Quando si parla di politiche della famiglia si entra facilmente in un terreno minato, in cui le posizioni ideo­logiche e di valore spesso producono veti incrociati a partire da cosa si debba intendere per famiglia. Infatti, se per definire il concetto di famiglia si fa riferimento a quella «unità naturale fondata sul matrimonio» emergono da subito differenti posizioni interpretative che rendono arduo trovare intese a livello di azioni (politiche) a so­stegno delle famiglie, soprattutto nel nostro Paese.

La soluzione, peraltro, pare esserci e consiste nel riformulare la domanda definitoria sottolineando mag­giormente il riferimento alle «politiche» della famiglia, ovvero a quelle politiche sociali che si articolano in meccanismi di sostegno economico e ridistributivo e che si rivolgono a uno specifico «bene sociale» da tute­lare; un «bene» che nella sostanza non costituisce oggetto di scontro interpretativo e il cui perseguimento po­trebbe sinteticamente essere così precisato: «che qualcuno abbia comportamenti solidali e di assunzione di responsabilità verso qualcun altro che vive condizioni di oggettiva difficoltà ? in primis, i minori e le per­sone non-autosufficienti». In altre parole, compito delle politiche della famiglia non dovrebbe tanto essere quello di sostenere uno o un altro «modello» di famiglia, quanto di favorire e rendere fattivamente possibile l’assunzione e il mantenimento di responsabilità familiari tra le generazioni (verso i più piccoli e verso i più anziani) e verso coloro che non sono del tutto auto-sufficienti.

Per quanto riguarda gli aspetti normativi che esplicitano tali generi di politiche va da subito chiarito che, in generale, le leggi a favore della famiglia e, come si è detto, dell’assunzione di responsabilità familiari sono as­sai poche e, tra quelle «esplicite» ancora di meno (con l’eccezione dei Paesi francofoni, dove, a fronte di un certo ritardo nel varo di strumenti normativi di welfare per i lavoratori, già dagli anni Venti del secolo scorso sono state introdotte numerose opportunità a favore delle famiglie e dei figli).

In Italia ? come nella maggior parte dei Paesi occidentali ? si è preferito ricorrere più a politiche di tipo «implicito» (quali ad esempio quelle relative alle pensioni di reversibilità) ma in generale, nel nostro Paese, la storia delle politiche della famiglia, specie se vista in chiave comparativa, appare una storia piena di con­traddizioni, di ambivalenze, che ha prodotto pochi sostegni e molto frammentati. Vi è poi un elemento in qualche modo paradossale poiché il modello di famiglia sostenuto in termini valoriali il più delle volte non coincide affatto con il modello di riferimento delle reali politiche della famiglia.

Infatti, il modello «ideale» rimane quello della famiglia lunga e allargata, con un rapporto formal­mente matrimoniale di tipo tradizionale fondato su una netta divisione dei compiti e delle responsabilità tra moglie e marito: il marito rimanendo il principale (se non unico) procacciatore di reddito e di risorse di sicurezza sociale (assistenza sanitaria, pensione ecc.) e la moglie, viceversa, rimanendo la principale fornitrice di cure ai diversi componenti della famiglia, anche allargata alla parentela. Ora, la questione non è tanto quella della divisione «tradizionale» del lavoro tra padri e madri (che peraltro meriterebbe precisi approfondimenti) quanto piuttosto che il modello di sostegno familiare ? attraverso il sistema fiscale e di pre­videnze sociali ? che da tale divisione deriva, negli altri Paesi risulta sostanzialmente «funzionante» mentre il Italia non risulta così.

Si pensi, ad esempio, alla Francia in cui giuridicamente «c’è famiglia se c’è un bambino» (e dunque indi­pendentemente dal fatto se il patto matrimoniale sia di tipo tradizionale o no): qui il sistema normativo e fiscale appare assolutamente coerente con questa definizione di famiglia e gli strumenti di sostegno familiare sono qualitativamente avanzati. In Italia, al contrario, il meccanismo fiscale e di previdenza sociale è distorto e, ri­guardo ad esempio alle detrazioni fiscali, per il marito lavoratore «conta di più» avere una moglie a carico piuttosto che quattro figli minori.

Più in generale, il nostro sistema di sostegno (in particolare quello legato ai meccanismi fiscali) premia nei fatti assai poco l’attuazione del modello tradizionale (e ideal-tipico) di famiglia, mentre le (poche) risorse a di­sposizione sono comunque indirizzate maggiormente verso chi si discosta da tale modello (si pensi, ad esem­pio, alle misure di sostegno per le «madri lavoratrici»).

Per altro verso, stanno aumentando nel nostro Paese le misure di sostegno legate alla cosiddetta «prova dei mezzi» (si pensi agli assegni per nuclei familiari con più figli minori a carico: ad esempio, con quattro figli minori, per la prima fascia di reddito, viene erogato un contributo di £1.000.000 al mese). Tutta­via, tale soluzione presenta non pochi aspetti problematici soprattutto legati al fatto che prendere come base di riferimento il reddito familiare significa indirettamente rendere molto «costoso» il reddito del coniuge ossia, normalmente, il reddito del lavoro femminile «ufficiale». Di conseguenza, ciò significa indurre la madre di fa­miglia con figli minori a preferire lavori in nero piuttosto che in regola, salvo poi, una volta cresciuti i figli e terminata l’erogazione degli assegni, ritrovarsi ancora in età lavorativa, ma con evidenti difficoltà a redigersi un proprio curriculum professionale «ufficiale» e facilmente spendibile per reinserirsi (nuovamente) nel conte­sto produttivo.

In ogni caso, va precisato come in Italia (unico Paese dell’Unione Europea!) non esiste alcuna forma di erogazione di assegno per i figli a carico che non sia dipendente dalla condizione che i genitori (almeno uno) lavorino come dipendenti e producano reddito: l’assegno c’è infatti solo per i genitori che, svolgendo lavoro dipendente, siano in grado di fornire la prova del livello basso del reddito complessivo familiare.

Tuttavia, se questo è il «meccanismo» e le condizioni sancite dalla riforma del 1985, l’effetto di questa ri­forma è stato che il numero di famiglie beneficiarie che precedentemente era salito in modo costante, è succes­sivamente diminuito in modo consistente. Nel 1980 riceveva un assegno familiare (di importo molto modesto) l’87% dei minori di diciotto anni; già nel 1987 questa percentuale era scesa al 50%, riducendosi ancora più drasticamente negli anni successivi. Come è noto, l’importo varia sulla base dell’ampiezza della famiglia e del reddito complessivo della famiglia stessa. I tetti di reddito al di sopra dei quali l’assegno diminuisce, fino a sparire, sono più alti, a parità di composizione numerica della famiglia, se, in presenza di figli minori, la fami­glia è monogenitore; ancora più alti quando è presente un invalido.

Solamente con la Finanziaria del 1995 è stata introdotta una maggiorazione specificamente destinata alle famiglie con figli, così come una detrazione fiscale maggiorata a partire dal terzo figlio. Entrambe queste misure, tuttavia, continuano ad essere destinate esclusivamente ai lavoratori dipendenti e assi­milati aventi diritto agli assegni al nucleo familiare sulla base del reddito. In altri termini, ne sono esclusi sia i lavoratori dipendenti con redditi medio-alti (l’esclusione da un assegno anche minimo, a prescindere dall’ampiezza della famiglia, si colloca oggi grosso modo attorno ai cinquanta milioni lordi di reddito familiare annuo), sia i lavoratori autonomi a qualsiasi livello di reddito, sia infine le famiglie in cui gli adulti siano privi di occupazione.

Più in generale, comunque, si deve ammettere che negli ultimi anni effettivamente c’è stato in Italia un aumento delle misure rivolte alle famiglie e il tema della famiglia e delle politiche della famiglia è entrato con maggiore significatività nell’agenda politica, sebbene con intenzioni e obiettivi diversi a seconda dei sog­getti che se ne sono fatti portavoce. La novità maggiore sta, in ogni caso, nella messa a fuoco del «costo dei fi­gli» e nella incentivazione di servizi di cura e consulenza sia per i genitori che per coloro che hanno responsa­bilità nei confronti di invalidi, anziani fragili ecc. (la legge di riforma dell’assistenza, a questo proposito, do­vrebbe fornire una cornice complessiva alle innovazioni che ci sono state in questo campo, specie a livello lo­cale).

Ma, allo stesso tempo, si continua a dare per scontata la lunga dipendenza dei figli dalla famiglia e l’inesauribile disponibilità di «cura gratuita» fornita dalle donne entro la rete parentale, senza peraltro neppure mettere a fuoco i mutamenti che in questa rete hanno operato le ultime trasformazioni demografiche (e si consideri inoltre come proprio alcune recenti misure rischino di rafforzare, quasi congelandoli, i tradizionali rapporti di genere, con conseguenze socialmente negative soprattutto nei ceti più vulnerabili).

In conclusione, per quanto paradossale possa sembrare, si potrebbe arrivare ad affermare che la famiglia in Italia, più che essere oggetto vero di (significative) politiche a suo favore continua essa stessa ad essere «la politica», ossia la «terza gamba» di un sistema di welfare che ? così come funzionano tutti i sistemi di wel­fare efficaci (se non efficienti) del mondo occidentale ? ridistribuisce reddito, risorse e servizi. Il problema italiano è però legato al fatto che l’aumento delle donne e madri lavoratrici, da un lato, i cambiamenti culturali generali, dall’altro, e, infine, la gravità della questione demografica legata alla forte denatalità nel nostro Paese, portano a considerare la complessa e difficoltosa possibilità che tale particolare sistema di welfare familiare possa perdurare e resistere nel tempo.

Infatti, basterebbe, tra gli altri, considerare il dato che oggi in Italia ci sono meno «figlie nuore» che in pas­sato con un numero invece più alto di donne anziane, e che le donne sessantenni stanno massimamente svol­gendo il compito di ridistribuire risorse e «redditi» (si pensi solo all’accudimento dei nipoti, figli dei propri fi­gli, piuttosto che a quello dei propri parenti più anziani e/o non più auto-sufficienti), per capire come, quando tali sessantenni diverranno più anziane (e magari non più auto-sufficienti), diverrà assai problematico trovare un numero «sufficiente» di giovani nuore ? tradizionalmente chiamate a svolgere compiti di cura anche degli anziani all’interno della propria rete parentale ? e, più in generale, di giovani donne non occupate professio­nalmente, in grado di accudire tali generazioni di donne ormai anziane.

Uno degli obiettivi più importanti, a questo riguardo, delle politiche della famiglia nel nostro Paese non può dunque prescindere dalla valorizzazione e dal favorimento delle giovani famiglie, sostenendo le giovani generazioni, attraverso diversi meccanismi (quali anche oculate politiche edilizie e per l’affitto agevolato delle prime case), a lasciare le proprie famiglie di appartenenza e a creare nuovi nuclei familiari, assumendosi le dovute responsabilità e rimanendo «aperti» alla possibilità riproduttiva, all’interno di un contesto norma­tivo, sociale e culturale che sancisca effettivamente la «libertà di scegliere» non solo di non avere figli ma an­che, al contrario, di averne (più di uno) e potendone gestire la crescita e lo sviluppo fisico, morale e culturale grazie ad un potenziamento (in coerenza, tra l’altro, con le recenti tendenze in atto nei Paesi dell’Unione Euro­pea) della sinergia tra sistema familiare, sistema pubblico (Stato e Enti Locali) e agenzie afferenti il cosiddetto terzo settore.

 

 




 

PRINCIPALI APPROFONDIMENTI DEL DIBATTITO

 

 

 

Il dibattito si è articolato su diversi punti tra i quali possono essere richiamati in particolare i seguenti:

 

a)      In Italia, i governi democristiani sembrano avere favorito un clima culturale in base al quale l’introduzione di servizi pubblici di sostegno alla famiglia ? quali ad esempio, gli asili nido ? veniva interpretata come un rischio di «espropriazione» delle tradizionali prerogative familiari di cura della prole. Per questo motivo, il nostro Paese non ha avuto (e parzialmente continua tuttora a non avere) servizi per la famiglia di livello e numerosi come gli altri Paesi europei occidentali.

b)      Le donne oggi sembrano strette tra «due fuochi»: da un lato, la netta percezione che lo svolgimento del loro ruolo di mogli e madri lavoratrici è destinato in futuro a fare emergere tutte le difficoltà intrinseche e le contraddizioni, tanto che più di una intuisce la futura «non?praticabilità» di tale doppio ruolo. Dall’altro lato, la consapevolezza che, se decidessero di non svolgere più tale «doppio ruolo» molto probabilmente (quasi certamente?) la conduzione delle proprie famiglie diverrebbe impossibile con un danno enorme e ir­rimediabile per i propri cari oltre che per se stesse.

c)      Per fare fronte al calo demografico del nostro Paese, ipotizzare che sia sufficiente «aprire le frontiere» ulte­riormente e favorire l’arrivo di extra-comunitari e/o la ricongiunzione familiare di coloro che già risiedono in Italia al fine consentire a queste nuove famiglie di generare con maggiore facilità bambini risulta essere solo parzialmente una «soluzione demografica». Infatti, l’aumento dei figli di extra-comunitari è soprat­tutto un fatto positivo di integrazione sociale, ben più che essere quantitativamente l’anditodo per rimpiaz­zare le mancate nuove nascite di italiani (operazione per il cui reale riequilibrio sarebbe necessario un nu­mero troppo grande di figli di extra-comunitari).

d)      Circa la questione dell’essere o meno favorevoli alle unioni tra omosessuali, la relatrice ritiene che tali unioni siano un fatto socialmente importante e positivo. Tuttavia, considerando l’attuale contesto culturale italiano, è preferibile sancire il divieto per tali coppie di adottare bambini: ciò soprattutto per ridurre al mi­nimo le difficoltà psicologiche di integrazione sociale del bambino adottato piuttosto che in base alla con­siderazione che gli omosessuali sarebbero oggettivamente «non adatti» ad adottare bambini e ad accudirli responsabilmente, secondo la definizione di famiglia precedentemente esposta (in cui si è posto l’accento principalmente sull’idoneità ad assumersi, appunto, responsabilità familiari tra generazioni (verso i più piccoli e verso i più anziani) e verso coloro che non sono del tutto auto-sufficienti).

 

 

P.S. Per approfondire i temi trattati, la relatrice consiglia i seguenti due testi di riferimento: M. Barbagli e C. Saraceno (a cura di), Lo stato delle famiglie in Italia, il Mulino, Bologna 1997; C. Saraceno, Mutamenti fami­liari e politiche sociali in Italia, il Mulino, Bologna 1998.

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