Il tema delle riforma elettorale ed istituzionale riveste, nell’odierno contesto politico italiano, carattere di estrema attualità, testimoniato anche dal referendum del 18 aprile ’99 che intendeva abrogare la quota proporzionale ma che, peraltro, non avendo raggiunto il quorum, ha lasciato inalterato il sistema elettorale in corso. La riforma elettorale e la riforma istituzionale costituiscono due livelli di riforma strettamente connessi, tuttavia differenti e sarebbe, perciò, interessante ragionare sulle prospettive che ciascun progetto di riforma sia in grado di offrire.

Dopo anni di lavori all’interno di una serie di Commissioni interparlamentari, nell’agosto 1993, sono state approvate due leggi elettorali – tuttora vigenti – che hanno introdotto un sistema maggioritario per il 75% dei seggi e proporzionale per il restante 25%.   

Va comunque sottolineato che si ragiona spesso e “facilmente” di riforma elettorale perché la legge elettorale è uno strumento con cui si può condizionare efficacemente il comportamento degli elettori, dei candidati e dei partiti e, in quanto ordinaria, non necessita della procedura aggravata per essere approvata. Poiché la “grande riforma” del ’93 – che avrebbe dovuto attivare una democrazia maggioritaria più solida – non ha, purtroppo, sortito gli effetti sperati e, visto l’esito negativo del recente referendum, si rende opportuno considerare quanto l’ingegneria costituzionale diventi un esercizio teorico di grandissima importanza.

Il sistema politico italiano ha avuto il difetto di non essere mai riuscito a praticare, per varie ragioni, l’alternanza di governo senza produrre, al tempo stesso, governi stabili ed efficaci (soprattutto a causa della diffusione di “fenomeni di consociativismo” che hanno reso la democrazia italiana una democrazia anomala): il sistema politico italiano, infatti, si è evoluto per cinquant’anni attraverso un progressivo e patologico allargamento del centro dello schieramento politico.

Tra il 1992 ed il 1996, poi, avvengono significativi cambiamenti: innanzitutto viene meno un contesto internazionale che aveva fortemente “pesato” sullo Stato italiano; spariscono i grandi partiti storici come la DC ed il PCI (il MSI diventa Alleanza Nazionale, compare la Lega Nord – che introduce nuove dinamiche politiche tra centro e periferia – e “scende in campo” Silvio Berlusconi); vengono introdotte, dunque, nuove regole del gioco e si attiva, per la prima volta, una dinamica politica di tipo bipolare anche se i poli, molto fragili, presentano tutti i difetti caratteristici del governo di coalizione (nel ’94 il governo Berlusconi cade dopo pochi mesi a causa della sfiducia Lega e nel ’96 la stessa sorte tocca al governo Prodi che non può contare su una solida maggioranza alla Camera).

Tuttavia, se è vero che nel 1996 si realizza per la prima volta – attraverso il circuito elettorale – l’alternanza di governo (prende, cioè, il potere una “forza – fino ad allora – di opposizione”) e si attiva una dinamica politica bipolare, è vero, altresì, che questa soluzione si è rivelata radicalmente imperfetta ed è alla luce di ciò che conviene riflettere sui problemi specifici delle riforme elettorali ed istituzionali.

    Qualsiasi sistema politico si compone di tre livelli fondamentali: 1) le leggi elettorali; 2) il sistema dei partiti; 3) il sistema istituzionale. Per comprendere le potenzialità ingegneristiche delle riforme elettorali ed istituzionali, è necessario ragionare innanzitutto sul sistema dei partiti, – termine intermedio e fondamentale per qualunque sistema democratico – che ben può essere il frutto dell’ingegneria costituzionale (i partiti, infatti, possono essere modificati con un’intelligente azione di ingegneria costituzionale), ma può anche condizionare a fondo le prospettive stesse di tale ingegneria poiché,  i partiti, che sono il sedimento di fratture storiche, di interessi di classe, di progetti ideologici e che hanno sede nella società civile, sono spesso irriducibili alle dimensioni del sistema politico istituzionale. E, mentre nel sistema americano e britannico essi nascono quando viene introdotto il suffragio universale e pertanto sono, in primo luogo elettorali ed in secondo luogo parlamentari, nell’Europa continentale ci sono dei partiti che sorgono in maniera completamente indipendente dai meccanismi del ciclo elettorale (è il caso dei partiti socialisti, cristiano-sociali e nazionalistici che sorgono spesso contro gli stessi meccanismi della politica parlamentare) e quindi hanno una struttura genetica “ostile” alle ragioni del sistema politico e perciò resistente agli interventi di tipo ingegneristico.

Nella letteratura politologica e scientifica i sistemi di partito sono stati classificati in modi molto diversi e Giovanni Sartori – politologo italiano – ha elaborato, a questo proposito, una tipologia che combina il formato di un sistema partitico con le dinamiche che il sistema partitico stesso mette in movimento e così classifica i sistemi partitici distinguendoli, innanzitutto, tra sistemi competitivi e sistemi non competitivi (e cioè a partito unico che, peraltro, in questo contesto non rilevano particolarmente).

Nei sistemi politici competitivi i sistemi di partito possono essere del seguente tipo:

Ø    sistemi a partito predominante in cui un unico partito (non frutto di coalizioni) predomina per lungo tempo in elezioni a carattere competitivo (è il caso del partito del Congresso in India, dei partiti socialdemocratici in Norvegia e in Svezia, e del partito democratico in Giappone);

Ø    sistemi bipartitici (che possono essere anche multipartitici) ove i partiti che contano e che si alternano al potere sono due ed anche qualora l’alternanza non si verifichi per molti anni persiste, nell’opposizione, l’aspettativa dell’alternanza medesima (è il caso del sistema britannico);

Ø    sistemi multipartitici limitati costituiti da un minimo di tre ed un massimo di cinque partiti rilevanti caratterizzati da una competizione interpartitica di tipo centripeto, proiettati all’alternanza tra forze di governo e forze di opposizione (sistema tedesco) senza che sussista, tra le ali estreme dello schieramento politico, un contrasto ideologico forte (prevalendo, cioè, una sostanziale omogeneità);

Ø    sistemi multipartitici estremi caratterizzati dalla presenza di più di cinque partiti rilevanti tra i quali sussiste una competizione centrifuga che “fortifica” le ali estreme dello schieramento politico.

In questi sistemi sono spesso presenti dei partiti anti-sistema i quali praticano un’opposizione tendenzialmente irresponsabile che rende difficilmente realizzabile il meccanismo dell’alternanza (ed è il caso dell’Italia repubblicana);

Ø    sistemi partitici atomizzati in cui esiste un numero di partiti ugualmente rilevanti non stabilizzati, che non hanno la minima coesione in Parlamento e perciò non possono costituire un sostegno stabile per una coalizione di governo (e ciò accade in molti Paesi che sono usciti dal regime comunista).

Nelle definizioni di ciascun sistema elettorale, poi, rientrano i seguenti elementi basilari: l’elettorato attivo (chi ha il diritto di voto); l’elettorato passivo (chi può essere eletto); la disciplina della propaganda elettorale; le modalità del voto ed il luogo ove votare; la formula elettorale.

In Italia si è avuto un sistema prevalentemente proporzionale (a parte qualche parentesi) fino alla svolta maggioritaria attuata dalle leggi elettorali dell’agosto ’93. Ed a proposito del problema relativo alla formula elettorale (argomento centrale del tema oggetto della relazione) occorre evidenziare che i sistemi elettorali si applicano sia per eleggere cariche esecutive (presidente della Repubblica, presidente degli Stati Uniti, primo ministro in Israele…) sia per eleggere cariche rappresentative.

I differenti sistemi elettorali in vigore nel mondo si adattano a realtà molto diverse e pertanto rispondono a logiche diverse e producono effetti diversi.

Nei sistemi maggioritari ad un turno in collegi uninominali, il seggio viene vinto da chi ottiene anche soltanto la maggioranza relativa dei voti espressi. Questo modello tende a scoraggiare le candidature indipendenti (spesso fa sì che si candidi solo l’esponente del partito più forte) e ad attivare una competizione di tipo bipolare; tuttavia presuppone una sostanziale omogeneità in tutti i collegi del territorio nazionale. Esso, dunque, garantisce la governabilità: il premier è il capo del partito di maggioranza e può governare senza particolari difficoltà, potendo contare su una solida maggioranza parlamentare. Vi è, però, il rischio che alcune realtà politiche siano fortemente sottorappresentate: può legittimamente capitare che il partito divenuto di  maggioranza sia un partito minoritario del Paese.

Nei sistemi maggioritari a due turni in collegi uninominali, occorre, invece, la maggioranza assoluta dei voti; se tuttavia, al primo turno, il candidato non ottiene tale la maggioranza si va ad un secondo turno in cui basta una maggioranza relativa. Ed al secondo turno possono accedere tutti i candidati così come soltanto i primi due (ballottaggio); tra questi due estremi, tuttavia, ci sono una serie di situazioni intermedie che regolano il passaggio al secondo turno attraverso la definizione di una soglia minima di voti espressi al primo turno: una “chiusura strettissima” di tale accesso tenderà ad attivare una competizione di tipo bipolare mentre una maggiore apertura, favorirà, invece, i formati partitici di più ampia misura. Anche questo sistema tende a sottorappresentare i partiti estremi e quelli senza un potere di coalizione; al tempo stesso, premiando la capacità di coalizione, ha l’effetto di deframmentare il sistema partitico ed abitua l’elettore ad una duplice modalità di voto: un “voto sincero” al primo turno ed un “voto utile o strategico” al secondo, consentendo sia di valutare il reale ed effettivo radicamento dei partiti nella realtà nazionale, sia di costruire una maggioranza parlamentare che dovrebbe essere la logica conseguenza della coalizione elettorale che si è “apparentata” per il secondo turno.

Nei sistemi proporzionali, che funzionano sempre in collegi plurinominali, infine, si cerca di stabilire una relazione di proporzionalità – variamente corretta – tra voti espressi e seggi. In tutti i vari sistemi proporzionali, però, si pone il problema di contenere l’inevitabile frammentazione partitica.

Per limitare tale rischio si tenta di agire sulla dimensione della circoscrizione elettorale (quanto più è grande la circoscrizione tanto più il risultato sarà proporzionale) ; si fissano delle clausole di accesso o di esclusione (in Germania, ad esempio, i partiti che non superano il 5% dei voti non vengono rappresentati in Parlamento); si cerca, infine, di stabilire un numero adeguato di parlamentari  (quanto più è grande l’Assemblea parlamentare tanto maggiore sarà la rappresentatività). Il sistema proporzionale, dunque, tende a premiare le scissioni partitiche che rendono possibili sistemi politici “meno governati”.

Per quanto riguarda, invece, le principali forme di governo, esse si distinguono in: sistemi presidenziali puri, sistemi parlamentari e sistemi semi-presidenziali.

a) Nei sistemi presidenziali puri il presidente è eletto dal popolo (ha, dunque, una sua autonoma legittimazione), è il capo dell’esecutivo e non può essere sfiduciato dal Parlamento – salvo casi particolarmente gravi. I governi presidenziali, infatti, si basano sul principio della netta separazione dei poteri legislativo ed esecutivo: il Parlamento non può rimuovere il Presidente così come il Presidente non può sciogliere il Parlamento. Pertanto è fondamentale che il Presidente possa contare su una maggioranza al Congresso; tuttavia capita sempre più spesso che la maggioranza che elegge il presidente sia diversa dalla maggioranza che predomina al Congresso: ciò crea una situazione comunemente detta di governo diviso ed in conseguenza di ciò il sistema presidenziale può caratterizzarsi per una forza immensa oppure può portare alla “paralisi” (come negli Stati dell’America Latina). Negli Stati Uniti questo modello funziona efficacemente grazie alla debolezza del partito nelle sue dinamiche parlamentari: i partiti, infatti, sono soltanto elettorali e non hanno una forte consistenza all’interno del Parlamento. Ma questa forma di governo si è affermata, negli Stati Uniti, per ragioni storiche, – quando ancora in tutti gli Stati Nazionali europei vigeva il sistema monarchico – e,  pertanto, non è facilmente “esportabile”.

b) Nei sistemi parlamentari, al contrario, prevale una sorta di condivisione – e non di netta separazione – dei poteri legislativo ed esecutivo: i governi, infatti, sono sostenuti o sfiduciati dai Parlamenti. I vari tipi di governi parlamentari vanno dal premierato all’inglese, in cui l’esecutivo prevale nettamente sul legislativo, al sistema assembleare francese della terza e della quarta repubblica, dove invece predominava il Parlamento; tra le due estreme situazioni si colloca la partitocrazia parlamentare in cui il Parlamento è dominato e controllato – soprattutto nel sistema italiano – da partiti politici piuttosto forti. Pertanto il sistema parlamentare funziona bene con partiti che siano fortemente disciplinati. I due sistemi di premiership che mostrano un sistema parlamentare efficiente sono costituiti dal modello inglese, che presuppone il governo monopartitico, prevede il sistema uninominale secco ed una rigida disciplina dei partiti, e dal modello tedesco, che ha un formato tripartitico ed è caratterizzato da governi di coalizione, da un sistema proporzionale con clausola di sbarramento, dall’esclusione costituzionale dei partiti anti-sistema e dal voto di sfiducia costruttiva che impedisce la crisi parlamentare al buio (un governo non può essere sfiduciato da una maggioranza che non proponga alternative). Entrambi i sistemi predispongono il sistema dell’alternanza e sono, anch’essi, difficilmente “esportabili”.  

c) I sistemi semi-presidenziali, infine, si collocano tra presidenzialismo e parlamentarismo; il presidente viene eletto dal popolo e condivide il potere esecutivo con un Primo ministro che è responsabile di fronte al Parlamento: si tratta di un sistema diarchico, molto flessibile che consente, qualora si manifestino gli stessi problemi del governo diviso americano (una maggioranza che elegge il Presidente ed una diversa maggioranza alla Camera), la continuità dell’azione di governo ad opera del Primo Ministro (esempio ne è il sistema francese e, proprio per questo suo carattere diarchico e flessibile al tempo stesso, è considerato un sistema più facilmente esportabile ad altre realtà politiche).

 




 

PRINCIPALI APPROFONDIMENTI DEL DIBATTITO

 

* Si osserva come il sistema politico italiano presenti un duplice problema: la mancanza di stabilità e l’assenza di alternanza, anche se, quest’ultimo, grazie alle riforme elettorali, dovrebbe essere in via di risoluzione. Quanto alla scarsa stabilità, invece, essa è originata, principalmente, dagli ormai troppo frequenti “ribaltoni” che bisognerebbe in qualche modo impedire o, quanto meno, limitare.

Occorrerebbe, dunque, approfondire il discorso relativo ai meccanismi istituzionali di governo affinché il governo di maggioranza possa governare e non debba soggiacere – come invece capita – al potere di ricatto del “partito piccolo”. Viceversa si rischierà di alimentare la già diffusa e generalizzata sfiducia nei confronti della politica, che aumenterà l’astensionismo dal voto (dr. W. Giacchero).

* Posto che non esiste un meccanismo elettorale ideale, essendo esso strettamente collegato alla realtà storico-politica di un Paese,  si chiede, allora, quale orientamento dovrebbe assumere la riforma elettorale del sistema politico italiano rispetto ai non pochi problemi che si sono osservati (forze centrifughe, bipartitismo imperfetto, frammentazione dei partiti…) al fine di trovare una sufficiente corrispondenza tra le esigenze storico-politiche e una governabilità assolutamente indispensabile (dr. R. Guala).

* Si chiede quale sia la reale libertà di scelta degli elettori e quale sia il ruolo dei partiti nell’eventuale, ma verosimile, manipolazione dei sistemi elettorali e dei sistemi di governo. Si domanda, dunque, se ci sono strumenti di riforma che possano rendere più libero l’elettore – come, ad esempio, le elezioni primarie (prof. G. Rinaldi).

 

 Þ   Il problema relativo ai meccanismi costituzionali che assicurino la stabilità di governo va ad incidere sul principio stesso su cui si fondano le moderne democrazie rappresentative e cioè, l’indipendenza dell’eletto dall’elettore: se l’eletto, infatti, diventasse un fiduciario dell’elettore non ci si troverebbe più in un moderno sistema democratico. Per evitare i ribaltoni bisognerebbe, perciò,  immaginare una via diversa dal “mandato”: la stessa democrazia maggioritaria è stata costruita con la chiara intenzione di personalizzare maggiormente il rapporto tra eletti ed elettori. Purtroppo la costante e forte mediazione partitica ed il governo di coalizione (che consente il frequente ricorso al potere di ricatto) hanno reso – e rendono – piuttosto vana  anche questa soluzione. In una democrazia moderna, dunque, l’unica vera sanzione è quella di non rieleggere il candidato che si sia comportato in modo incoerente. I sistemi elettorali, poi, rispondono sostanzialmente a due esigenze: rappresentare le forze politiche, sociali ed economiche di un Paese e, al tempo stesso, garantire la governabilità: è facile osservare come la prima esigenza sia maggiormente garantita dal sistema proporzionale, la seconda, invece, da quello maggioritario. Tuttavia, laddove, non c’è governabilità non è nemmeno possibile individuare le responsabilità specifiche del governo e dell’opposizione nella gestione del sistema politico: ciò non permette di capire chi, alla prossima tornata elettorale, sia da premiare o da punire e perciò il deficit di governabilità si traduce in un deficit di democrazia. Pertanto si ritiene che un’opposizione “sottorappresentata” non incida assolutamente sulla democraticità ma, anzi, sarebbe funzionale ad una governabilità più stabile. Per contro, il sistema proporzionale è, invece, considerato il miglior garante delle minoranze politiche che devono sempre e  comunque essere rappresentate; ma, allora, il vero dilemma, è: “rappresentare o governare?”.

          Quanto alla libertà di scelta dell’elettore, si ritiene che essa sia veramente molto limitata e che le elezioni, siano, in realtà, “gigantesche manipolazioni” del consenso elettorale. Secondo G. Mosca, infatti, “il candidato non è mai libero di scegliere: sono gli eletti che si fanno scegliere dagli elettori”. Certamente sarebbe auspicabile una cittadinanza politicamente sempre più matura e consapevole; le elezioni primarie, tuttavia, sono uno strumento di democrazia che funziona negli Stati Uniti, dove i partiti sono soprattutto elettorali, ma, in un contesto come quello italiano – esattamente opposto – si teme che anch’esse non sortirebbero esito positivo (prof. F. Tuccari). 

 

* Si ritiene che il discorso dovrebbe vertere sulla chiarezza degli obiettivi-valori che sarebbero, sostanzialmente, due: l’alternanza di governo e la governabilità. E per favorire la governabilità occorre impedire la sfiducia distruttiva e depotenziare i partiti. Sarebbe infatti preferibile il governo di un premier, eletto dal popolo, che goda di stabilità per estrinsecare la propria azione direttiva con il sostegno di una maggioranza definita e resa coesa dalle finalità del programma espresso, onde essere poi giudicato sui risultati raggiunti e sulla coerenza con i programmi formulati. Tali requisiti potrebbero essere realizzati da un sistema tendenzialmente bipolare, quale può risultare da un metodo elettorale di tipo maggioritario che però riesca ad amalgamare le diverse e forti presenze partitiche sulla base di indicazioni espresse dagli elettori – e non già in forza di accordi di vertice. E tutto ciò può essere offerto da un sistema elettorale a collegio uninominale con doppio voto di preferenza così “strutturato”: il territorio viene ripartito in collegi uninominali dove ogni partito o raggruppamento di partiti indica un unico candidato per collegio. L’elettore ha a disposizione due voti che esprime sulla stessa scheda: il primo al candidato preferito ed il secondo al candidato, di altro partito, che immediatamente segue nella sua scala di gradimento. Qualora nessun candidato raccolga il 51% dei voti con la prima preferenza si compila una graduatoria dei candidati che hanno ottenuto il maggior gradimento sommando il primo e il secondo voto ottenuti. Vince il candidato che avrà così ottenuto il 51% rispetto al totale dei voti espressi. In mancanza di tale maggioranza si andrà al ballottaggio tra i primi due candidati che avranno ottenuto il maggior numero di doppie preferenze. Questo sistema consentirebbe una serie di vantaggi, tra cui quello di smorzare il sovrappeso che il maggioritario puro assegna ai maggiori partiti, senza necessità di introdurre quote proporzionali con funzione correttiva (dr. R. Lenti).

* Si sottolinea che la stessa Costituzione italiana sarebbe all’origine di alcuni problemi del sistema italiano: essa, infatti, conferirebbe troppa preponderanza al Parlamento rispetto al Governo (da cui conseguirebbero la partitocrazia e l’instabilità). Non si condivide, inoltre, l’aprioristica condanna dei ribaltoni che possono essere giustificati da una sopravvenuta incompatibilità di ideologia o di interessi tra l’eletto e la politica condotta dal partito di appartenenza (rag. G. Bartolotti).

* Si ritiene che attualmente sia molto importante difendere la democrazia come valore in sé: è, infatti, preoccupante il generalizzato e diffuso astensionismo dal voto che si sta verificando in Italia.

La Costituzione italiana, poi, sarebbe quanto di meglio sia stato espresso in Italia negli ultimi cinquant’anni ed anche i partiti, in quanto rappresentanti degli interessi e delle ideologie del popolo, non dovrebbero essere eccessivamente criticati (dr. G. Manzone).

* Si osserva che i sindaci eletti direttamente dalla popolazione sembrano più apprezzati di quelli precedentemente scelti dai Consigli Comunali. Si chiedono, pertanto, pareri in merito e considerazioni ulteriori rispetto alla possibilità che una legge analoga “a quella dei sindaci” possa essere portata a livello del governo centrale (dr. W. Giacchero).

 

Þ    Si ritiene sia molto apprezzabile la previsione e l’auspicio di una forte personalizzazione della premiership fondata su un sostanziale rapporto diretto tra Capo del Governo, slegato dai partiti, e le varie fonti del consenso. Ed è altresì interessante la proposta di riforma elettorale volta a tutelare l’attuazione del programma di governo del Capo dell’esecutivo dalla “sfiducia distruttiva” del Parlamento. Tuttavia si osserva come non sia possibile depotenziare i partiti senza sacrificare la stessa democrazia: i partiti sono strutture organizzate che rendono possibili le elezioni e senza di essi bisognerebbe ipotizzare una democrazia fortemente plebiscitaria. Si considera, inoltre, che, mentre nelle elezioni amministrative – sussistendo un rapporto più stretto tra eletti ed elettori – è possibile uscire dalla logica dei partiti, nel caso delle elezioni politiche nazionali, invece, prevalgono inevitabilmente le logiche di schieramento che poi, purtroppo, essendo numerose e frammentate rendono possibile soltanto un governo di coalizione. Si ritiene, inoltre, che i difetti del sistema politico italiano non siano affatto da attribuire alla preponderanza del Parlamento: il modello inglese, ad esempio, ha un Parlamento anche più “forte” di quello italiano senza che perciò sia compromessa la governabilità assicurata, peraltro, dal formato bipartitico e dal sistema maggioritario a turno secco che producono un governo monopartitico e stabile (prof. F. Tuccari).      

 

* Si sottolinea che i problemi relativi ai meccanismi elettorali siano secondari rispetto al problema di una democrazia che non sarebbe da esprimere dal voto in avanti ma prima del voto stesso.

La rappresentanza politica, poi, dovrebbe avvicinarsi il più possibile alla rappresentanza civile. Si ritiene, pertanto, che sarebbe opportuno istituzionalizzare il bipolarismo affinché i cittadini debbano e possano scegliere, sostanzialmente, tra due sole alternative possibili (prof. C. Viscardi).

* Si osserva che le scelte non possono essere necessariamente e soltanto bipolari. Anzi, si ritiene che non si debbano escludere ed emarginare dalla rappresentanza politico-parlamentare i “partiti piccoli” e minoritari poiché ciò non sarebbe assolutamente indice di vera democrazia (sig. G. Barberis).

* L’attuale momento storico richiede di prendere decisioni piuttosto rapide ma impossibili senza un governo stabile e libero di agire. Si ritiene perciò, che a favore della governabilità si debba sacrificare anche un po’ di democraticità. E si osserva, poi, che un sistema proporzionale con premio di maggioranza sia adeguato a garantire una sufficiente democrazia (dr. R. Guala).

* Si ritiene che sarebbe opportuno modificare il regolamento parlamentare, che consente la formazione di gruppi misti, spesso politicamente disomogenei, e la legge sul finanziamento, che concede risorse finanziarie anche a partiti costituiti da un singolo individuo (prof.ssa Porrati).

* Si sottolinea che “gli eletti” dovrebbero essere più coerenti al simbolo sotto il quale si sono candidati: qualora poi, un “eletto” intendesse cambiare gruppo o partito dovrebbe – secondo le comuni regole di serietà e correttezza – dimettersi e tentare, semmai, di farsi rieleggere nel Collegio di provenienza sotto il “nuovo simbolo” – similmente anche le crisi di governo non dovrebbero essere risolte mediante rimpasti e ribaltoni ma attraverso nuove elezioni (dr. W. Giacchero).   

 

Þ   L’attuale mondo sempre più globalizzato fa sì che il rapporto tra cittadini e governo sia sostanzialmente incapace di incidere su alcune dinamiche molto importanti – “in primis” quelle economiche  – che passano, invece, attraverso altri canali (basti pensare che i governi appena eletti controllano, innanzitutto, il consenso nel mercato borsistico).

          Si concorda circa il fatto che l’ingegneria costituzionale sia un importante esercizio mentale ma che, poi, non risolva molti problemi concreti. Sarebbe, dunque, auspicabile che il cittadino maturasse una maggiore coscienza democratica e che facesse scelte politiche non influenzate, completamente, dall’esterno: tuttavia ci si chiede come sia possibile costruire una cittadinanza davvero consapevole, che non sia esposta alle eccessive manipolazioni del potere politico-economico e dell’informazione.

          Si ritiene, però, che, data l’attuale complessità, è difficile che si creino obiettive situazioni bipolari è impossibile, perciò, preconizzare un sistema ove si possa scegliere tra due soli orientamenti politici.

          Tuttavia, la governabilità non si realizza facilmente con i governi di coalizione per cui occorre risolvere il problema del multipartitismo: sembrerebbe, dunque, necessario uscire dalla logica proporzionale. Infatti, se è vero che il maggioritario sottorappresenta è anche vero, però, che potrebbe garantire una maggiore governabilità, una maggiore chiarezza sulle varie responsabilità e, forse, un minore astensionismo. Si ricorda, infine, che il Parlamento è un rappresentante nazionale ed il candidato, una volta eletto, non deve essere “prigioniero” della volontà dei suoi elettori; quanto alla risoluzione delle crisi di governo attraverso norme che impongano nuove elezioni, si è del parere che ciò possa costituire più un incentivo che non un freno alle crisi medesime (prof. F. Tuccari).

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