Oggi uno dei temi principali del dibattito pubblico riguarda il come affrontare e uscire dalla crisi economica. Una crisi veramente pesante, che ha colpito in qualche modo tutti, come può appurare chi vive a stretto contatto con la società. Così ha esordito il professor Andrea Segrè, ordinario di Politica agraria internazionale e comparata all’università di Bologna, ospite a Cultura e Sviluppo per presentare il suo ultimo libro Economia a colori (edito da Einaudi).

Il libro, spiega il professore, è un tentativo di affrontare i temi economici in un modo inconsueto e soprattutto adottando quel punto di vista che è tipico di un agronomo che, per studiare le piante, deve guardare le cose dal basso verso l’alto e non viceversa. È il rifiuto di quell’economia che viene fatta chiusi nelle torri d’avorio, perseguendo il fantasma della crescita illimitata.

Segrè parte da una domanda: come mai l’economia, nata come disciplina con l’affermarsi dell’industrializzazione, non riesce a prevedere nulla e di fronte alle crisi propone sempre le solite ricette? Il fatto, inoltre, che gli addetti al settore definiscano l’economia come “scienza triste” insinua il dubbio che la dimensione in cui si vuole rinchiudere il pensiero economico sia appunto quella della crisi. Allora l’idea è stata quella di cercare un percorso di analisi allegro e a colori, per vedere se i risultati e le soluzioni che scaturiscono da questo variato atteggiamento avrebbero condotto altrove.

In realtà, approfondendo le cose, ci accorgiamo che ci sono tanti colori, aggettivi e nomi che vengono usati per caratterizzare l’economia. Si pensi ad esempio alla green economy, all’economia blu, ma anche all’economia plurale/singolare, giusta/ingiusta, sostenibile (quella che  sostiene nel tempo le risorse ambientali e sociali). L’economie accompagnate da sostantivi hanno un peso importante: ad esempio l’economia della felicità, interessante perché si osserva che a un incremento della ricchezza non corrisponde automaticamente la crescita della felicità. Una volta analizzate tutte queste definizioni di economia, continua il professore, possiamo dare una rimescolata e vedere cosa succede.

Ci accorgeremo intanto che uno dei motivi che rende spesso l’economia incapace di trovare soluzioni è il fatto che sia stata da sempre anteposta all’ecologia. Etimologicamente economia significa “amministrazione della casa” (dal greco oìkos, “casa”, più nòmos, ovvero “regola”). Si tratta quindi di una casa piccola, a differenza di quella grande (il nostro pianeta) di cui si occupa l’ecologia. Allora quello che ci vorrebbe è una vera  e propria rivoluzione grammaticale e terminologica. Non è ammissibile continuare a pensare che la casa piccola contenga la casa grande. Bisogna fondare una società nuova in cui sia l’ecologia a contenere l’economia. È  quest’ultima che deve adattare le sue esigenze a quelle del macrosistema ambientale, le cui risorse non sono illimitate ma, anzi, ormai a rischio di esaurimento. L’economia insomma deve rinunciare al suo primato, retrocedere a più semplice aggettivo (si parlerà allora di ecologia economica) ed essere veramente a servizio del pianeta, la nostra casa più grande, essere uno strumento più consapevole per la vita degli essere umani. È in questa cornice che allora andrebbero inserite tutte le definizioni che abbiamo citato prima (più numerose nel libro), per evitare che la casa piccola esploda.

Il professor Segrè prende ad esempio il tema del rifiuto, un’entità sconosciuta in natura. La società dell’industrializzazione e del consumismo ha invece portato all’eccesso questo fenomeno, facendo ingrassare sempre di più il bidone della spazzatura. Tutto questo non potrà ovviamente durare ancora a lungo, le ricadute negative della produzione di rifiuti sono enormi, e questo senza valutare l’aspetto etico della faccenda. I rifiuti nascono dall’uso improprio delle risorse, dallo spreco di esse, e ciò può essere considerato un fallimento del mercato. Allo stesso tempo, e qui sta l’aspetto più inquietante, lo spreco sta anche alle fondamenta del mercato come lo conosciamo, governato dalla legge dell’usa e getta e dell’obsolescenza programmata. I prodotti sono costruiti e progettati per durare poco: pensiamo ai cellulari, sempre meno resistenti e di cui viene fatta ogni anno una versione aggiornata. Il mercato è dunque basato sullo spreco. Produco, acquisto, consumo, sostituisco, il tutto con una velocità che è aumentata nel tempo.

Invertendo gerarchicamente i due termini di economia ed ecologia, dunque, possiamo trovare interessanti soluzioni alternative. Segrè cita l’esperienza di Last minute market, spin off dell’Università di Bologna, un progetto per recuperare i beni alimentari che stanno per scadere dandoli a chi può consumarli. Si evita così un costo ecologico ed economico, dando da mangiare a chi ha fame, ma anche mettendo in relazione soggetti e istituzioni. Il cibo salvato dallo spreco diventa un bene relazionale che ha un enorme valore, facendo comunicare imprese profit e no profit. Si recuperano così quelle risorse che sono intrinseche all’atto del donare, studiate da tanta letteratura antropologica, facendoci accorgere che forse il mercato è meno cattivo di quanto possiamo pensare. Se “denaro” può essere considerato anagramma di “donare”, allora la soluzione l’abbiamo sempre avuta sotto il naso.

I percorsi alternativi dunque ci sono, e così i gruppi che in maniera sfortunatamente spezzettata e disarmonica li mettono in atto su tutto il territorio. Quello che manca veramente è la spinta della politica. È quest’ultima che deve orientare l’economia, dando una visione e conseguentemente una speranza. Invece di fare spending review, ci vorrebero delle wasting review, delle revisioni degli sprechi invece che delle spese. Dalla politica allora ci aspettiamo speranza. Da questa nascono lo sdegno per come vanno le cose, ma anche il coraggio per cambiarle. Solo così avremo anche un’economia più solidale e civile.

A cura di G. Guglielmi