Le elezioni presidenziali americane si avvicinano e, in attesa di sapere quale sarà l’esito, è possibile volgere lo sguardo indietro per fare un bilancio dell’operato di Barack Obama in questi quattro anni di mandato. L’analisi e il commento della situazione politica statunitense è stata affidata a Valter Coralluzzo, docente di Scienza della Politica e Relazioni Internazionali all’Università di Perugia, e Giovanni Borgognone, docente di Storia delle Dottrine Politiche presso l’Università di Torino.
È sorprendente come Obama, dopo essere stato eletto quasi plebiscitariamente, sia riuscito ad esaurire in soli due anni (metà mandato) tutto quel capitale di fiducia conquistato, ha esordito Coralluzzo. Questa involuzione sbalorditiva è tuttavia presto spiegata: è l’economia a guidare le scelte elettorali degli americani, molto più che altri campi, come quello della politica internazionale. Obama è stato infatti nominato presidente in un momento di apice della crisi, quando la crescita del Paese era al minimo ed il tasso di disoccupazione molto significativo (è sceso solo da poco sotto la soglia dell’8% dal 2009, ed il professore ha ricordato come statisticamente un presidente americano non sia mai stato rieletto una seconda volta quando questo dato superava il 7,4%). Inoltre il debito degli Stati Uniti ha toccato, negli ultimi otto anni, la soglia dei 15 mila miliardi di dollari, con un aumento di 4 mila miliardi rispetto al periodo precedente. Fra gli elementi che oggi descrivono la situazione statunitense, inoltre, sono stati ricordati il crescente indebitamento dei giovani per la frequenza dei corsi di studio universitari e l’enorme disuguaglianza economica, che vede l’1% della popolazione detenere il 21% della ricchezza (contro il 10% degli anni ’70). La stessa mobilità sociale, componente imprescindibile del mito del sogno americano, è diminuita e risulta inferiore a quella offerta da Paesi come la Francia e la Germania.
Anche dal punto di vista della politica internazionale però la situazione non era delle più semplici. Come afferma Niall Ferguson nel suo Colossus. Ascesa e declino dell’impero americano, gli Stati Uniti non sono più in grado di sostenere la forte politica estera che li ha contraddistinti fino alle soglie di questo nuovo secolo. I deficit sarebbero sostanzialmente tre: la carenza di risorse economiche adeguate a sostenere una politica imperiale; la scarsità di risorse umane con la conseguente difficoltà di reclutamento di forze per l’esercito, che ha gradualmente delineato una guerra con un grado crescente di meccanicizzazione e tecnologizzazione; infine lo stesso sistema politico ed elettorale statunitense, che concede due soli anni ad un presidente per operare liberamente prima delle elezioni di medio termine e dell’inizio della nuova campagna elettorale.
Oltre a tutto ciò, Coralluzzo ha voluto aggiungere che Obama si è trovato di fronte ad un’anomalia: gli ultimi anni hanno visto estremizzarsi in maniera preoccupante il bipolarismo fra la destra repubblicana (con derive populiste) e la componente democratica, con episodi di ostilità e livore al Congresso che sono senza precedenti nella storia americana recente. Obama ha così cercato di riequilibrare la situazione inseguendo disperatamente le posizioni di centro, ma tradendo in questo modo il sogno di un nuovo New Deal e scontentando la sua base elettorale. La carta dello Yes we can non è stata così giocata fino in fondo, secondo una strategia che può essere stata razionalmente ricercata oppure a causa di una reale mancanza di leadership. Questo stile decisionale si è riverberato anche sulle scelte di politica estera nella quale, grazie ad un recupero del cosiddetto soft power, Obama è riuscito a creare un nuovo clima internazionale ispirato alla multilateralità e al dialogo, senza tuttavia riuscire a raggiungere tutti gli obiettivi che si era prefissato prima di entrare alla Casa Bianca.
Obama avrebbe dovuto dunque essere il nuovo Roosevelt, ha affermato Giovanni Borgognone, ma il suo ha finito per essere solo un New Deal half way (a metà). Questo non per mancanza di impegno da parte dell’attuale presidente americano (ricordiamo alcuni buoni risultati come la riforma sanitaria), ma perché il contesto politico e sociale in cui i due personaggi hanno operato è sostanzialmente differente.
Alla base delle motivazioni di questo successo solo parziale c’è innanzitutto, come già ricordava Coralluzzo, una profonda divisione presente attualmente sia nell’opinione pubblica americana che nella classe politica. La popolazione statunitense si è sempre divisa fra repubblicani e democratici, ma la figura di Obama, che è stata sempre più collegata allo statalismo di stampo europeo, ha acutizzato le posizioni dei conservatori. Questo processo si è avvertito anche all’interno dello stesso schieramento democratico. Borgognone ricorda come lo stesso Roosevelt avesse dovuto tenersi buoni i cosiddetti conservative democrats. Oggi la componente più riformista, anche all’interno del blocco democratico al Congresso è in difficoltà.
Inoltre, come si diceva all’inizio, la crisi economica ha giocato un ruolo decisivo. Anche nel 1932, anno in cui fu nominato presidente Roosevelt, c’era una crisi, ma si trattava di una crisi veramente totale (il tasso di disoccupazione era addirittura del 25%). Obama invece si è trovato di fronte un malato non moribondo. Ha cercato di risanare la situazione partendo dagli alti vertici finanziari e produttivi (le banche, le case automobilistiche,…), scontentando così il suo elettorato di riferimento, cioè quella classe media che si aspettava un cambiamento ed una politica a favore del lavoro.
Infine Obama potrebbe aver sbagliato strategia comunicativa, disattendendo le capacità da oratore che aveva dimostrato in campagna elettorale. La comunicazione dal basso che era stata portata avanti in quell’occasione è stata invece soffocata dalle gabbie dei canali ufficiali, con una conseguente minor efficacia nello spiegare la crisi e le azioni per combatterla.
A cura di G. Guglielmi