Vorrei soffermarmi sull’aspetto della figura di Giorgio a me più prossimo, cioè la spiritualità cristiana, nella quale egli fu per me di esempio prima, di punto di riferimento costante poi. Ho conosciuto Giorgio nella mia adolescenza, avviando un’intera vita di amicizia con lui. Al tempo lui era un laico, vice presidente nazionale della Giac (Gioventù italiana di Azione Cattolica). Erano gli anni Sessanta, anni del Concilio Vaticano II e del post Concilio e Giorgio, nel fervore del rinnovamento, si poneva su posizioni decisamente progressiste sul piano pastorale, liturgico e teologico.

Questa sua sensibilità si è poi prolungata e impressa, una volta diventato sacerdote, come membro co-fondatore della Comunità San Paolo. Sottolineo comunità perché, assieme agli altri fondatori, voleva dare un segno diverso rispetto alla parrocchia tradizionale, e poi il nome di san Paolo, cui lui teneva molto come riferimento a quella figura fondativa del cristianesimo che fu Paolo di Tarso, con la sua peculiare teologia della kenosis. La kenosis, cioè lo svuotamento del divino fino nalla morte oblativa in croce per immergersi appieno nell’umano: erano concetti su cui Giorgio insisteva nel gruppetto di amici che con lui si trovavano a riflettere sulla Bibbia. Era una religiosità dunque la sua lontana da forme ritualistiche, fatte di culto di Madonne e madonnine, di santi e santini, di processioni e altri culti popolari, col rischio di essere tacciati, lui e gli amici, di sembrare un po’ intellettuali e aristocratici. Puntava comunque a una chiesa povera e dei poveri, lontana da trionfalismi, aliena da quella che allora chiamavamo noi giovani contestatori la “pastorale del cemento”, a favore invece di una spiritualità interiore, più vicina alla teologia protestante di un Bonhoeffer e di un Bultmann, con la sua demitologizzazione, che non alla teologia cattolica di un astro allora nascente, che fu poi papa Ratzinger.

Inevitabile che politicamente fosse più vicino alle posizioni della sinistra e noi, un po’ più giovani, eravamo con lui critici verso la balena bianca, cioè quella Democrazia cristiana che aveva occupato il potere, usurpando il nome di “cristiano” in un discutibile collateralismo politico. Per Giorgio, agli antipodi da ogni clericalismo, essere sacerdote voleva dire esercitare la santità nel mondo più che essere rappresentante di una sacralità imperniata nell’istituzione ecclesiastica. Un po’ come per i preti operai allora in voga, Giorgio pensava di agire per prima cosa nel mondo, per immettervi il lievito del Vangelo, e solo dopo celebrare la messa domenicale. Questa spiritualità interiore fatta di una fede discreta, senza ostentazioni, a volte problematica e inquieta, fu il centro propulsore dal quale si diffondeva il suo molteplice e variegato operare: senza di essa non capiremmo la sua personalità, la unitarietà del suo agire nelle varie funzioni sociali e culturali che ebbe a svolgere. Questa spiritualità è stata un lascito importante per non pochi stretti amici e i nostri cari defunti continuano a vivere in noi nella misura in cui la loro parola e il loro esempio continuano a risuonare in noi.

Concludo con una considerazione sulla Comunità San Paolo nata nel clima del post Concilio con molte ambizioni, alcune riuscite altre fallite, come la speranza, vagheggiata da Giorgio all’inizio, di poter costituire una comunità non solo di sacerdoti, ma anche di famiglie ispirata alle comunità “comuniste” cristiane delle origini. Poi, in parte per ragioni interne in parte per le mutate circostanze culturali, l’esperienza originaria del San Paolo si è conclusa. Ma io credo che sarebbe bello e utile che qualche storico locale, e purtroppo io non lo sono, se ne occupasse, indagando le ragioni profonde dell’ascesa e del declino di quell’esperienza certo unica e originale nel contesto della nostra città.

Mauro Fornaro