decisivo per la determinazione dei propri assetti istituzionali e della propria dimensione «continentale» ma non v’è dubbio che già a partire dalla fine della guerra fredda l’Europa intera ha visto profondamente modificato lo scenario interno e le peculiarità del-l’ordine internazionale nella quale è inserita.

In questo senso, il grandioso processo che ha portato ad esempio alla riunificazione pacifica della Germania è stato in qualche modo «bilanciato» all’interno dell’Europa comunitaria dal peso e dalle conseguenze econo-mico-politiche del Trattato di Maastricht (1992), in base al quale all’aumentato peso politico della Germania si è previsto di affiancare la moneta unica europea (considerata politicamente come lo strumento per «euro-peizzare il marco» e la sua forza economica ai fini di tranquillizzare gli altri partners europei). Peraltro, il crollo dell’impero sovietico e dei suoi Paesi satelliti ha creato le pre-condizioni perché, a un decennio di distanza, l’Unione Europea si trovasse ad affrontare la questione del proprio allargamento ad Est doven-do gestire un processo politico, economico, giuridico-istituzionale e culturale di enorme portata. Un allar-gamento le cui peculiarità, se analizzate con puntualità, portano oggi molti commentatori a considerare la difficoltà di attuazione dell’intero processo se, con uguale determinazione, si voglia proseguire in un raffina-mento della «qualità» della vita istituzionale e dell’unione politico-economica all’interno degli attuali Paesi membri.

In altre parole, non pochi rilevano che per governare efficacemente l’inserimento di molti altri Paesi nell’Unione Europea – sono previsti infatti dodici nuovi Paesi e pare proprio questo il principale, certo non l’unico, nodo relativo alle attuali riforme dell’Unione – sarebbe ben prima necessario risolvere i problemi legati al cosiddetto «deficit istituzionale» tra i quali rilevano, ad esempio, l’imperfetto riconoscimento dei poteri sostanziali della Commissione rispetto alle prerogative degli Stati nazionali rappresentati dal Consiglio, la mancanza di «protagonismo» nella definizione di una efficace politica estera comune (vedi le diverse vicende legate alla linea tenuta durante la guerra in Kosovo), la volontà di crescere ulteriormente nell’uni-ficazione dei processi decisionali non solo in ambito economico-finanziario ecc.

In mancanza di una forte determinazione in questo senso, sembra crescere enormemente il rischio di trovarsi di fronte ad una impossibilità oggettiva di gestire armonicamente l’allargamento ai nuovi Paesi i quali, essendo in prevalenza non solo «diversi» nelle proprie tradizioni giuridiche ma soprattutto meno forti econo-micamente, richiederebbero legittimamente attenzione e soprattutto investimenti significativi sottraendoli agli attuali Paesi membri. E se questo rischio potrebbe essere letto come una sorta di possibile regressione dagli attuali standards (peraltro ancora imperfetti) di coesione politico-economica dell’Unione Europea verso un modello in cui si riesca unicamente a mantenere un’area di libero scambio dei beni e dei servizi, ben si può comprendere allora l’atteggiamento tenuto dal Regno Unito che, ancora in occasione dell’ultimo vertice di Nizza del dicembre 2000, ha fatto intendere (e non è una novità!) il proprio interesse proprio verso questo tipo di soluzione che, annacquando l’Unione Europea grazie all’eccesso di allargamento, lasci la «euro-scettica» Londra il più possibile con le «mani libere» da vincoli istituzionali di tipo dichiaratamente federale.

A fronte di una opposta propensione della Germania, più incline a raggiungere celermente soluzioni di patto federale per gli attuali Paesi membri piuttosto che accelerare con troppa «leggerezza» l’allargamento verso Est, può essere utile richiamare ora come si è giunti alla «selezione» degli attuali Paesi candidati all’ingresso nell’Unione e alla luce di quali prerogative generali dovrebbe essere ammesso il loro inserimento.

Nel dicembre1997 il Consiglio Europeo di Lussemburgo dava il proprio consenso per la successiva adesione di Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Slovenia, Estonia e Cipro. Nel marzo 1998 il Vertice di Lon-dra decideva di accogliere la richiesta di altri cinque Paesi: Slovacchia, Lettonia, Lituania, Bulgaria e Romania. Oltre a questi undici Stati la lista tuttavia contiene anche il nome di Malta e quello (particolarmente pro-blematico) della Turchia il cui ingresso nell’Unione (richiesto già dal 1959) rimane fortemente osteggiato in particolare dalla Germania.

Secondo Bruxelles, che fa riferimento a quanto stabilito dal Consiglio Europeo di Copenhagen del lontano giugno 1993 nonché alle conclusioni valutative a cui è giunto il gruppo di lavoro che ha elaborato l’«Agenda 2000», l’allargamento dell’Unione a questi nuovi Paesi dovrebbe avvenire in maniera contem-poraneamente evolutiva e inclusiva, ossia essere sostanzialmente ammesso solo se in presenza del raggiun-gimento di alcuni precisi parametri di tipo economico, giuridico e politico in base ai quali i Paesi candidati sono riconosciuti effettivamente idonei – potendo peraltro beneficiare dell’eventuale (più che probabile) soste-gno delle loro economie attraverso i trasferimenti dei fondi strutturali (che troverebbero in questi nuovi Paesi membri la loro destinazione rispetto alle attuali aree disagiate della Spagna e del Mezzogiorno italiano). Più precisamente, il Consiglio Europeo di Copenhagen sottolineava, al di là della necessaria dimostrazione di «buona saluta» dei conti e dell’economia dei Paesi candidabili (secondo criteri che gli attuali Paesi membri hanno già sperimentato per l’ingresso nell’area euro), l’imprescindibilità della presenza di due altri para-metri fondamentali: la qualità del livello di democraticità e il grado di tutela dei diritti umani presente nei suddetti Paesi. Ora, per il secondo parametro esiste già un chiaro riferimento normativo rappre-sentato dalla Convenzione Europea per la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali sottoscritta nel 1950: un testo che riconosce il diritto alla vita, alla libertà e sicurezza, all’uguaglianza nei processi, al matrimonio, all’educazione, a libere elezioni, così come riconosce le libertà di pensiero, coscienza, religione, espressione, riunione e associazione, movimento mentre sancisce il divieto di pena di morte, di tortura, di schiavitù, di pena senza giudizio, di discriminazione, di espulsione dal territorio nazionale e di espulsione collettiva di stranieri.

Non così chiaro risulta invece essere il quadro di riferimento per poter valutare il primo dei due pa-rametri indicati a Copenhagen, quello relativo alla qualità del livello di democraticità nei Paesi candidabili. Per questo parametro infatti mancano precise convenzioni ed esplicitazioni di natura giuridico-formale collet-tiva per cui si è dovuto ricorrere ampiamente alla politologia per la classificazione dei criteri di valuta-zione (operazione poi sfociata nell’enunciazione dei contenuti della già citata «Agenda 2000») e sinteti-camente paiono essere queste le «regole indispensabili» per poter riconoscere un regime come effettivamente democratico:

 

?        eleggibilità delle cariche politiche

?        elezioni libere e corrette

?        separazione dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario)

?        controllo civile delle forze armate

?        stato di diritto con protezione degli individui e delle minoranze

?        assenza di discriminazioni basate su razza ed etnia

?        libertà di espressione, informazione, associazione

 

Alla luce di questi criteri valutativi ci si può dunque interrogare sul livello di «idoneità» politico-econo-mica degli attuali Paesi candidati e qui il giudizio non può che essere maggiormente soggettivo. Per cui, di seguito, si riporta uno schema sintetico che può chiarire meglio il pensiero del relatore riguardo ai livelli dei diversi parametri valutativi richiamati.

 













































































Parametri valutativi

Democrazia e

Economa di mercato

Obblighi di appartenenza

 

Diritti umani

Competitività

 

Candidati

 

 

 

Polonia

buono

buono

sarà «ok» se

Repubblica Ceca

buono

buono

sarà «ok» se

Ungheria

buono

buono

sarà «ok» se

Slovenia

buono

buono

dovrebbe essere «ok»

Estonia

buono, ma

buono

dovrebbe essere «ok»

Cipro

problemi al Nord

buono

buono

Slovacchia

insoddisfacente

difficoltà

dovrebbe essere «ok», se

Lettonia

buono, ma

difficoltà

dovrebbe essere «ok», se

Lituania

buono

difficoltà

dovrebbe essere «ok», se

Bulgaria

buono (ora)

difficoltà

progressi limitati

Romania

buono (ora)

difficoltà

progressi limitati

Turchia

insoddisfacente

buono, ma

buono

 

Riguardo in particolare al livello di democraticità e tutela dei diritti umani (ben più difficoltoso da verificare rispetto a quello economico) le valutazioni di perplessità nonché quelle negative sono legate, da un lato, al per-durante mancato riconoscimento dei diritti civili della numerosa minoranza russa (30-35%) in Estonia e Letto-nia, dall’altro, agli abusi di potere da parte di governo, polizia, servizi di sicurezza in Slovacchia: situazione drammaticamente enfatizzata in Turchia (peraltro, fondamentale Paese nella nato) nella quale, a fronte di livelli accettabili di benessere e gestione economica, continuano ad esserci scarso controllo civile delle forze armate, repressione violenta dei curdi, utilizzo della tortura, esecuzioni sommarie, scomparse di civili, notevoli interferenze religiose nella conduzione politica. Merita infine la citazione Cipro a causa dei problemi a Nord dell’isola (dal 1974 sotto occupazione turca) e delle ripetute frizioni tra Grecia e Turchia per la «sovranità» dell’intero territorio.

Se, alla luce di quanto sopra richiamato, le preoccupazioni legate alla «qualità della vita» (istituzionale, culturale, economico-politica) dell’Unione Europea relativamente al futuro consistente allargamento verso Oriente paiono essere quantomeno comprensibili, vi è da sottolineare che la necessità di operare sul fronte complessivo delle riforme istituzionali dell’Unione come «antidoto» per fronteggiare adeguatamente i problemi di un allargamento da compiersi in modo necessariamente armonico e consensuale rispetto alle prerogative degli attuali Paesi membri è parsa essere l’elemento peculiare sotteso alla convocazione del Vertice di Nizza del dicembre 2000: un vertice a cui si è guardato con molta speranza ma la cui conclusioni non paiono essere state  all’altezza dei propositi iniziali. Cinque grandi questioni erano all’ordine del giorno della convocazione:

 

?        Composizione della Commissione Europea: si è deciso a Nizza che i Paesi membri che hanno oggi due commissari nel 2005 ne perderanno uno e quando sarà raggiunto il numero complessivo di 27 mem-bri si deciderà in base a quali criteri ripartire la rappresentanza.

?        Ponderazione dei voti nel Consiglio Europeo: si è deciso che con l’allargamento debbano essere rivisti i calcoli per la determinazione dei voti necessari per detenere la maggioranza qualificata. Infatti, se si mantenesse l’attuale impostazione, i nuovi membri da soli finirebbero di detenere la cosiddetta mino-ranza di blocco (un sostanziale potere di veto) il che sarebbe «inaccettabile» per cui si è stabilito che questa sia espressione della metà più uno degli Stati oppure rappresenti il 38% della popolazione dell’intera Unione (attuale somma della popolazione di Germania, Francia e Regno Unito).

?        Determinazione delle questioni sulla cui decisione mantenere o meno il criterio della maggioranza qualificata: su questo punto si è stabilito che ogni decisione non potrà essere presa prima del 2007.

?        Ripartizione dei futuri seggi nel Parlamento Europeo: si è previsto di passare dagli attuali 626 seggi ai futuri 732, a rappresentanza di un’Unione composta da 27 Paesi (con ragionevole ridimensionamento della rappresentanza dei maggiori Paesi).

?        Definizione delle cosiddette cooperazioni rafforzate: si tratta di un meccanismo che consente a un mi-nimo di otto Paesi membri di avviare significative forme di cooperazione – in senso auspicabilmente più «federale» – anche senza la partecipazione degli altri Paesi, purché comunque le decisioni in merito avvengono all’unanimità (tranne che per l’ambito della difesa: questione che a Nizza ha visto il Regno Unito assolutamente contrario al suo inserimento tra le materie oggetto di cooperazione rafforzata).

 




 

PRINCIPALI APPROFONDIMENTI DEL DIBATTITO

 

Il dibattito si è articolato su diversi punti tra i quali possono essere richiamati in particolare i seguenti.

 

 

a)      Il meccanismo delle cooperazioni rafforzate pare essere veramente l’unico modo attualmente perse-guibile per uscire dalla crisi del vertice di Nizza, anche se non bisogna dimenticare che storicamente il percorso evolutivo della Comunità Europea negli ultimi 50 anni ha visto comunque il passaggio sempre più marcato dal principio dell’unanimità a quello della maggioranza e questo invita in qualche modo a sperare che il futuro dell’Unione, seppure faticosamente allargata ad Est, possa tendere sempre più al modello federale.

b)      La posizione dell’Italia (anche) al Vertice di Nizza è stata definita in termini elogiativi perché disponibile ad accettare tutte quelle soluzioni che avessero visto il consenso maggiore tra i presenti. Tuttavia, al di là di un certo ondivago orientamento sulle alleanze da sostenere (male «tradizionalmente» italiano) si è avuta una interessante contrapposizione tra la linea del Presidente Ciampi, più favorevole a soluzioni fede-rali, e quella dell’attuale governo, con Amato e Dini più pragmatici e inclini (semplicemente) ad uti-lizzare il meccanismo delle cooperazioni rafforzate.

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